Читать книгу: «Il ritorno dell’Agente Zero»
Jack Mars
Jack Mars è l’autore bestseller di USA Today della serie di thriller LUKE STONE, che per ora comprende sette libri. È anche autore della nuova serie prequel FORGING OF LUKE STONE, e della serie spy thriller AGENTE ZERO.
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LIBRI DI JACK MARS
SERIE THRILLER DI LUKE STONE
A OGNI COSTO (Libro #1)
IL GIURAMENTO (Libro #2)
SERIE SPY THRILLER KENT STEELE
AGENTE ZERO (Libro #1)
OBIETTIVO ZERO (Libro #2)
“La vita dei morti è riposta nella memoria dei vivi.”
—Marcus Tullius Cicero
CAPITOLO UNO
La prima lezione della giornata era sempre la più difficile. Gli studenti entrarono barcollando nell'aula magna della Columbia University come irrequieti zombie dallo sguardo spento, ottenebrati da nottate passate sui libri, postumi di sbronze, o una combinazione delle due. Portavano pantaloni di tuta e t-shirt del giorno prima, e stringevano tazze da asporto di cappuccini alla soia o caffè artigianali, o qualunque altra cosa piacesse bere ai ragazzi in quel periodo.
Il lavoro del professor Reid Lawson era insegnare, ma capiva che la mattina serviva qualcosa di intenso per svegliare gli studenti, che stimolasse la mente, in aggiunta alla caffeina. Lawson diede ai ragazzi un momento per trovare i propri posti e per mettersi comodi, mentre si toglieva il cappotto sportivo di tweed e lo drappeggiava sullo schienale della sedia.
"Buon giorno," disse ad alta voce. L'annuncio fece sobbalzare diversi studenti, che alzarono di scatto lo sguardo come se si fossero resi conto solo allora di essere arrivati in classe. "Oggi parleremo di pirati."
Quella frase gli fece guadagnare l'attenzione dell'aula. Diverse paia d'occhi si focalizzano su di lui, battendo le palpebre nel mezzo della nebbia della privazione del sonno e cercando di capire se avesse davvero detto "pirati" o meno.
"Quelli dei Caraibi? " scherzò uno studente nella fila davanti.
"Del Mediterraneo, in realtà," lo corresse Lawson. Cominciò ad aggirarsi lentamente con le mani giunte dietro la schiena. "Quanti di voi hanno seguito il corso del professor Truitt sugli antichi imperi?" Circa un terzo della classe sollevò la mano. "Bene. Allora sapete che l'Impero Ottomano è stato una potenza mondiale per, oh, circa seicento anni. Ciò che forse non sapete è che i corsari ottomani, o come sono noti, i pirati barbareschi, imperversarono per tutto il mare nella maggior parte di questi periodo, dalle coste del Portogallo, attraverso lo Stretto di Gibilterra, fino al Mediterraneo. Che cosa credete che volessero? Qualcuno? So che siete vivi, là in fondo."
"Soldi?" chiese una ragazza in terza fila.
"Tesori, " disse lo studente davanti.
"Rum!" Arrivò un grido da uno studente in fondo all'aula, provocando una risata nel resto della classe. Anche Reid sorrise. Dopo tutto la folla si era svegliata.
"Tutte buone idee," disse. "E la risposta è 'tutte quante'. Vedete, i pirati barbareschi prendevano principalmente di mira i vascelli mercantili europei, e gli rubavano tutto, e intendo proprio qualsiasi cosa. Scarpe, cinture, denaro, cappelli, beni vari, la nave stessa… E la sua ciurma. Si ritiene che nei due secoli dal 1580 al 1780, i pirati barbareschi abbiano catturato e schiavizzato più di due milioni di persone. Portavano i loro bottini nei loro regni Nord africani. Ed è andata avanti così per secoli. E cosa pensate che abbiano fatto le nazioni europee in risposta?"
"Hanno dichiarato guerra!" Gridò lo studente in fondo.
Una ragazza impacciata con gli occhiali dalla montatura di corno alzò leggermente la mano e chiese: “Stipularono un trattato di pace?”
“In un certo senso,” rispose Lawson. “Le potenze europee accettarono di pagare un tributo alle nazioni barbaresche, sotto forma di una grande quantità di denaro e beni. Sto parlando del Portogallo, della Spagna, della Francia, della Germania, dell’Inghilterra, della Svezia e dei Paesi Bassi… tutte pagavano i pirati perché restassero alla larga delle loro navi. I ricchi diventarono più ricchi, e i pirati si tirarono indietro, in larga parte. Ma poi, nel tardo diciottesimo e diciannovesimo secolo, successe qualcosa. Si verificò un evento che sarebbe stato il catalizzatore della fine dei pirati barbareschi. Qualcuno vuole azzardare un’ipotesi?”
Nessuno aprì bocca. Sulla sua destra, Lawson notò un ragazzo che stava cercando sul cellulare.
“Signor Lowell,” disse. Il ragazzo scattò sull’attenti. “Qualche idea?”
“Uhm… è per via dell’America?”
Lawson sorrise. “Me la sta chiedendo o me lo sta dicendo? Dia con sicurezza le sue risposte, e il resto di noi almeno crederà che sa di cosa sta parlando.”
“È per via dell’America,” disse il ragazzo di nuovo, con più enfasi.
“Esatto! È colpa dell’America. Ma come sapete, all'epoca eravamo una nazione appena nata. L’America era più giovane della maggior parte di voi. Dovevamo creare rotte commerciali con l’Europa per promuovere la nostra economia, ma i pirati barbareschi iniziarono a prendere di mira le nostre navi. Quando ci lamentammo con loro, ci richiesero un tributo. Quasi non avevamo una tesoreria, men che meno dei tesori all’interno. Il nostro salvadanaio era vuoto. Che scelta avevamo? Che cosa potevamo fare?”
“Dichiarare guerra!” si alzò la voce familiare dal fondo della sala.
“Precisamente! Non avevamo altra scelta se non di dichiarare guerra. Ora, la Svezia stava già combattendo contro i pirati da un anno e insieme, tra il 1801 e il 1805, prendemmo il porto di Tripoli e catturammo la città di Derne, mettendo fine al conflitto.” Lawson si appoggiò al bordo della cattedra e strinse le mani davanti a sé. “Ovviamente, così sorvoliamo su molti dettagli, ma questa è una lezione di storia europea, non americana. Se ne avete l’occasione, dovreste leggere del tenente Stephen Decatur e la USS Philadelphia. Ma sto divagando. Perché stiamo parlando di pirati?”
“Perché i pirati sono fighi?” rispose Lowell, che ormai aveva messo via il cellulare.
Lawson ridacchiò. “Non posso darti torto. Ma no, non è questo il motivo. Stiamo parlando di pirati perché la guerra di Tripoli rappresenta qualcosa visto di rado negli annali della storia.” Si raddrizzò, guardando tutta l’aula e incontrando gli sguardi di numerosi studenti. Almeno in quel momento Lawson riusciva a vedere la luce nei loro occhi, segno che la maggior parte quella mattina era viva, se non proprio attenta. “Per centinaia di secoli, nessuno dei paesi europei si era opposto alle nazioni barbaresche. Era più semplice pagarle. Servì l’America, che allora era una barzelletta per la maggior parte del mondo sviluppato, a portare un cambiamento. Fu necessario un atto di disperazione di una nazione assurdamente e disperatamente disarmata per spostare le dinamiche di potere della rotta commerciale più importante del mondo. Ed è in questo che consiste la lezione.”
“Non si scherza con l’America,” provò a dire qualcuno.
Lawson sorrise. “Beh, sì.” Alzò un dito per aria sottolineare il concetto. “Ma soprattutto, che la disperazione e una completa mancanza di scelte possibili possono, e hanno portato nel corso della storia, ad alcuni dei maggiori trionfi che il mondo abbia visto. La storia ci ha insegnato, ancora e ancora, che non esiste un regime troppo grande da rovesciare, e nessun paese troppo piccolo o debole per poter fare la differenza.” Fece l’occhiolino. “Pensateci la prossima volta che vi sentite poco più di una briciola in questo mondo.”
Alla fine della lezione, c’era una netta differenza tra gli studenti stanchi e ciondoloni che erano entrati e il gruppo ridente e ciarliero che uscì dall’aula. Una ragazza dai capelli rosa si fermò alla sua cattedra mentre usciva e commentò: “Bel discorso, professore. Quale era il nome del tenente americano di cui ha parlato prima?”
“Oh, era Stephen Decatur.”
“Grazie.” Se lo annotò e corse fuori dall'aula.
“Professore?”
Lawson alzò lo sguardo. Era lo studente di prima fila. “Sì, signor Garner? Che cosa posso fare per lei?”
“Volevo chiederle un favore, se fosse possibile. Sto facendo domanda per un tirocinio al Museo di Storia Naturale, e uh, mi sarebbe utile una sua lettera di raccomandazione.”
“Certo, nessun problema. Ma lei non si sta laureando in antropologia?”
“Sì, ma uh, ho pensato che una lettera scritta da lei avrebbe avuto più peso, capisce? E, uhm…” Il ragazzo abbassò lo sguardo sulle sue scarpe. “Questo è tipo, il mio corso preferito.”
“Il suo corso preferito finora.” Lawson sorrise. “Ne sarei felice. Gliela porterò domani, ah, in realtà stanotte ho un impegno importante a cui non posso proprio mancare. Che ne dice di venerdì?”
“Nessuna fretta. Venerdì andrà benissimo. Grazie, professore. Ci vediamo!” Garner uscì dall’aula, lasciando Lawson da solo.
Il professore si guardò intorno nella sala vuota. Quello era il momento che preferiva della giornata, la pausa tra una lezione e l’altra, in cui la soddisfazione per quella appena finita si mescolava all’anticipazione per quella che stava per iniziare.
Il suo telefono squillò. Era un messaggio da Maya. A casa per le 5:30?
Sì, rispose lui. Non me lo perderei mai. L’’impegno importante’ di quella sera era la sera dei giochi a casa Lawson. Adorava trascorrere quei bei momenti insieme alle sue due ragazze.
Bene, scrisse a sua volta la figlia. Ho delle novità.
Che novità?
Più tardi, fu la sua risposta. Lui si accigliò davanti a quel messaggio vago. All’improvviso la giornata gli sembrò molto lunga.
*
Non appena la giornata di lavoro arrivò alla fine, Lawson riempì la tracolla, prese il pesante cappotto invernale e si diresse verso il parcheggio. Febbraio a New York era sempre gelido, e ultimamente era stato persino peggio. Persino il più leggero refolo di vento tagliava la pelle dal freddo.
Avviò l’auto e lasciò che si riscaldasse per qualche minuto, portando una mano alla bocca e soffiando il fiato caldo sulle dita gelate. Era il suo secondo inverno a New York e sembrava che non riuscisse ad abituarsi a quel clima. In Virginia aveva pensato che cinque gradi a febbraio fossero glaciali. Almeno non sta nevicando, pensò. Meglio guardare il lato positivo.
Il viaggio dal campus della Columbia University fino a casa era di sole sette miglia, ma a quell’ora del giorno c’era un gran traffico e tutti i pendolari erano generalmente irritati. Reid lo passava ascoltando degli audiolibri, come sua figlia maggiore gli aveva recentemente consigliato. Attualmente era a metà de Il nome della rosa di Umberto Eco, anche se quel giorno non riuscì ad ascoltare neanche una parola. Stava pensando al messaggio criptico di Maya.
Casa Lawson era un bungalow a due piani di mattoni marroni che si ergeva a Riverdale, nella zona a nord del Bronx. Lui amava quel quartiere bucolico e suburbano, la sua prossimità alla città e all'università, le stradine tortuose che a sud si trasformavano in ampi viali. Anche le ragazze lo amavano, e se Maya fosse stata accettata alla Columbia, o persino alla sua seconda scelta di New York, non avrebbe dovuto lasciarlo.
Reid capì che c’era qualcosa di diverso non appena entrò in casa. Lo sentiva nell’aria. Udì delle voci smorzate che venivano dalla cucina in fondo al corridoio. Appoggiò la tracolla e si sfilò silenziosamente la giacca sportiva prima di avanzare in punta di piedi nell’ingresso.
“Che cosa sta succedendo qui?” chiese a mo’ di saluto.
“Ciao, papà!” Sara, la sua figlia quattordicenne saltellava sui talloni mentre guardava Maya, la sorella maggiore, che eseguiva un losco rituale sopra una pirofila di Pyrex. “Stiamo preparando la cena!”
“Io sto preparando la cena,” mormorò Maya, senza alzare lo sguardo. “Lei assiste solamente.”
Reid batté le palpebre per la sorpresa. “Okay. Ho delle domande.” Sbirciò sopra la spalla di Maya che stava applicando una gelatina viola su un fila ordinata di costolette di maiale. “A partire da… uh?”
Maya continuò a tenere lo sguardo basso. “Non guardami così,” disse. “Sono stata costretta a seguire il corso di economia domestica, quindi sarà meglio che ne faccia buon uso.” Alla fine spostò gli occhi su di lui e gli lanciò un sorriso teso. “E non farci l’abitudine.”
Reid alzò le mani con aria conciliatoria. “Assolutamente.”
Maya aveva sedici anni ed era pericolosamente intelligente. Era ovvio che avesse ereditato il cervello da sua madre; quello sarebbe stato il suo ultimo anno del liceo dato che aveva saltato la terza media. Aveva i capelli scuri di Reid, il suo sorriso pensieroso e il suo talento per il dramma. Sara, d'altra parte, aveva preso tutto da Kate. Man mano che diventava adolescente, a Reid capitava di intristirsi guardandola, ma non lo faceva mai vedere. Aveva anche assunto il carattere focoso di Kate. La maggior parte del tempo Sara era una ragazza dolce, ma di tanto in tanto esplodeva e le conseguenze erano terribili.
Reid guardò sbalordito mentre le ragazze apparecchiavano e servivano la cena. “Sembra tutto buonissimo, Maya,” commentò.
“Oh, aspetta. Ancora una cosa.” La ragazza prese qualcosa dal frigo, una bottiglia marrone. “La tua preferita è la belga, vero?”
Reid strinse gli occhi. “Come hai fatto a…?”
“Non preoccuparti, l’ho fatta comprare a zia Linda.” Aprì il tappo e versò la birra in un bicchiere. “Ecco. Ora possiamo mangiare.”
Reid era estremamente grato che Linda, la sorella di Kate, abitasse a pochi minuti di distanza. Ottenere la cattedra da professore associato crescendo due adolescenti sarebbe stato impossibile senza di lei. Era uno dei motivi principali per cui si era trasferito da New York, perché le ragazze potessero avere vicino un’influenza femminile positiva. (Anche se doveva ammettere che non era proprio entusiasta che Linda avesse comprato la birra alla figlia adolescente, a prescindere da per chi fosse.)
“Maya, è incredibile,” esclamò dopo il primo boccone.
“Grazie. È una gelatina al chipotle.”
Si pulì la bocca, appoggiò il tovagliolo e domandò: “Va bene, è tutto molto sospetto. Che cosa hai fatto?”
“Cosa? Niente!” insistette lei.
“Che cosa hai rotto?”
“Io non ho…”
“Ti hanno sospesa?”
“Papà, andiamo…”
Reid afferrò drammaticamente il tavolo tra le mani. “Oh, Dio, non dirmi che sei incinta. Non ho nemmeno un fucile.”
Sara ridacchiò.
“La vuoi smettere?” sbuffò Maya. “Posso essere gentile, sai.” Mangiarono in silenzio per un minuto circa prima che lei aggiungesse con disinvoltura: “Ma visto che stiamo parlando…”
“Oh, accidenti. Ecco che arriva.”
Lei si schiarì la gola e disse: “Ho un appuntamento, ecco. Per San Valentino.”
Reid quasi si strangolò sulla sua costoletta.
Sara sorrise. “Te l’avevo detto che non sarebbe stato contento.”
Lui si riprese e sollevò una mano. “Aspetta, aspetta. Non è che non sono contento. È solo che non pensavo… Non sapevo che tu, uh… Stai uscendo con qualcuno?”
“No,” rispose in fretta Maya. Poi scrollò le spalle e abbassò lo sguardo sul piatto. “Forse, ancora non lo so. Ma è un ragazzo carino, e vuole portarmi fuori a cena in città…”
“In città,” ripeté Reid.
“Sì, papà, in città. E mi serve un vestito. È un locale elegante. Non ho proprio niente da mettermi.”
C’erano state molto volte in cui Reid aveva disperatamente desiderato che Kate fosse lì, ma quello le batteva tutte. Aveva sempre saputo che le sue figlie avrebbero avuto dei ragazzi prima o poi, ma sperava che non sarebbe successo prima dei venticinque anni. Era in momenti come quello che faceva appello al suo acronimo genitoriale preferito, CCFK? Che Cosa Farebbe Kate? In quanto artista e spirito libero, probabilmente avrebbe gestito la situazione molto diversamente da lui, e Reid cercava di tenerlo sempre a mente.
Doveva avere un’espressione particolarmente turbata, perché Maya scoppiò in una risatina e appoggiò una mano sulla sua. “Tutto bene, papà? È solo un appuntamento. Non succederà niente, non è niente di grave.”
“Sì,” rispose lui lentamente. “Hai ragione. Certo che non è niente di grave. Possiamo chiedere a zia Linda se può accompagnarti al centro commerciale questo weekend e…”
“Voglio che mi accompagni tu.”
“Davvero?”
Lei si scrollò. “Voglio dire, non vorrei comprare qualcosa che a te non andasse bene.”
Un vestito, una cena in città, e un ragazzo sconosciuto… Non erano certo eventi con cui aveva mai pensato di doversi confrontare prima di allora.
“Va bene, allora,” disse. “Andremo sabato. Ma ho una condizione: posso scegliere io il gioco di stasera.”
“Mmh,” replicò Maya. “Sei un negoziatore molto abile. Fammi consultare con la mia socia.” La ragazza si voltò verso la sorella.
Sara annuì. “Va bene, basta che non sia Risiko.”
Reid sbuffò. “Non sai di che cosa stai parlando. Risiko è fantastico.”
Dopo cena, Sara mise a lavare i piatti mentre Maya preparava la cioccolata calda. Reid tirò fuori uno dei suoi giochi da tavolo preferiti, Ticket to Ride, un classico che aveva come obiettivo la costruzione di linee ferroviarie per tutta l’America. Mentre preparava le carte e i trenini di plastica, si trovò a chiedersi quando fosse successo, quando era cresciuta così in fretta Maya? Negli ultimi due anni, dopo la morte di Kate, lui aveva assunto il ruolo di entrambi i genitori (con l’aiuto apprezzatissimo della loro zia Linda). Entrambe avevano ancora bisogno di lui, o così sembrava, ma non mancava molto perché se ne andassero al college, iniziassero le loro carriere, e poi…
“Papà?” Sara entrò nel soggiorno e si sedette davanti a lui. Come se gli avesse letto il pensiero, disse: “Non dimenticarti che mercoledì sera ho una mostra d’arte a scuola. Ci sarai, vero?”
Reid sorrise. “Ma certo, tesoro. Non me la perderei mai.” Batté insieme le mani. “Ora! Chi è pronto a farsi distruggere… voglio dire, chi è pronto a una bella partita amichevole e per famiglie?”
“Fatti sotto, vecchio,” lo sfidò Maya dalla cucina.
“Vecchio?” esclamò indignato Reid. “Ho trentotto anni!”
“Appunto.” Rise mentre entrava in soggiorno. “Oh, il gioco dei treni.” Il suo sorriso si fece tirato. “Era il preferito della mamma, vero?”
“Oh… sì.” Reid si rabbuiò. “Lo era.”
“Io sono il blu!” dichiarò Sara, prendendo la pedina.
“Arancione,” scelse Maya. “Papà, che colore? Papà, ci sei?”
“Oh.” Reid si riscosse dai suoi pensieri. “Scusate. Uh, verde.”
Maya spinse i pezzi verso di lui. Reid si sforzò di sorridere, anche se dentro di sé era ancora turbato.
*
Dopo due partite, entrambe vinte da Maya, le ragazze andarono a letto e Reid si ritirò nel suo studio, un piccola stanza a piano terra, vicino all’ingresso.
Riverdale non era una zona economica, ma per lui era importante che le sue ragazze vivessero in un ambiente sicuro e felice. Avevano solo due camere da letto, quindi aveva trasformato il piccolo sgabuzzino a piano terra in un ufficio. I suoi libri e cimeli erano stipati su ogni centimetro della stanzina di pochi metri. Con la scrivania e la poltrona di pelle, il tappeto usurato svaniva quasi completamente alla vista.
Su quella poltrona si addormentava spesso, dopo aver fatto tardi sui libri, preparando lezioni e rileggendo biografie. Stava iniziando a fargli venire mal di schiena. Tuttavia, se doveva essere sincero con se stesso, dormire nel letto non era altrettanto piacevole. La posizione era cambiata, dato che lui e le ragazze si erano trasferiti a New York poco dopo la morte di Kate, ma il letto e il materasso matrimoniale erano sempre i loro, suoi e di Kate.
Avrebbe pensato che ormai il dolore della perdita della moglie si sarebbe attenuato, almeno leggermente. A volte lo faceva, per un po’, ma poi gli capitava di passare vicino al suo ristorante preferito o di vedere uno degli spettacoli televisivi che le piacevano tanto e si riaccendeva all’istante, fresco come se fosse successo solo qualche giorno prima.
Se per le ragazze era lo stesso, non ne parlavano. In effetti, spesso la ricordavano apertamente, che era qualcosa che Reid ancora non riusciva a fare.
C’era una sua foto su uno degli scaffali, scattata al matrimonio di un loro amico dieci anni prima. La maggior parte delle sere la teneva rovesciata, o avrebbe passato ore e ore a fissarla.
Il mondo poteva essere tremendamente ingiusto. Un giorno avevano avuto tutto, una bella casa, delle figlie fantastiche, carriere di successo. Avevano vissuto a McLean in Virginia, e lui aveva lavorato come professore associato alla vicina George Washington University. Aveva viaggiato spesso per lavoro, per seminari e come ospite docente di storia europea in scuole di tutto il paese. Kate aveva lavorato nel dipartimento di restauro allo Smithsonian American Art Museum. Le loro ragazze erano state felici. La vita era stata perfetta.
Ma come disse il poeta Robert Frost, niente rimane d’oro. Un pomeriggio d’inverno Kate era svenuta sul lavoro, o almeno era quello che avevano pensato i suoi colleghi quando all’improvviso si era accasciata e caduta dalla sedia. Avevano chiamato un’ambulanza, ma era stato troppo tardi. Era stata dichiarata morta non appena era arrivata in ospedale. Un’embolia, avevano detto. Un coagulo di sangue era arrivato al suo cervello e aveva causato un’ischemia. I dottori avevano usato termini quasi incomprensibili nelle loro spiegazioni, come se avrebbe potuto attutire il colpo.
La cosa peggiore era stata che Reid era via quando era successo. Era stato a un seminario a Houston, in Texas, a tenere lezioni sul Medioevo quando era arrivata la chiamata.
Era stato così che aveva scoperto che la moglie era morta. Una telefonata, appena uscito da una sala conferenze. Poi c’era stato il viaggio fino a casa, i tentativi di consolare le figlie nel bel mezzo del proprio dolore devastante, e infine il trasloco a New York.
Si alzò dalla poltrona e rovesciò la foto. Non gli piaceva ripensare all’ultimo periodo, alla fine e a ciò che era venuto dopo. Voleva ricordarla in quella maniera, come nella foto, Kate al suo meglio. Era ciò che sceglieva di ricordare.
C’era anche qualcos’altro, qualcosa su cui non riusciva a mettere il dito, una specie di memoria distante che cercava di risalire alla superficie mentre fissava la foto. Era quasi un déjà vu, ma non riguardava il presente. Era come se il suo subconscio stesse cercando di mandargli un messaggio.
Un colpo improvviso alla porta lo riportò alla realtà. Reid esitò, chiedendosi chi poteva essere. Era quasi mezzanotte; le ragazze erano a letto già da un paio d’ore. Il rumoroso bussare risuonò di nuovo. Temendo che potesse svegliare le ragazze, si affrettò a rispondere. Dopo tutto, viveva in un quartiere sicuro e non aveva ragione di temere di aprire la sua porta, anche se era mezzanotte.
Non fu il gelido vento invernale a paralizzarlo. Fu lo spettacolo dei tre uomini dall’altra parte della soglia. Erano mediorientali, ognuno con pelle scura, barba e occhi infossati, vestiti con grosse giacche nere e stivali. I due ai lati erano alti e magri, il terzo, un po' indietro, aveva spalle larghe e una figura imponente, oltre a una smorfia torva sul volto.
“Reid Lawson,” disse l’uomo alto sulla sinistra. “È lei?” Il suo accento sembrava iraniano, ma era poco percettibile, suggerendo che avesse passato molto tempo lontano da casa.
A Reid si seccò la gola notando, al di là delle loro spalle, un furgoncino grigio lasciato in moto davanti al marciapiede, con le luci spente. “Uhm, mi spiace,’” rispose. “Credo che abbiate sbagliato casa.”
L’uomo alto sulla destra, senza togliere lo sguardo da Reid, alzò un cellulare verso i suoi due soci. L’uomo a sinistra, senza fare domande, fece un singolo cenno con il capo.
Senza alcun preavviso, l’uomo più grosso avanzò, con una rapidità sorprendente per la sua stazza. Una mano pesante scattò verso la gola di Reid. Il professore indietreggiò senza pensare, barcollando nell’ingresso e incespicando nei propri piedi. Recuperò l’equilibrio, sfiorando il pavimento con le dita.
Mentre scivolava all’indietro, i tre uomini erano entrati in casa sua. Il panico lo riempì, pensando solamente alle figlie addormentate nei loro letti al piano di sopra.
Si voltò e attraversò di corsa l’ingresso, fino alla cucina, dove superò l’isola. Si lanciò un’occhiata alle spalle, e vide che gli uomini gli stavano dando la caccia. Il cellulare, pensò disperatamente. Era nel suo studio, sulla scrivania, e gli aggressori gli bloccavano la strada.
Doveva portarli via dalla casa e dalle ragazze. Sulla sua destra c’era la porta che dava sul cortile. La aprì di scatto e corse sulla veranda. Uno degli uomini imprecò in una lingua straniera, arabo, immaginò, mentre lo seguivano. Reid saltò sopra la ringhiera della veranda e atterrò sul prato. All’impatto un lampo di dolore gli esplose nella caviglia, ma lo ignorò. Raggiunse l’angolo della casa e si appiattì contro la parete di mattoni, cercando disperatamente di acquietare il suo respiro ansimante.
I mattoni erano gelidi al tocco e la leggera brezza invernale tagliava come un coltello. Aveva già le dita dei piedi insensibili per il freddo, perché era corso fuori di casa solo con i calzini. Si sentiva gli arti scossi da brividi.
Udiva gli uomini che sussurravano, con voce bassa e urgente. Contò quanti erano: uno, due e tre. Erano fuori di casa. Bene: significava che volevano solo lui e non le ragazze.
Doveva mettere le mani su un telefono. Non poteva tornare dentro casa senza mettere in pericolo le ragazze e non poteva neanche bussare alla porta di un vicino. No… ma c'era un telefono per le emergenze montato su un palo della luce lungo la strada. Se fosse riuscito ad arrivarci…
Fece un profondo respiro e scattò nel cortile buio, osando attraversare la luce gettata dai lampioni. La sua caviglia pulsò in segno di protesta e lo shock del freddo gli punzecchiò le piante dei piedi, ma si costrinse a muoversi il più in fretta possibile.
Reid si lanciò un’occhiata dietro le spalle. Uno degli uomini alti lo aveva visto. Gridò ai suoi soci, ma non si gettò all’inseguimento. Strano, pensò Reid, ma non si soffermò a farsi domande.
Raggiunse il telefono per le emergenze, aprì la sua scatola e premette il pollice sul pulsante rosso, che avrebbe mandato un allarme alla centrale più vicina del 911. Si guardò di nuovo alle spalle. Non vide nessuno degli uomini.
“Pronto?” sibilò nella cornetta. “Qualcuno mi sente?” Dove era la luce? Non avrebbe dovuto accendersi una luce quando si premeva il pulsante di chiamata? Il telefono era attivo? “Mi chiamo Reid Lawson, tre uomini mi stanno inseguendo, vivo al…”
Una mano robusta strinse i corti capelli castani di Reid e lo tirò all’indietro. Gli si bloccarono le parole in gola e si trasformarono in un rantolo.
Un momento dopo, c’era una stoffa ruvida sulla sua faccia, che lo accecava—una sacca sulla sua testa—e allo stesso tempo le sue braccia gli erano state tirate dietro la schiena e bloccate da manette. Cercò di lottare, ma era paralizzato, i polsi piegati fino a far male.
“Aspettate!” riuscì a gridare. “Vi prego…” Un colpo gli si abbatté sull’addome con tanta forza da lasciarlo senza fiato. Non riusciva a respirare, né tantomeno parlare. Un vortice di colore gli esplose davanti agli occhi e quasi svenne.
Poi cominciarono a trascinarlo. I suoi piedi nei calzini scivolavano sul cemento. Lo infilarono nel furgone e chiusero la portiera. I tre uomini si dissero qualcosa nella loro lingua sconosciuta con tono d’accusa.
“Perché?” riuscì a chiedere alla fine.
Gli infilarono un ago acuminato nel braccio e tutto il mondò svanì.