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Читать книгу: «Il ritorno dell’Agente Zero», страница 3

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Il professore scagliò in avanti il proprio peso, facendo cadere la sedia ed evitando per poco il coltello. Allo stesso tempo, spinse le gambe verso l'esterno con tutta la forza che aveva. Quando cadde sul cemento, la struttura della sedia cedette. Reid si alzò barcollando, con le membra indebolite.

L’uomo chiese aiuto in arabo, e agitò il coltello in aria senza controllo, in larghe arcate avanti e indietro per tenere Reid alla larga. Lui rimase lontano, guardando ipnotizzato il movimento della lama argentea. L’uomo spinse il braccio a destra e Reid gli saltò addosso, intrappolando il coltello, e il suo braccio, tra i loro corpi. Lo slancio li spinse entrambi in avanti e mentre l’iraniano cadeva, Reid si contorse per tagliare l’arteria femorale dietro la sua coscia. Poi piantò a terra un piede e mosse il coltello in senso inverso, per perforargli la giugulare.

Non aveva idea di come facesse a saperlo, ma era consapevole che all’uomo rimanevano quarantasette secondi di vita.

Dalle scale vicine venne rumore di passi. Con mani tremanti, Reid scattò verso la porta e si premette a un lato della soglia. La prima cosa a entrare fu una pistola, che lui identificò immediatamente come una Beretta 92 FS, seguita da un braccio e poi un torso. Reid volteggiò su di sé, prese la pistola nell’incavo nel gomito e infilò di lato il coltello di precisione tra due costole. La lama trapassò il cuore dell’uomo. Il grido gli rimase bloccato sulle labbra mentre scivolava a terra.

Poi regnò il silenzio.

Reid barcollò all’indietro. Respirava in deboli ansimi.

“Oh, Dio,” ansimò. “Oh, Dio.”

Aveva appena ucciso… no, aveva appena assassinato quattro uomini nell’arco di pochi secondi. La cosa peggiore era che era stata un’azione di riflesso, d’impulso, come andare in bicicletta. O parlare in arabo all’improvviso. O conoscere il fato di uno sceicco.

Era un professore. Aveva dei ricordi. Aveva dei figli. Una carriera. Ma chiaramente il suo corpo sapeva come combattere, anche se lui non aveva idea del perché. Sapeva come liberarsi dalle corde. Sapeva come sferrare un colpo mortale.

“Che cosa mi sta succedendo?” ansimò.

Si coprì gli occhi mentre un’ondata di nausea lo assaliva. C’era del sangue sulle sue mani, letteralmente. Sangue sulla sua maglietta. Man mano che l’adrenalina lo lasciava, le membra cominciavano a dolergli per essere stato fermo troppo a lungo. La caviglia gli pulsava ancora per il salto giù dalla veranda. Era stato pugnalato a una coscia. Aveva una ferita aperta dietro l’orecchio.

Non voleva nemmeno pensare a come fosse il suo volto in quel momento.

Esci di qui, gli gridò il suo cervello. Ne possono arrivare altri.

“Okay,” disse ad alta voce, come se stesse concordando con qualcun altro nella stanza. Cercò di rallentare i suoi ansimi meglio che poté e scrutò l’ambiente dove si trovava. Il suo sguardo offuscato si concentrò su certi dettagli, come la Beretta. Un rigonfiamento rettangolare nella tasca del suo interrogatore. Uno strano segno sul collo del gigante.

Si inginocchiò di fianco al grosso uomo e fissò la cicatrice. Era vicina alla mascella, parzialmente oscurata dalla barba, e non più grande di una monetina. Sembrava una specie di marchio, inciso a fuoco nella pelle, e con l’aspetto di un glifo, come una lettera di un altro alfabeto. Non lo riconosceva. Reid lo studiò per diversi secondi, memorizzandolo.

Cercò rapidamente nella tasca dell’interrogatore morto e trovò un antico telefono cellulare. Probabilmente un telefono usa e getta, gli comunicò il suo cervello. In tasca all'uomo alto c’era un pezzo di carta bianca, con un angolo macchiato di sangue. In una scrittura scarabocchiata e quasi illeggibile c’era una lunga serie di numeri che iniziava per 963, il prefisso internazionale per chiamare la Siria.

Su nessuno degli uomini c’erano segni identificativi, ma l’ultimo con la pistola aveva una grossa mazzetta di banconote in euro, forse qualche migliaio. Reid si infilò anche quella in tasca, e infine prese la Beretta. Il peso dell'arma gli sembrava stranamente naturale tra le mani. Calibro nove millimetri. Cartuccia di quindici colpi. Cilindro da centoventicinque millimetri.

Le sue mani estrassero abilmente il caricatore in un gesto fluido, come se fossero controllate da qualcun altro. Tredici colpi. Lo rinfilò e  l’armò.

Poi uscì di lì.

Fuori dalle grosse porte di metallo c’era uno squallido corridoio che finiva in una scalinata, che a sua vota portava verso l’alto. In cima si intravedeva la luce del giorno. Reid fece cautamente le scale, con la pistola alzata, ma non udì niente. L’aria diventava sempre più fresca man mano che saliva.

Si trovò in una piccola cucina sporca, con le pareti scrostate e pile di piatti coperti di rimasugli dentro il lavandino. Le finestre erano traslucide, imbrattate di grasso. Il radiatore in un angolo era freddo al tocco.

Reid controllò il resto dalla casetta; non c’era nessun altro a parte i quattro uomini morti nello scantinato. L’unico bagno era in uno stato persino peggiore della cucina, ma vi trovò un kit di pronto soccorso dall’aria antica. Non osò guardarsi allo specchio mentre si lavava quanto più sangue poteva dal volto e dal collo. Tutto, dalla testa ai piedi, gli faceva male, era indolenzito o bruciava. Il piccolo tubetto di antisettico era scaduto tre anni prima, ma lo usò ugualmente, sussultando mentre premeva le bende sui tagli aperti.

Poi si sedette sul water e si strinse la testa tra le mani, prendendosi un momento per recuperare la calma. Potresti andartene, si disse. Hai dei soldi. Vai all’aeroporto. No, non hai un passaporto. Vai all’ambasciata. O trova un consolato. Ma…

Ma aveva appena ucciso quattro uomini, e il suo sangue era sparso per tutto lo scantinato. E c'era anche un altro problema, molto più grave.

“Non so chi sono,” mormorò ad alta voce.

Quei lampi, quelle visioni che gli apparivano nella mente, erano tutti dalla sua prospettiva. Il suo punto di vista. Ma non aveva, non avrebbe mai fatto niente del genere. Soppressione della memoria, aveva detto l’interrogatore. Era  mai possibile? Pensò di nuovo alle sue figlie. Erano al sicuro? Avevano paura? Erano… sue?

Quell’idea lo scosse nel profondo. E se, in qualche modo, quello che aveva creduto fosse reale non lo fosse stato affatto?

No, si disse con fermezza. Erano le sue figlie. Era stato presente alla loro nascita. Le aveva cresciute. Nessuna di quelle visioni bizzarre e intrusive lo contraddiceva. E doveva trovare un modo per contattarle, per accertarsi che stessero bene. Erano la sua priorità principale. Non poteva usare il cellulare usa e getta per contattare la sua famiglia, non sapeva se fosse tracciato o chi potesse essere in ascolto.

Improvvisamente ricordò il pezzo di carta con sopra il numero di telefono. Si alzò e lo tirò fuori dalla tasca. Fissò la carta macchiata di sangue. Non sapeva di cosa si trattasse o perché credessero che fosse una persona diversa da quella che diceva di essere, ma nelle profondità della sua coscienza c’era una certa urgenza, qualcosa che diceva che suo malgrado era stato coinvolto in un affare molto, molto più grande di lui.

Con mani tremanti, fece il numero sul cellulare.

Una burbera voce maschile rispose al secondo squillo. “Avete fatto?” chiese in arabo.

“Sì,” rispose Reid. Cercò di mascherare la voce il meglio possibile e di fingere l’accento giusto.

“Hai le informazioni?”

“Mh.”

La voce rimase in silenzio per un lungo momento. Il cuore di Reid gli tamburellava nel petto. Aveva capito che non era l’interrogatore?

“Rue de Stalingrad 187,” disse alla fine l’uomo. “Alle otto di sera.” E riappese.

Reid chiuse il cellulare e fece un profondo respiro. Rue de Stalingrad? pensò. In Francia?

Non sapeva ancora cosa fare. Gli sembrava che la sua mente avesse buttato giù un muro e che avesse scoperto un’altra stanza dall’altra parte. Non poteva tornare a casa senza sapere che cosa gli stava succedendo. E anche se lo avesse fatto, quanto ci sarebbe voluto perché ritrovassero lui e le ragazze, come la prima volta? Tutto quello che aveva era un indizio. Doveva seguirlo.

Uscì dalla piccola casa e si ritrovò in un vicolo stretto, che si apriva su una strada chiamata Rue Marceau. Capì subito dove era, un sobborgo di Parigi, a poca distanza dalla Senna. Gli venne quasi da ridere. Aveva creduto di essere in mezzo alle strade distrutte dalla guerra di una città del Medio Oriente. Invece era in un viale pieno di negozi e casette a schiera, dove normali passanti si godevano il pomeriggio, infagottati contro la gelida brezza di febbraio.

Si infilò la pistola nella vita dei jeans e uscì in strada, mescolandosi alla folla e cercando di non attirare l’attenzione sulla maglia sporca di sangue, le bende o gli ovvi lividi. Si strinse le braccia attorno al corpo. Avrebbe avuto bisogno di nuovi abiti, una giacca, e qualcosa di più caldo di una camicia.

Doveva accertarsi che le sue ragazze fossero al sicuro.

Poi avrebbe trovato delle risposte.

CAPITOLO QUATTRO

Camminare per le strade di Parigi era un sogno, solo che c’era finito in una maniera che nessuno si sarebbe auspicato. Reid raggiunse l’incrocio tra Rue de Berri e Avenue des Champs-Élysées, una zona sempre frequentata di turisti nonostante il tempo freddo. L’Arc de Triomphe si profilava in lontananza a nord-ovest, il monumento centrale di Place Charles de Gaulle, ma la sua grandezza era invisibile agli occhi di Reid. Una nuova visione gli era apparsa nella mente.

Sono già stato qui. Sono stato in questo punto a guardare i cartelli stradali. Indossavo jeans e una giacca nera da motociclista, i colori del mondo appiattiti dagli occhiali scuri…

Voltò verso destra. Non era certo di che cosa avrebbe trovato, ma aveva lo strano sospetto che l’avrebbe capito quando lo avesse visto. Era una sensazione bizzarra, non sapere dove stava andando fino a quando non fosse arrivato a destinazione.

Si sentiva come se ogni nuovo panorama portasse con sé un vago ricordo, ognuno sconnesso dall’altro, ma in un certo modo congruenti. Sapeva che il bar all’angolo vendeva i migliori pasticcini che avesse mai gustato. Il profumo dolce della pasticceria dall'altra parte della strada gli faceva venire l’acquolina in bocca e voglia di ventagli di pasta sfoglia. Ma non li aveva mai mangiati. Non era così?

Persino i suoni lo turbavano. I passanti chiacchieravano pigramente mentre passeggiavano per il viale, lanciando occhiate rapide al suo volto contuso e bendato.

“Non voglio sapere che faccia ha il tizio con cui si è scontrato,” borbottò un giovane francese alla sua ragazza. Entrambi ridacchiarono.

Okay, niente panico, pensò Reid. A quanto pare conosco l’arabo e anche il francese. L’unico altro linguaggio che il professor Lawson parlava era il tedesco, e qualche frase in spagnolo.

C’era anche qualcos’altro, di più difficile da definire. Sotto i nervi scossi e l’istinto di scappare, di tornare a casa, di andare a nascondersi, sotto tutto quello c’era una corrente fredda e dura come l’acciaio. Era come avere la mano pesante di un fratello maggiore sulla spalla, una voce in fondo alla mente che diceva: Rilassati. Sai cosa fare.

Mentre quella voce lo sospingeva dolcemente dal fondo della sua stessa mente, al centro dei suoi pensieri c’erano le sue ragazze e la loro sicurezza. Dove erano? A che cosa stavano pensando in quel momento? Che cosa gli sarebbe successo se avessero perso entrambi i genitori?

Non aveva mai smesso di pensare a loro. Persino mentre lo picchiavano in quell’orribile prigione nello scantinato, anche con quelle visioni che si intrufolavano nella sua testa, continuava a pensare alle sue figlie, e in particolare all’ultima questione. Che cosa gli sarebbe successo se fosse morto in quello scantinato? O se fosse morto in quella assurda missione che stava intraprendendo?

Doveva esserne sicuro. In qualche modo doveva mettersi in contatto con loro.

Per prima cosa gli serviva una giacca, e non solo per coprire la camicia sporca di sangue. La temperatura a febbraio si aggirava intorno ai dieci gradi, ma era comunque troppo freddo per girare in camicia. Il viale formava una specie di tunnel del vento e la brezza era gelida. Si infilò nella boutique d’abiti più vicina e scelse il primo cappotto che colse il suo sguardo: una giacca di pelle color marrone scuro, con la fodera di lana. Strano, pensò. Non avrebbe mai scelto una giacca come quella in passato, vista la sua passione per il tweed e il plaid, ma ne era stato attirato.

La giacca di pelle costava duecentoquaranta euro. Niente di grave, aveva le tasche piene di soldi. Scelse anche una camicia nuova, una maglietta color grigio ardesia e poi un paio di jeans, calzini nuovi e robusti stivali marroni. Portò tutti gli indumenti al bancone e pagò in contanti.

Su una delle banconote c’era un’impronta insanguinata, ma il commesso dal volto impassibile fece finta di non notarla. Una visione simile a un lampo gli apparve nella mente:

“Un uomo entra in una stazione di servizio coperto di sangue. Paga la sua benzina e fa per andarsene. Il benzinaio sbalordito lo chiama: ‘Ehi, amico, stai bene?’ L’uomo sorride. ‘Oh, sì, tutto a posto. Non è il mio sangue.’”

Non ho mai sentito questa barzelletta prima di adesso.

“Posso usare i vostri camerini?” chiese in francese.

Il commesso indicò verso il fondo del negozio. Non aveva pronunciato una sola parola per tutta la transazione.

Prima di cambiarsi, Reid si guardò per la prima volta in uno specchio pulito. Gesù, aveva un aspetto spaventoso. Il suo occhio destro si stava gonfiando e il sangue aveva macchiato le bende. Avrebbe dovuto trovare una farmacia e comprare del materiale da primo soccorso decente. Si sfilò i jeans luridi e macchiati di sangue sulla coscia ferita, sussultando per il dolore. Qualcosa cadde a terra, spaventandolo. La Beretta. Si era quasi dimenticato di averla.

La pistola era più pesante di quanto si sarebbe immaginato. Novecento quarantacinque grammi, scarica, pensò. Prenderla in mano era come abbracciare un ex amante, familiare ed estraneo allo stesso tempo. La appoggiò e finì di cambiarsi, spinse i vestiti vecchi nella busta del negozio e si infilò la pistola nella vita dei nuovi jeans, dietro la schiena.

Sul viale, Reid tenne la testa bassa e camminò in fretta, con lo sguardo puntato sul marciapiede. Non aveva bisogno di essere distratto da altre visioni in quel momento. Gettò la busta con i vestiti vecchi in un cassonetto in un angolo senza nemmeno rallentare.

“Oh! Excusez-moi,” si scusò quando colpì con una spallata una donna di passaggio in un tailleur elegante. Lei gli lanciò un’occhiataccia. “Mi dispiace molto.” La donna sbuffò e si allontanò. Reid si infilò le mani nelle tasche della giacca, insieme al cellulare che le aveva sfilato dalla borsetta.

Era stato facile. Troppo facile.

Un paio di isolati dopo, si rifugiò sotto il tendone di un negozio e tirò fuori il cellulare rubato. Emise un sospiro di sollievo: aveva preso di mira quella donna d’affari per una ragione, e il suo istinto non si era sbagliato. Aveva Skype installato sul cellulare e un account collegato a un numero americano.

Aprì il browser internet del telefono, cercò il numero di Pap’s Deli nel Bronx e chiamò.

Una giovane voce maschile rispose in fretta. “Pap’s, come posso aiutarvi?”

“Ronnie?” Uno dei suoi studenti dell’anno precedente lavorava part time nella rosticceria che preferiva. “Sono il professor Lawson.”

“Ehi, prof!” rispose allegramente il giovane uomo. “Come va? Vuole fare un ordine d’asporto?”

“No. Sì… più o meno. Ascolta, ho bisogno di un enorme favore, Ronnie.” Pap’s Deli era a soli sei isolati da casa sua. Quando era bel tempo, andava a piedi per prendere i panini. “Hai Skype sul tuo cellulare?”

“Sì?” rispose Ronnie, con un tono confuso nella voce.

“Bene. Ecco quello che mi serve che tu faccia. Scriviti questo numero…” Disse al ragazzo di correre a casa sua, vedere chi ci fosse, se c’era qualcuno, e richiamare il numero americano su quel telefono.

“Professore, è nei guai?”

“No, Ronnie, va tutto bene,” mentì. “Ho perso il mio telefono e una donna gentile mi sta lasciando usare il suo per far sapere alle ragazze che sto bene. Ma ho solo qualche minuto. Quindi se potessi…”

“Non dica altro, prof. Felice di aiutarla. La richiamo tra qualche minuto.” Ronnie riappese.

Mentre aspettava, Reid camminò avanti e indietro sotto il tendone, controllando il telefono ogni manciata di secondi per non perdere la chiamata. Gli sembrò che fosse passata un’ora prima che suonasse di nuovo, anche se in realtà si trattò solo di sei minuti.

“Pronto?” rispose alla chiamata su Skype al primo squillo. “Ronnie?”

“Reid, sei tu?” Un’agitata voce femminile.

“Linda!” disse senza fiato lui. “Sono così felice che tu sia lì. Ascolta, devo sapere…”

“Reid, che cosa è successo? Dove sei?” volle sapere la donna.

“Le ragazze, sono a…”

“Che cosa è successo?“ lo interruppe Linda. “Le ragazze si sono svegliate questa mattina, sono andate giù di testa perché eri sparito, quindi mi hanno chiamata e io mi sono precipitata…”

“Linda, ti prego,” cercò di intervenire, “dove sono?”

Lei continuò a parlargli sopra, chiaramente turbata. Linda aveva molte buone qualità, ma la lucidità nei momenti di crisi non era fra di esse. “Maya ha detto che a volte vai a fare delle passeggiate al mattino, ma sia la porta davanti che quella sul retro erano spalancate, e lei voleva chiamare la polizia perché non lasci mai il cellulare a casa, e ora arriva questo ragazzo della rosticceria e mi dà il suo telefono…?”

“Linda!” sibilò seccamente Reid. Due uomini anziani che passavano di lì sobbalzarono al suo scoppio. “Dove sono le ragazze?”

“Sono qui,” ansimò la donna. “Sono entrambe qui, a casa insieme a me.”

“Sono al sicuro?”

“Sì, certo. Reid, che cosa sta succedendo?”

“Hai chiamato la polizia?”

“Non ancora, no… alla televisione dicono che bisogna aspettare ventiquattro ore per poter segnalare qualcuno come disperso… Sei finito nei guai? Da dove mi stai chiamando? Che account è questo?”

“Non te lo posso dire. Ascoltami e basta. Di’ alle ragazze di preparare una valigia e portale in albergo, ma non in uno vicino, esci dalla città. Magari nel Jersey…”

“Reid, cosa?”

“Il mio portafoglio è sulla scrivania dell’ufficio. Non usare direttamente la carta di credito. Prendi prima del denaro contante da tutte le carte che ci sono e usalo per pagare l’albergo. Non dare una data per il check out.”

“Reid! Non ho intenzione di fare niente fino a quando non mi dici che cosa… aspetta un secondo.” La voce di Linda si fece soffocata e distante. “Sì, è lui. Sta bene. Almeno credo. Aspetta, Maya!”

“Papà? Papà, sei tu?” Una nuova voce a telefono. “Che cosa è successo? Dove sei?”

“Maya! Io, uh, ho dovuto sbrigare una faccenda, è stata una cosa estremamente all’ultimo minuto. Non ho voluto svegliarti….”

“Mi stai prendendo in giro?” La sua voce era stridula, agitata e preoccupata allo stesso tempo. “Non sono stupida, papà. Dimmi la verità.“

Lui sospirò. “Hai ragione. Mi dispiace. Non posso dirti dove sono, Maya, e non dovrei rimanere a telefono tanto a lungo. Solo, fai quello che dice tua zia, okay? Dovrete stare fuori di casa per un po’. Non andate a scuola. Non girate da sole. Non parlate di me a telefono o per computer. Hai capito?”

“No, non capisco! Hai dei problemi? Dovremmo chiamare la polizia?”

“No, non farlo,” disse lui. “Non ancora. Dammi solo un po’ di tempo per sistemare questa faccenda.”

Lei rimase in silenzio per un lungo momento. Poi disse: “Promettimi che stai bene.”

Reid sussultò.

“Papà?”

“Sì,” rispose forzatamente. “Sto bene. Ti prego, fai quello che ti ho chiesto e vai con la zia Linda. Voglio bene a entrambe, di’ a Sara che te l’ho detto, e abbracciala per me. Vi contatterò non appena potrò.”

“Aspetta, aspetta,” lo fermò Maya. “Come farai a contattarci se non saprai dove siamo andate?”

Ci rifletté per un istante. Non poteva chiedere a Ronnie di compromettersi più di così. Non poteva chiamare direttamente le ragazze. E non poteva rischiare di sapere dove fossero, perché avrebbero potute essere usate come merce di scambio contro di lui…

“Creerò un finto account,” propose Maya, “sotto un altro nome. Tu sai quale è. Io ci entrerò solo dal computer dell’albergo. Se vuoi contattarci, manda un messaggio.”

Reid capì al volo. Fu colto da un’ondata di orgoglio; era così intelligente, e molto più lucida sotto pressione di quanto avrebbe osato sperare.

“Papà?”

“Sì,” disse lui. “Va bene. Prenditi cura di tua sorella. Devo andare…”

“Anche io ti voglio bene,” rispose Maya.

Reid chiuse la chiamata. Poi tirò su con il naso. Eccolo di nuovo, l’istinto bruciante di correre a casa da loro, di tenerle al sicuro, di mettere in valigia tutto quello che potevano e andarsene, via lontano…

Non poteva farlo. Di qualunque cosa si trattasse, chiunque fosse che gli stava dando la caccia, lo avevano trovato una volta. Era stata una fortuna che non volessero anche le sue figlie. Forse non sapevano di loro. La prossima volta, se ci fosse stata, forse non avrebbe avuto tanta fortuna.

Reid aprì il telefono, ne entrasse la carta SIM e la spezzò in due. Lasciò cadere i pezzi in un tombino. Mentre si incamminava in strada, lasciò la batteria in un cestino del pattume, e le due metà del telefono in altri cestini.

Sapeva che era genericamente diretto verso Rue de Stalingrad, anche se non aveva idea di che cosa avrebbe fatto una volta che ci fosse arrivato. Il suo cervello gridava di cambiare direzione, di andare ovunque tranne che lì. Ma il sangue freddo che pervadeva il suo subconscio lo spinse ad avanzare.

I suoi rapitori gli avevano chiesto che cosa sapeva dei loro ‘piani’. I posti di cui gli avevano domandato, Zagreb e Madrid e Teharan, dovevano essere collegati, ed erano chiaramente legati anche agli uomini che lo avevano catturato. Qualunque cosa fossero quelle visioni—ancora si rifiutava di ammettere che fossero altro—c’era in esse la conoscenza di qualcosa che era già successo o che stava per accadere. Una conoscenza che non aveva saputo di possedere. Più ci pensava, più sentiva una certa urgenza sospingerlo dal fondo della sua mente.

No, era più di quello. Era un obbligo.

A quanto pareva i suoi rapitori erano stati disposti a ucciderlo per quello che sapeva. E lui aveva la sensazione che se non avesse scoperto di che cosa si trattava e che cosa avrebbe dovuto sapere, molta più gente sarebbe morta.

Monsieur.” Reid fu strappato dai suoi pensieri da una donna in carne con uno scialle, che gli toccò gentilmente il braccio. “Sta sanguinando,” disse lei in inglese, e si indicò il sopracciglio.

“Oh. Merci.” Lui si portò due dita alla fronte. Un piccolo taglietto gli aveva impregnato la benda e una goccia di sangue gli stava colando lungo il viso. “Devo trovare una farmacia,” borbottò ad alta voce.

Rimase senza fiato quando fu colpito da un pensiero: c’era una farmacia a due isolati di distanza. Non c’era mai entrato, secondi i ricordi della sua memoria infida, ma semplicemente lo sapeva, con la stessa facilità con cui conosceva il percorso per arrivare al Pap’s Deli.

Gli corse un brivido dalla base della spina dorsale fino al collo. Le altre visioni erano state viscerali, e si erano manifestate tutte in seguito a qualche stimolo esterno, come una visione, suoni e persino odori. Quella volta non c’era stata nessuna visione. Era semplicemente un ricordo, proprio come aveva saputo dove andare davanti a ogni cartello stradale. Lo stesso modo in cui sapeva come caricare una Beretta.

Prese una decisione prima che il semaforo diventasse verde. Sarebbe andato a quell’incontro e avrebbe ottenuto qualsiasi informazione fosse stato possibile. Poi avrebbe deciso cosa farci, se fare rapporto alle autorità, e scagionarsi riguardo alla morte dei quattro uomini nello scantinato. Lasciare che la polizia facesse il suo mestiere mentre lui tornava a casa dalle sue figlie.

In farmacia, comprò un tubetto di supercolla, una scatola di cerotti a farfalla, dei tamponi di cotone e un fondotinta del colore del suo incarnato. Portò i suoi acquisti in bagno e chiuse la porta.

Si tolse le bende che si era messo goffamente all’appartamento e si lavò il sangue incrostato dalle ferite. Sui tagli più piccoli applicò i cerotti a farfalla. Su quelli più profondi, che normalmente avrebbero richiesto dei punti, strinse insieme la pelle e vi depositò una goccia di supercolla, sibilando tra i denti per tutto il tempo. Poi trattenne il fiato per circa trenta secondi. La colla bruciava, ma man mano che si asciugava smise di infastidirlo. Alla fine si passò il fondotinta sul volto, in particolare sulle opere dei suoi sadici ex rapitori. Non era possibile riuscire a mascherare l’occhio gonfio e la mascella livida, ma almeno così meno gente lo avrebbe fissato per la strada.

L’intero procedimento impiegò mezz’ora, e due volte in quell’arco di tempo dei clienti gli bussarono alla porta (la seconda, una donna aveva gridato in francese che il figlio stava per scoppiare). Entrambe le volte, Reid aveva gridato: “Occupé!”

Alla fine, quando ebbe concluso, si riguardò allo specchio. Era tutt’altro che perfetto, ma almeno non sembrava che fosse stato brutalizzato in una sala delle torture sotterranea. Si chiese se non avrebbe fatto meglio a scegliere un fondotinta più scuro, qualcosa che lo avrebbe fatto sembrare straniero. La persona con cui aveva parlato sapeva con chi avrebbe dovuto incontrarsi? Avrebbe riconosciuto chi era, o meglio, chi pensavano che lui fosse? I tre uomini che erano andati a casa sua non erano sembrati molto sicuri, lo avevano persino confrontato con una fotografia.

“Che cosa sto facendo?” si chiese. Ti stai preparando per un incontro con un pericoloso criminale che probabilmente è un noto terrorista, disse la voce nella sua testa, e non la nuova coscienza invadente, ma la sua, quella di Reid Lawson. Era il suo stesso buon senso, che si prendeva gioco di lui.

Poi la personalità pacata e sicura di sé, quella appena sotto la superficie, parlò. Andrà tutto bene, gli disse. Non è niente che tu non abbia già fatto. Istintivamente portò la mano al calcio della Beretta infilata dietro ai suoi pantaloni, nascosta dalla nuova giacca. Sai come comportarti.

Prima di uscire dalla farmacia, comprò qualche altro oggetto: un orologio economico, una bottiglia d’acqua e due tavolette di cioccolato. Fuori sul marciapiede, divorò entrambe le barrette. Non era certo di quanto sangue avesse perso e voleva tenere alti i livelli di zucchero. Scolò l’intera bottiglietta d’acqua e poi chiese l’ora a un passante. Sistemò l’orologio e se lo infilò al polso.

Erano le sei e mezza. Aveva tutto il tempo per arrivare al luogo d’incontro in anticipo e prepararsi.

*

Si era quasi fatto buio quando raggiunse l’indirizzo che gli era stato dato per telefono. Il tramonto su Parigi lanciava lunghe ombre sui viali. Rue de Stalingrad 187 corrispondeva a un bar nel decimo arrondissement chiamato Féline, un postaccio con le finestre dipinte di nero e la facciata malmessa. Era in una strada altrimenti popolata da studi d’arte, ristoranti indiani e bar bohémien.

Reid si fermò con una mano sulla porta. Una volta entrato non sarebbe più potuto tornare indietro. Ancora poteva andarsene. No, decise, invece non poteva. Dove sarebbe andato? A casa, per farsi ritrovare di nuovo? E a vivere con quelle strane visioni nella testa?

Entrò.

Le pareti del bar erano dipinte di nero e coperte di poster anni ’50 con donne dal volto severo, portasigarette e silhouette. Era troppo presto, o forse troppo tardi, perché il posto fosse affollato. I pochi clienti all’interno parlavano a bassa voce, curvi con aria protettiva sui loro drink. Una melanconica musica blues suonava dolcemente da uno stereo dietro il bancone del bar.

Reid controllò tutto il posto, da destra a sinistra e poi da capo. Nessuno guardò verso di lui, e di certo nessuno somigliava ai tipi che lo avevano rapito. Si accomodò a un tavolino sul fondo e si sedette guardando verso la porta. Ordinò un caffè, anche se per lo più lo lasciò fumare davanti a sé.

Un vecchio uomo curvo scese dal suo sgabello e si avviò zoppicando verso i bagni. Reid si scoprì ipnotizzato dal suo movimento e studiò l’uomo. Sulla sessantina. Displasia dell’anca. Dita ingiallite, respiro pesante: un fumatore di sigari. Senza spostare la testa il suo sguardo corse dall’altro lato del bar, dove due uomini dall’aria burbera e in tute da lavoro stavano avendo una conversazione sussurrata ma concitata sullo sport. Operai. Quello sulla sinistra non dorme abbastanza, probabilmente ha dei figli piccoli. L’uomo sulla destra è stato in una rissa di recente, o almeno ha dato un pugno, dato che le sue nocche sono ferite. Senza pensare, si ritrovò a esaminare gli orli dei loro pantaloni, le loro maniche, il modo in cui appoggiavano i gomiti sul tavolo. Qualcuno con una pistola cercherebbe di proteggerla, di nasconderla, anche inconsciamente.

Reid scosse la testa. Stava diventando paranoico, e quei pensieri persistenti ed estranei non lo stavano aiutando. Poi si ricordò lo strano avvenimento della farmacia, come si fosse ricordato di un posto solo dopo aver detto ad alta voce che gliene serviva uno. Lo studioso dentro di lui intervenne. Forse c’è qualcosa che puoi imparare da questa consapevolezza. Forse invece di combatterla, dovresti provare ad aprirti a essa.

La cameriera era una giovane donna dall’aria stanca con una gran massa di capelli scuri e arruffati. “Stylo?” le chiese quando gli passò vicino. “Ou crayon?” Penna o matita? Lei infilò una mano in mezzo ai capelli e ne estrasse una penna. “Merci.”

Spianò un tovagliolo da cocktail e ci appoggiò sopra la punta della penna. Quella non era una nuova abilità di origine sconosciuta, bensì una tecnica del professor Lawson, una che aveva usato molte volte in passato per rafforzare la memoria.

Ripensò alla conversazione, se così poteva definirla, con i tre rapitori arabi. Cercò di non pensare ai loro occhi morti, al sangue per terra, o alla vaschetta di strumenti affilati per tagliargli di dosso qualsiasi verità credessero che avesse. Invece si concentrò sui dettagli verbali e scrisse il primo nome che gli tornò in mente.

Poi lo borbottò ad alta voce. “Sceicco Mustafar.”

299 ₽
Возрастное ограничение:
16+
Дата выхода на Литрес:
09 сентября 2019
Объем:
431 стр. 3 иллюстрации
ISBN:
9781094310022
Правообладатель:
Lukeman Literary Management Ltd
Формат скачивания:
epub, fb2, fb3, ios.epub, mobi, pdf, txt, zip

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