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CAPITOLO NOVE

8:15 ora della costa orientale

Ala ovest

Casa Bianca, Washington DC

“È un disastro,” disse Susan. “Una follia. Non ho intenzione di permetterlo.”

Stavano riattraversando l’ala ovest dirigendosi verso lo Studio Ovale, tutti e tre – Susan, Kurt e Kat Lopez. Le scarpe di Susan e Kat ticchettavano sul marmo del pavimento. Li seguivano tre grossi uomini dei servizi segreti; due stavano davanti.

Le doppie porte dello Studio Ovale erano poco avanti, un grande uomo dei servizi su ogni lato. Susan e il nugolo di persone attorno a lei andavano tutti velocissimi, e le pareva di venir risucchiata verso l’ufficio su di un nastro trasportatore. Si sentiva fuori controllo. Non la voleva fare, quella riunione. Un paio di mesi prima, inviare i suoi migliori agenti in una missione rischiosissima non l’avrebbe irritata tanto.

“Susan, abbiamo un altro problema,” disse Kurt.

“Spara.”

“Gli israeliani non ci comunicano più la stima delle vittime, né ci tengono più aggiornati sui loro piani. Yonatan Stern è furioso. Vuole attaccare l’Iran immediatamente, e noi gli chiediamo di trattenersi. Sta già mandando in polvere il Libano del sud, ma Hezbollah sta ancora lanciando missili. Definisce questi attacchi, e la minaccia iraniana priva di una possibile risposta chiara, un’umiliazione, e biasima noi per la cosa. È pronto a cacciare dal paese il nostro ambasciatore. Vuole parlare direttamente con lei.”

Susan scosse la testa. “Questa giornata continua a migliorare.”

Attraversarono le porte doppie ed entrarono nello Studio Ovale.

“Vuole che le organizzi una telefonata con lui?” disse Kat.

Susan scrollò le spalle. “Certo. Ci parlerò. Kurt, puoi farmi stendere da qualcuno i miei appunti? Che cosa dovrei dirgli? Perché non possiamo essere tutti amici? Perché non potete preparare una torta per quelli con i missili?”

“Ma certo,” disse Kurt, e se ne andò in un angolo dell’ufficio, già al telefono.

Kat sparì per la soglia.

Susan si guardò intorno nello Studio Ovale. Davanti a lei tre alte finestre, con le tende tirate, che davano sul giardino delle rose. Fuori c’era una giornata di sole di inizio inverno. C’erano molte persone nella stanza. Luke Stone sedeva su una poltrona dall’alto schienale nel salottino. Sotto ai suoi piedi c’era il sigillo del presidente degli Stati Uniti. Seduto accanto a lui c’era il grosso Haley Lawrence, il segretario della Difesa, che pareva aver preso peso – la mole maggiore in qualche modo aveva un che da grasso infantile, e rendeva un uomo di ben più di un metro e ottanta molto simile a un bambinetto.

C’erano altri due uomini nella stanza, entrambi in piedi. Indossavano uniformi verdi dell’esercito – uomini che Susan immaginava sui cinquantacinque anni, molto in forma, con i capelli a spazzola. Potevano essere gemelli – Pincopanco e Pancopinco.

“Signora presidente,” disse Pincopanco. Le allungò una mano. “Sono il generale Steven Perkins della Defense Intelligence Agency.”

Lei gli fece un cenno col capo mentre la mano le veniva ingoiata da quella di lui in una ferma stretta militare.

“Generale.”

Anche Pancopinco si allungò per farsi stringere la mano. “Signora presidente, sono Mike Sobchak della Naval Intelligence.”

“Ammiraglio.”

Scosse la testa. “Ok, signori, a che punto siamo?” disse Susan. “Che schema avete imbastito insieme all’agente Stone?”

Kurt era in fondo, a mormorare al telefono per tutti gli undici secondi. “Per cortesia, chiuda la porta,” disse a un uomo dei servizi.

“È una missione altamente segreta,” disse Haley Lawrence.

Susan fece spallucce e fece ruotare la mano. “Me lo immaginavo. Quindi ditemi.”

“Mandiamo una piccola squadra in Israele su un aereo del Dipartimento di Stato,” disse Kurt. “Da ieri abbiamo mandato già tre aerei del Dipartimento di Stato, quindi secondo tutti potrebbe fare più o meno lo stesso – diplomatici della crisi in viaggio per cercare di calmare la situazione.”

“Sono sicura che nessuno sospetterà che facciamo entrare delle spie,” disse Susan.

“Arrivata la squadra, avrà ragguagli dall’intelligence israeliana su possibili ubicazioni di siti nucleari iraniani. La squadra si coordinerà con gli israeliani per progettare un’infiltrazione, e poi si farà paracadutare sotto la copertura del buio in Iran. La squadra poi si farà strada, con qualsiasi mezzo disponibile, fino ai siti più probabili, e confermerà o meno l’esistenza di armi nucleari sugli stessi. Se vengono trovate armi, richiederanno attacchi aerei, sulle coordinate specifiche, che distruggeranno le armi nei silos.”

“Attacchi aerei da chi?” disse Susan. “Dagli americani o dagli israeliani?”

“Dagli americani,” disse Pincopanco. “Per definizione, gli attacchi dovranno essere potenti anti-bunker lanciati da alte altitudini. Più probabilmente, bombe MOAB lanciate da bombardieri B-52, e questo se riusciamo a far fuori i bunker tramite armi convenzionali, il che non è garantito. Non crediamo che gli israeliani abbiano capacità del genere.”

“Non crediamo?” disse Susan. “Non dovremmo saperlo?”

“Qui stiamo discutendo con Israele,” disse Pancopinco. “Potrebbero averle, potrebbero non averle. Non sono sempre collaborativi su informazioni come questa. Per ogni eventualità, se gli israeliani si mettono a bombardare silos missilistici iraniani, c’è sempre la possibilità che scoppi la terza guerra mondiale. I russi sono vicini alleati dell’Iran. E i paesi sunniti odiano gli iraniani sciiti. Ma solo quando gli israeliani non li bombardano. Altrimenti sono tutti amici musulmani e l’aggressione israeliana deve essere vendicata. Se bombardiamo noi…”

Fece spallucce. “Penso che possiamo trovare il modo di placare i russi, sulla faccenda. E i paesi sunniti se la metteranno via.”

“Perché gli israeliani non mandano le loro spie in cerca della bomba?” disse Susan.

“Abbiamo parlato con la loro intelligence. Pensano che la missione sia un fallimento sicuro. Preferirebbero bombardare l’Iran indiscriminatamente e distruggere tutte le basi e le infrastrutture militari iraniane, nella speranza di colpire eventuali testate in loro possesso. Noi li stiamo incoraggiando – li stiamo incoraggiando molto strenuamente – ad astenersi da azioni del genere. Ovviamente, il rischio di bombardare l’Iran e lasciare anche un solo missile nucleare operativo è troppo alto da contemplare…”

Susan guardò Luke. “Salve, agente Stone.”

Lui la guardò dritto negli occhi. Era una cosa che lei odiava, la cosa di cui aveva avuto terrore. Voleva fermare il tempo proprio lì e non fargli dire un’altra parola.

“Signora presidente.”

“Ha intenzione di accettare la missione?”

Annuì. “Sì. Certo. È stata una mia idea.”

“A me pare una missione suicida, agente Stone.”

“Ne ho sentite di peggio,” disse Luke. “In ogni caso, è esattamente il tipo di cosa per cui è stato organizzato il nuovo Special Response Team. Ho già parlato con la mia squadra. Possiamo essere pronti a partire in un paio d’ore.”

Tentò una tattica diversa. “Agente Stone, lei è il direttore dello Special Response Team. I miei registri indicano che ha quarantadue anni. La missione non verrebbe gestita meglio da un operativo junior dell’agenzia? Qualcuno di un po’ più giovane, diciamo? Qualcuno di un po’ più energico?”

“Ho in progetto di andare con Ed Newsam,” disse Luke. “Lui ha trentacinque anni. E comunque sono ancora piuttosto energico per un vecchietto.”

“L’agente Stone e l’agente Newsam hanno entrambi un’estesa esperienza operativa nel Medio Oriente,” disse Pincopanco. “Sono entrambi combattenti d’élite veterani, sono stati sotto copertura, e conoscono bene la cultura israeliana, araba e persiana. Se la cavano entrambi benino col farsi.”

Susan lo ignorò. Guardò la stanza. Sembravano fissarla tutti. Volevano parlare del progetto della missione, lo sapeva. Volevano che desse immediatamente il via libera, in modo da raccogliere le risorse di cui avevano bisogno, venirsene fuori con le evenienze in caso di fallimento della missione, sviluppare strategie di negazione plausibile nel caso in cui la cosa fosse diventata di dominio pubblico. Nelle loro menti, non si trattava neanche più di chi stava per partire – la questione era già stata decisa.

“Signori, potete darmi cinque minuti da sola con l’agente Stone?”

* * *

“Luke, sei fuori di testa?”

Gli altri uomini, e tutti i servizi segreti, se n’erano andati.

“Non manderei il mio peggior nemico in questa missione. Dovresti paracadutarti in Iran, e poi vagare per il paese con gente che cerca di assassinarti, finché non trovi delle armi nucleari?”

Sorrise. “Be’, spero che la cosa verrà pensata un pochino meglio di così.”

“Ti farai uccidere.”

Allora lui si alzò, e andò da lei. Cercò di abbracciarla. Lei rimase rigida per un attimo, poi si sciolse nel suo abbraccio.

“Lo sai quant’è ridicolo che la presidente degli Stati Uniti si preoccupi esageratamente per la vita di un agente delle operazioni speciali, che fa esattamente questa roba per tutta la sua vita adulta?”

Lei scosse la testa. “Non mi interessa. È diverso. Non posso autorizzare una missione in cui potresti rimanere ucciso. È follia.”

Abbassò lo sguardo su di lei. “Mi stai dicendo che per stare con te devo mollare il lavoro?”

“No. Sei a capo della tua agenzia. Non devi accettarla. Non devi presentarti come volontario. Manda qualcun altro.”

“Vuoi che mandi qualcun altro anche se pensi che sia una missione suicida?”

Annuì. “Esatto. Manda qualcuno che non amo.”

“Susan, non posso.”

Allora lei si voltò dall’altra parte, e d’un tratto presero a scorrere lacrime di infelicità. “Lo so. Questo lo so. Ma per l’amor di Dio, ti prego di non morirci, laggiù.”

CAPITOLO DIECI

16:45 ora di Israele (9:45 ora della costa orientale)

Covo di Sansone – nelle profondità della terra

Gerusalemme, Israele

“Falli stare zitti.”

Yonatan Stern, il primo ministro di Israele, sedeva sulla sua solita sedia a capotavola nel centro di comando per le crisi israeliano, il mento sulla mano. La stanza era una cavernosa cupola a forma di uovo. Tutt’intorno a lui, il suo esercito e i suoi consiglieri politici si trovavano nel caos, urlavano, recriminavano, si puntavano il dito addosso gli uni con gli altri.

Come si era arrivati a questo? pareva essere la domanda prevalente. E la risposta alla quale era giunta la maggior parte di quelle brillanti menti strategiche era, È colpa di qualcun altro.

“David!” disse fissando il suo capo di gabinetto, un robusto ex commando suo braccio destro dai giorni dell’esercito. David si girò a guardarlo, grossi occhi scuri malevoli, denti che si mordevano l’interno della guancia, come faceva quando era nervoso o distratto. Un tempo quell’uomo avrebbe ucciso nemici a mani nude, eppure in qualche modo pareva scusarsene, nel mentre. Pareva scusarsi anche adesso.

“Per favore,” disse Yonatan. “Riporta all’ordine la stanza.”

David scrollò le spalle. Andò al tavolo da conferenze e mandò a schiantare un pugno gigante sulla sua superficie.

BUM!

Non disse una parola, ma riportò di nuovo giù il pugno.

BUM!

E ancora. E ancora. E ancora. Ogni volta che il pugno atterrava, la stanza si faceva un po’ più silenziosa. Alla fine tutti gli uomini presenti si alzarono per guardare David Cohn, l’organizzatore e gendarme di Yonatan Stern, un uomo che nessuno di loro rispettava intellettualmente, ma anche che nessuno di loro avrebbe mai osato intralciare.

Sollevò il pugno un’ultima volta, ma adesso la stanza era silenziosa. Si fermò a mezz’aria, come un martello. Poi fluttuò lentamente di nuovo sul fianco.

“Grazie, David,” disse Yonatan. Guardò gli altri uomini presenti. “Signori, vorrei cominciare questa riunione. Quindi, per favore, prendete posto e ammaliatemi con il vostro acume.”

Si guardò intorno. C’era Efraim Shavitz, sempre giovanile, dimostrava molto meno dei suoi anni. La gente lo chiamava il Modello. Era il direttore del Mossad. Indossava un costoso completo su misura e delle scarpe italiane di pelle nera lucidissime. Pareva che si stesse recando a un nightclub di Tel Aviv, e non che stesse attualmente supervisionando la distruzione del suo stesso popolo. In una stanza piena di sciatti intellettuali e uomini dell’esercito di un’età, Shavitz il dandy sembrava una specie di uccello esotico.

Yonatan scosse la testa. Shavitz era uno degli uomini del suo predecessore. Yonatan se lo teneva lì perché gli era stato ben raccomandato e sembrava sapere quel che faceva. Fino a oggi.

“Efraim, le tue stime, per cortesia.”

Shavitz annuì. “Certamente.”

Prese un telecomando dalla tasca della giacca e si voltò verso il grande schermo alla fine del tavolo. Istantaneamente apparve il video di un lancio missilistico da una piattaforma mobile verdastra.

“Il Fateh-200 è arrivato in Libano. Sospettavamo che potesse essere il caso…”

“Quando, lo sospettavate?” disse Yonatan.

Shavitz lo guardò. “Prego?”

“Quando sospettavate che Hezbollah avesse ottenuto il sistema d’arma Fateh-200? Quando? Io un rapporto del genere non l’ho mai letto, né qualcuno mi ha mai menzionato l’arrivo di un rapporto del genere. Ne ho sentito parlare per la prima volta quando dei missili a lungo raggio altamente esplosivi hanno cominciato ad abbattersi su edifici residenziali di Tel Aviv.”

Ci fu un lungo silenzio trascinato. Gli altri uomini presenti osservavano, alcuni Yonatan Stern, altri Efraim Shavitz, alcuni la tavola che avevano davanti.

“In ogni caso, ce li hanno,” disse Shavitz.

Yonatan annuì. “Sì, ce li hanno. Ora, a proposito dell’Iran… loro che cos’hanno?”

Shavitz indicò Yonatan. “Non confonda l’acquisizione da parte di Hezbollah di potenti armi convenzionali con la minaccia nucleare iraniana, Yonatan. Non lo faccia. Le abbiamo detto che gli iraniani stavano lavorando su missili nucleari. Conosciamo le ubicazioni sospette. Conosciamo le persone coinvolte. Abbiamo un’idea del numero di testate. Viene avvertito di questi pericoli da anni. Abbiamo perso molti buoni uomini per ottenere queste informazioni. Che lei non abbia agito non è colpa mia, né del Mossad.”

“Ci sono considerazioni politiche,” disse Yonatan.

Shavitz scosse il capo. “Questo non è il mio dipartimento. Ora, crediamo che gli iraniani possano avere almeno quattordici testate, nascoste in tre luoghi, e probabilmente ben sottoterra. Potrebbero non averne per niente. Potrebbe essere una menzogna. Ma non più di quattordici.”

“E se ce le hanno, tutte e quattordici?”

Shavitz scrollò le spalle. Gli era scivolato fuori posto un capello, sulla fronte, molto strano per lui. Avrebbe fatto meglio a pettinarsi prima di presentarsi al nightclub. “E riescono a lanciarle?”

Yonatan annuì. “Sì.”

“Verremo annientati. Semplicissimo.”

“Che opzioni abbiamo?”

“Molte poche,” disse Shavitz. “Tutti i presenti già sanno quali sono. Tutti qui conoscono bene le nostre capacità missilistiche, nucleari e convenzionali, e della nostra forza aerea. Possiamo lanciare un massiccio attacco preventivo, al massimo, contro tutti i siti missilistici noti iraniani e siriani, e contro tutte le basi aeree iraniane. Se agiamo con impegno totale, e con tutte le nostre forze in perfetto accordo, possiamo distruggere totalmente le capacità militari iraniane e siriane, e riportare la società civile iraniana ai secoli bui. Chi tra i presenti possiede qualche nozione politica, non ha bisogno che gli dica quale sarebbe il contraccolpo mondiale.”

“E un attacco minore?”

Shavitz scosse la testa. “Per cosa? Qualsiasi attacco che conservi le capacità missilistiche dell’Iran, con aerei da combattimento o bombardieri in aria, o che lasci anche un solo missile nucleare operativo, per noi implicherà il disastro. Mentre alcuni di noi dormivano, primo ministro, o premiavano i nostri amici con contratti governativi, gli iraniani lavoravano come termiti, costruendo un arsenale missilistico convenzionale quasi incredibilmente resistente, e tutto con noi in mente.

“Il Fajr-3, con guida di precisione e veicoli di rientro multipli – quasi impossibile da abbattere. Il programma Shahab-3, con missili sufficienti, potenza di fuoco sufficiente, e portata tale da bombardare a tappeto ogni centimetro quadrato di Israele. I sistemi Ghadr-110, Ashoura, Sejjil e Bina, e tutti possono raggiungerci, con migliaia di proiettili e testate individuali. E, pur se difficilmente pare pressante al momento, stanno ancora lavorando sul lanciatore spaziale Simorgh, che è sotto test e che possiamo aspettarci di vedere operativo nel giro di un anno. Una volta approntato quel sistema…”

Shavitz sospirò. Il resto della stanza era in silenzio.

“E i nostri sistemi di rifugio?”

Shavitz annuì. “Certo. Presumendo che gli iraniani stiano bluffando e che non abbiano armi nucleari, possiamo dire con sicurezza che, dovessero lanciarci addosso un attacco maggiore, una percentuale del nostro popolo arriverebbe ai rifugi in tempo, alcuni rifugi terrebbero, e dopo, una manciata di sopravvissuti ne uscirebbe sana e salva. Ma non credo neanche per un minuto che ricostruirebbero. Sarebbero traumatizzati e inermi, lì a vagare per un cacchio di paesaggio lunare. Che cosa farebbe allora Hezbollah? O cosa farebbero i turchi? O i siriani? O i sauditi? Accorrerebbero per portare assistenza e conforto agli ultimi rimasugli della società israeliana? Non credo proprio.”

Yonatan fece un respiro profondo. “Abbiamo altre opzioni?”

Shavitz fece spallucce. “Solo una. L’idea che hanno ventilato gli americani. Inviare una piccola squadra di commando per scoprire se queste armi nucleari sono reali, e per determinare dove si trovino. Dopo intervengono per colpire quei punti con precisione, con la nostra partecipazione o meno. Se gli americani compiono un attacco limitato e preciso e distruggono solo le armi nucleari, gli iraniani potrebbero esitare a rispondere.”

Era un’idea che Yonatan odiava. La odiava per tutte le infruttuose perdite di vite – la perdita di agenti preziosi e altamente addestrati già tornati da precedenti infiltrazioni in Iran. La odiava perché sarebbe stato costretto ad aspettare mentre gli agenti sparivano, senza sapere se sarebbero riapparsi e se avrebbero poi saputo qualcosa. A Yonatan la prospettiva di aspettare non piaceva – non quando l’orologio ticchettava e gli iraniani potevano lanciare il loro attacco massiccio in qualsiasi momento.

Yonatan odiava quest’idea in particolare perché sembrava venire dall’interno della Casa Bianca di Susan Hopkins. La Hopkins non aveva idea della realtà della situazione israeliana, e sembrava non le importasse niente. Era come il pappagallo di un proprietario riluttante che aveva insegnato al povero uccello una sola parola.

Palestinesi. Palestinesi. Palestinesi.

“Quali sono le probabilità che una missione del genere abbia successo?” disse Yonatan.

Shavitz scosse la testa. “Molto, molto scarne. Ma il tentativo probabilmente farebbe piacere agli americani, e dimostrerebbe a loro la compostezza che stiamo mostrando. Se dessimo alla cosa un tempo massimo, magari quarantotto ore, potremmo non aver nulla da perdere.”

“Possiamo permetterci tutto quel tempo?”

“Se monitoriamo da vicino gli iraniani in cerca di qualsiasi segnale di un primo attacco, e lanciamo immediatamente il nostro alla quarantottesima ora, dovremmo trovarci bene.”

“E se gli agenti vengono uccisi o catturati?”

“Una squadra americana, con forse una guida israeliana con significativa esperienza iraniana. L’israeliano sarebbe un operativo dalla copertura profonda privo di identità. Se qualcosa va male, neghiamo il coinvolgimento e basta.”

Shavitz fece una lunga pausa. “Ho già l’operativo perfetto in mente.”

CAPITOLO UNDICI

12:10 ora della costa orientale

Joint Base Andrews

Contea di Prince George, Maryland

Il piccolo jet azzurro con il logo del Dipartimento di Stato statunitense sulla fiancata si spostò lentamente sulla pista di rullaggio e fece una brusca deviazione a destra. Già autorizzato al decollo, accelerò rapidamente lungo la pista, si staccò dal suolo e salì rapidamente fino a immergersi nelle nuvole. Nel giro di un altro istante, si piegò bruscamente ad angolo a sinistra in direzione dell’oceano Atlantico.

Dentro all’aereo, Luke e la sua squadra erano ricaduti tranquillamente nelle vecchie abitudini – usavano i quattro sedili passeggeri anteriori come area meeting. Avevano stivato i bagagli e l’attrezzatura sui sedili sul retro.

Stavano partendo più tardi del previsto. Il contrattempo era dovuto al fatto che Luke era andato a trovare Gunner a scuola. Aveva promesso al figlio che non sarebbe mai partito senza dirglielo in faccia, e di raccontargli quanto poteva sul luogo in cui si stava recando. Glielo aveva chiesto Gunner, e Luke aveva acconsentito.

Si erano visti in uno stanzino fornito loro dall’assistente del preside – era il luogo in cui tenevano strumenti musicali, per lo più vecchi fiati, molti che si stavano arrugginendo, a vederli.

Gunner l’aveva gestita piuttosto bene, tutto considerato.

“Dove vai?”

Luke aveva scosso la testa. “È secretato, mostriciattolo. Se te lo dico…”

“Poi io lo dico a qualcuno, e quella persona lo dice a qualcuno.”

“Credo che non lo diresti a nessuno. Ma solo saperlo ti metterebbe in pericolo.”

Aveva guardato il ragazzino, che era più che abbattuto.

“Sei preoccupato?” aveva detto Luke.

Gunner aveva scosso la testa. “No. Penso che probabilmente sai prenderti cura di te stesso.”

Adesso, sull’aereo, Luke sorrise tra sé. Buffo ragazzino. Ne aveva passate tante, e in qualche modo non aveva perso il senso dell’umorismo.

Luke guardò la sua squadra. Sul sedile accanto al suo c’era il grande Ed Newsam, con pantaloni cargo cachi e una maglietta a maniche lunghe. Occhi di ghiaccio, enorme, eterno come una montagna. Ed adesso era più vecchio, sicuro. Aveva delle rughe in volto, soprattutto attorno agli occhi, che prima non c’erano. E non aveva più i capelli nero corvino come un tempo – c’erano delle ciocche grigie e bianche in libertà, lì.

Ed aveva lasciato la squadra Recupero ostaggi dell’FBI per quel lavoretto. L’FBI lo stava facendo salire di livello – maggiore anzianità, maggiori responsabilità, maggiori sedute alla scrivania, e molto meno tempo sul campo. A sentir lui, stava cambiando perché voleva vedere ancora dell’azione. Ma la cosa non gli aveva impedito di aspettarsi più soldi. Non importava. Luke era pronto a far urlare di agonia il budget dell’SRT, se era quello che ci voleva per farlo risalire a bordo.

A sinistra e di fronte a Luke, c’era Mark Swann. Teneva le gambe allungate nella navata come sempre, un vecchio paio di jeans strappati e un paio di sneakers rosse Chuck Taylor lì in mezzo per far inciampare chiunque. Swann era cambiato, certo. Sopravvivere a stento alla prigionia dell’ISIS lo aveva reso più serio – non scherzava più sulla pericolosità delle missioni. Luke era contento che fosse tornato – c’era stato un periodo in cui sembrava che potesse diventare un recluso, e che non sarebbe riemerso più dal suo attico con vista sulla spiaggia.

Poi c’era Trudy Wellington. Sedeva giusto davanti a Luke. Aveva ancora i capelli ricci castani, e non era invecchiata per niente. Normale. Nonostante tutto quello che aveva visto e fatto – il periodo da analista nell’SRT originale, la relazione con Don Morris, l’evasione dal carcere e il periodo trascorso nascondendosi – aveva ancora solo trentadue anni. Era snella e attraente come non mai in maglione verde e blue jeans. A un certo punto, aveva eliminato i grandi e rotondi occhiali da gufo orlati di rosso dietro ai quali si nascondeva. Adesso aveva i begli occhi azzurri in primo piano.

Quegli occhi fissavano duramente Luke. Non sembravano amichevoli.

Che cosa sapeva della relazione che aveva con Susan? Era arrabbiata? E perché avrebbe dovuto?

“Lo sai cosa stai facendo, bello?” disse Ed Newsam. Lo disse con indole abbastanza buona, ma sotto c’era un altro sentore.

“Vuoi dire con la missione?”

Ed fece spallucce. “Certo. Cominciamo da lì.”

Luke guardò fuori dal finestrino parlando. Era una giornata luminosa, ma il sole stava già dietro di loro. Tra poco, mentre si spostavano ancora più a est, il cielo avrebbe cominciato a scurirsi. Gli diede la percezione degli eventi che si impennavano in avanti – una sensazione familiare, ma che comunque faceva parte degli aspetti che meno preferiva del lavoro. Era una corsa contro al tempo. Era sempre una corsa contro al tempo, e loro erano molto indietro. La guerra che stavano cercando di evitare era già cominciata.

“Immagino che sia quello che stiamo per scoprire. Trudy?”

Lei fece spallucce, apparentemente evasiva. Raccolse il tablet dal grembo. “Ok,” disse. “Presumo rabula rasa.”

“A me sta bene,” disse Luke. “Ragazzi?”

“Bene,” disse Swann.

“Sentiamo,” disse Ed. Si rimise comodo contro al sedile.

“Si parla di Israele e Iran,” disse Trudy. “Una storia non proprio brevissima.”

Luke scrollò le spalle. “È un volo lungo,” disse.

* * *

“Israele è un paese giovane, esistente solo dal 1948,” disse Trudy. “Ma l’idea della Terra di Israele, come luogo sacro al popolo ebraico fin dall’epoca biblica, probabilmente risale a duemila anni avanti Cristo. La prima fonte scritta su Israele come luogo compare intorno al 1200 a.C. La zona è stata invasa, conquistata e riconquistata in epoca antica dai babilonesi, dagli egizi e dai persiani, per nominarne alcuni. Per tutto il tempo, gli ebrei hanno perseverato.

“Nel 63 a.C., l’Impero romano ha conquistato la regione, trasformandola in una provincia romana. Per quasi duecento anni, è diventata il sito di una violenta lotta tra ebrei e romani, che è terminata in genocidi, purghe etniche e distruzioni estese. L’ultima rivolta ebraica contro i romani è fallita nel 132 d.C., e la maggior parte degli ebrei è stata uccisa o dispersa – molti sono andati a nord, nella Russia di oggi, a nordovest nell’Europa orientale e centrale, o direttamente a ovest verso il Marocco e la Spagna. Alcuni sono andati a est, in Siria, in Iraq e in Iran. Una manciata può essersi diretta a sud, in Africa. E alcuni sono rimasti in Israele.

“Nel corso del tempo, l’Impero romano è svanito e la regione nella metà del 600 è stata conquistata dagli arabi, che avevano recentemente adottato la nuova religione dell’Islam. Nonostante frequenti attacchi da parte dei crociati cristiani, la zona è rimasta più che altro sotto il controllo dei sultani musulmani per i novecento secoli seguenti. Nel 1516 è stata conquistata di nuovo, stavolta dall’Impero ottomano. Su mappe ottomane risalenti anche al 1600, la zona cui pensiamo come Israele veniva chiamata Palestina. Quando nella prima guerra mondiale l’Impero ottomano è stato distrutto, la Palestina è caduta sotto il controllo dei suoi successivi sovrani, i britannici.”

“Che fondarono i problemi moderni,” disse Ed.

Trudy annuì. “Naturalmente. Nel corso della storia, alcuni ebrei sono rimasti lì, e nel corso dei secoli ci sono stati numerosi tentativi idealistici di farci tornare gli ebrei dispersi in tutto il mondo. Ma all’inizio del Novecento, questi sforzi stavano decollando. L’ascesa dei nazisti portò a un numero ampliamente aumentato di ebrei che lasciavano l’Europa. Alla fine della seconda guerra mondiale, la popolazione della Palestina era ebrea per circa un terzo. Dopo la guerra, un massiccio influsso di ebrei, sopravvissuti all’Olocausto, lasciò le comunità distrutte di tutta Europa per recarsi in Palestina.

“Nel 1948 è stato fondato lo Stato di Israele. La cosa ha innescato una serie di contrasti violenti tra musulmani ed ebrei che continuano anche oggi. Nel combattimento inziale, l’Egitto, la Siria, la Giordania e l’Iraq li invasero, insieme a contingenti di irregolari provenienti da Yemen, Marocco, Arabia Saudita e Sudan. Gli israeliani li sconfissero. Almeno settecentomila arabi fuggirono o vennero espulsi dalle forze israeliane che avanzavano nelle aree ora note come territori palestinesi – la Cisgiordania e la striscia di Gaza.”

“Vedete, è questo che non capisco,” disse Ed Newsam. “Il 1948 è roba vecchia. Adesso ci sono tutti questi palestinesi incastrati a Gaza e nella Cisgiordania. Perché non liberarli e lasciare che diventino un paese loro? Se non ci si riesce, perché non dare a tutti la cittadinanza e incorporarli a Israele? Pare che ognuna delle due possa mettere un freno allo scontro.”

“È complicato,” disse Swann.

“Complicato è un eufemismo,” disse Trudy. “Impossibile è più vicino alla realtà. Per dirne una, Israele è stata fondata come stato ebraico – una patria per gli ebrei di tutto il mondo. Si tratta di un progetto di quasi duemila anni.

“Se Israele vuole rimanere uno stato ebraico, non può semplicemente incorporare i palestinesi nel paese come cittadini. Accenderebbe il timer su una bomba demografica a tempo, bomba che esploderebbe presto. Il paese ha il suffragio universale – ogni cittadino ha il diritto di voto. Ci sono approssimativamente sei milioni e mezzo di ebrei in Israele, e quasi due milioni di arabi israeliani, la gran maggioranza dei quali musulmani. Ci sono circa quattro milioni e mezzo di palestinesi a Gaza e nella Cisgiordania, in tutto.

“Se tutti i palestinesi diventassero cittadini, improvvisamente si avrebbe una società quasi spaccata a metà tra ebrei e musulmani, con una relativa manciata di cristiani e di altri nel mezzo. Gli ebrei smetterebbero subito di essere maggioranza. In più, arabi israeliani e palestinesi hanno tassi di natalità più alti di quelli degli ebrei israeliani, parlando in termini generali. Nel giro di un paio di decenni, i musulmani avrebbero una chiara e crescente maggioranza. Voterebbero per tenere Israele la patria degli ebrei?”

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399 ₽
Возрастное ограничение:
0+
Дата выхода на Литрес:
15 апреля 2020
Объем:
312 стр. 5 иллюстраций
ISBN:
9781094304731
Правообладатель:
Lukeman Literary Management Ltd
Формат скачивания:
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