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Читать книгу: «La famiglia Bonifazio; racconto», страница 14

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XVII

Alla villa Bonifazio succedevano dei fatti importanti. La nonna non aveva riacquistato nè il movimento, nè la favella, pareva che intendesse ciò che le dicevano, dai movimenti della testa e degli occhi, ma non poteva che borbottare poche parole incomplete e confuse. Papà Gervasio era sempre sofferente, e malgrado l'assiduità di Maria si mostrava desolato ogni qual volta essa era costretta di ritornare al domicilio coniugale. Senza una donna di cuore in casa, con quell'egoista di Pasquale, che veniva tollerato per la somma difficoltà di sostituirlo, e di ammettere un nuovo domestico in momenti disgraziati, senza la direzione della padrona di casa resa impotente dal malore, col figlio ammalato a Venezia, che non poteva giovarlo in nessuna maniera, il povero Gervasio si sentiva disperato, e prevedeva che il disordine crescente e l'abbandono di tutti, avrebbero portato agli estremi le sue disgrazie.

Il vecchio maestro Zecchini che si studiava di confortarlo ebbe una buona idea.

– Perchè non v'intendete coi Pigna, gli disse, per prendere in casa i nipoti, e non fate padrona di casa la Maria!..

– Per riguardo verso mio figlio e la nuora, rispose Gervasio, che potrebbero offendersi della preferenza…

– Non è una preferenza, è una necessità inevitabile. Vostro figlio e vostra nuora non verranno mai più a stabilirsi in campagna; che cosa farete voi solo e malescio con vostra madre resa impotente dall'infermità? Non abbiate riguardi ed anzi per l'interesse stesso di vostro figlio e della sua famiglia, chiamate Maria a dirigere la vostra casa, e avrete, oltre la sua valente assistenza, anche l'aiuto e la sorveglianza di suo marito.

Non fu difficile convincerlo, perchè questo era il suo stesso desiderio. Ogni cosa fu prontamente combinata; i vecchi Pigna aderirono subito perchè ci vedevano il loro interesse; la famiglia di Venezia non ebbe motivo di sorprendersi d'un avvenimento suggerito dalla necessità a vantaggio di tutti. I giovani sposi trasportarono prontamente i loro arredi in casa dello zio e della nonna e vi presero stabile domicilio.

Andrea aveva prese le abitudini dei Bonifazio, e vi si era affezionato; Maria che sentiva tanto bisogno di non abbandonare la nonna, era lietissima di rientrare in casa della sua famiglia ove era nata, ove aveva tante memorie e tanti amici, ove i bisogni del cuore, e tutte le necessità della vita la rendevano indispensabile.

Essa riprese con bontà ed energia il suo antico dominio, e papà Gervasio ne fu così lieto che gli parve anche di star meglio di salute, e si propose di seguire i consigli del medico, ai quali non faceva più attenzione per le afflizioni che gli amareggiavano l'esistenza.

Le sue sofferenze esigevano un esercizio moderato; l'immobilità gli riusciva dannosa quanto l'esercizio violento. Non poteva camminare senza incomodo, non poteva subire le scosse della vettura senza inconvenienti. Si fidava benissimo di Falcone, cavallo onorato e tranquillo; ma era ancora troppo brioso per lui, perchè restando lungamente in scuderia, quando lo attaccavano al legno salutava l'aria aperta dei campi con ripetuti nitriti, e faceva dei salti d'allegria.

Il medico lo aveva consigliato di acquistare un somarello e un carrettino relativo, e di farsi trascinare senza scosse per le vie battute. Aveva seguito il consiglio, e l'asinello seppe meritarsi facilmente le simpatie di Maria, che gli aveva messo nome Martino.

Collocato in scuderia nella posta vicina al Falcone, i due animali si facevano buona compagnia, si strinsero prontamente in amicizia, e vennero ammessi alle stesse profende d'avena, alle stesse largizioni di pane e di zucchero, ed alle carezze della mano affettuosa di Maria.

Quando uno dei due era tirato fuori dalla stalla, l'altro mandava dei lamenti dolorosi, e continuava a dolersi durante l'assenza del compagno, e al ritorno si udivano i reciproci saluti, gli allegri nitriti del cavallo e i ragli ripetuti dell'asino.

Martino aveva imparato da Falcone a poggiare il muso sulle spalle della signora, a frugarle le tasche colla bocca, a dimostrare in diversi modi il piacere di vederla, e la riconoscenza dei doni ricevuti.

Maria ne faceva l'elogio al maestro Zecchini, lo conduceva in scuderia a fare conoscenza col nuovo amico.

Papà Gervasio li seguiva insieme con Andrea, si lodava moltissimo dell'onestà e della intelligenza dell'animale, che gli si rendeva così utile, Pasquale voleva convincerli che il somaro era migliore del cavallo; guai se egli tardava un momento a somministrare l'avena a Falcone, appena trascorsa l'ora il cavallo si dimenava impaziente, e batteva le zampe in segno di collera. Martino aspettava rassegnato, non si lamentava mai, si contentava d'ogni cibo, ed anche in piccola porzione.

Uscendo dalla scuderia Andrea confermò i detti di Pasquale e ne fece i commenti; egli asserì che il cocchiere rubava la avena, e preferiva il somaro, perchè la povera bestia non si lamentava d'esserne intieramente privata, quando a Falcone era obbligato di darne almeno una parte per farlo tacere. Pasquale va in furia, disse Andrea, per questa esigenza del cavallo, bestemmia, e lo bastona. L'ho veduto io coi miei occhi.

Alcuni giorni dopo questa visita alla scuderia papà Gervasio si trovò in salotto col maestro Zecchini che stava seduto sulla poltrona in aspetto malinconico, silenzioso, cogli occhi bassi, rispondendo appena alle interrogazioni con parole tronche e recise. Si mostrò sorpreso di quei laconismi, e gli domandò se qualche afflizione lo rendeva così triste e pensieroso.

– Sicuro, ho una grande afflizione, gli rispose il maestro, e si può averne per motivi meno gravi del mio. Che cosa pensereste voi se un'opinione sostenuta in tutto il corso della vita, e costantemente confermata dalla esperienza, cominciasse a mostrarvisi erronea nell'età più avanzata?

– Avete dunque da deplorare un simile disinganno?

– Pur troppo!.. pur troppo!.. Voi sapete benissimo che ho ripetuto sempre la stessa cosa, per un lungo corso di anni, ho sempre detto che l'uomo è un asino!

– Ebbene?..

– Ebbene, ho gran paura d'aver calunniato l'asino!..

– Ma come vi vengono questi scrupoli?

– Dall'attenta osservazione. Ho fatto un esatto studio comparativo fra il vostro domestico e il vostro somaro, e mi risulta che Martino è superiore a Pasquale in tutti i punti. L'asino è buono e Pasquale è crudele: l'asino è sobrio e Pasquale è un ghiottone; l'asino è paziente e Pasquale è violento; l'asino è onesto e Pasquale è un briccone; l'asino è pacifico e Pasquale è un accattabrighe; l'asino è utile e Pasquale è dannoso, l'asino è riconoscente e Pasquale è un ingrato…

– Queste sono tutte verità indiscutibili!

– Dunque la mia teoria è stata un errore! che ha ingannato una lunga esistenza…

– Consolatevi, forse la vostra teoria non è sbagliata quanto può sembrare a prima vista. Voi conoscete la legge delle compensazioni. Applicate questa legge al vostro caso; se vi sono degli uomini che si possono mettere senza scrupoli al di sotto degli asini, ve ne sono di quelli che bisogna metterli molto al di sopra, molto più in alto, ed è forse per questo che si chiamano uomini superiori! Ebbene le due eccezioni si compensano fra loro; e resta la grande maggioranza del genere umano, che dà perfettamente ragione alla vostra teoria.

La loro conversazione fu interrotta da un rumore della stanza vicina. Poco dopo Pasquale spalancò la porta che metteva al piano superiore, e videro entrare Andrea e Maria che portavano in un seggiolone la nonna paralitica. Il medico aveva ordinato di farla alzare dal letto, di vestirla, di trasportarla al pian terreno, ove l'aria balsamica del giardino, le avrebbe fatto del bene. E infatti essa guardava attorno con sguardo curioso, e meno triste. Pareva che la povera donna sorgesse dal sepolcro, tanto era pallida e magra, e che ritornando fra suoi diletti, rivedesse con piacere i cari volti del figlio, dei nipoti, dell'amico, e quelle pareti che le raccontavano una lunga storia di ansie e di dolori, di affanni, di lagrime, temperate appena da qualche raggio fuggitivo di gioia, da qualche bel giorno sereno fra le burrasche della vita.

Tutti le furono intorno con congratulazioni ed auguri. Essa ascoltava e mostrava di comprendere, ma non poteva rispondere che con un sorriso ed una lagrima, muoveva anche le labbra, ma la parola usciva confusa e incomprensibile. La mano paralitica era sostenuta da un fazzoletto assicurato alla spalla, l'altra che poteva muoversi la teneva appoggiata affettuosamente sulla testa di Maria, come una santa benedizione che invocasse il cielo per lei.

– Povera donna! esclamava Gervasio, asciugandosi una lagrima col dorso della mano, tanta operosità, tanta vita, ridotte in questo stato!..

– Se possiamo conservarla così, rispose Maria, tenerla con noi, consolarla ed assisterla, non abbiamo diritto di lamentarci. Quando penso che potevamo perderla per sempre, ringrazio Iddio di avercela conservata, anche in questo stato.

Pasquale che era uscito, ritornò poco dopo con una lettera.

Metilde teneva informata esattamente la famiglia, sulla salute dei suoi ammalati che andavano migliorando. La febbre e le sofferenze di Silvio erano assai più miti, egli domandava continuamente della sua famiglia lontana. Chiamava suo padre, la nonna, Maria, e li pregava di scrivere. La piccola Camilla ricominciava a zampettare, e rideva quando le facevano il bausette, ma talvolta la sua faccina si alterava tutto ad un tratto, e le uscivano dagli occhi dei lucciconi che mostravano le sue sofferenze. Saranno i vermi, il medico non sa che cosa ordinarle, ma ci dice di sperar bene. «Questa parola sperare, che dovrebbe consolarmi, mi fa paura, scriveva Metilde; ogni speranza ammette un dubbio, che nel mio caso è spaventoso. La povera bimba è molto esile, delicata, i suoi lamenti che non posso tradurre nè intendere mi mettono alla disperazione. Ah! se potessi indovinare che cosa domanda! le darei l'anima mia. Sento che se dovessi perderla non avrei più la forza di vivere. Se Maria potesse darmi un consiglio, aspetto ansiosamente le sue lettere.»

Maria cercava di risponderle il meno male che fosse possibile, ma questa corrispondenza le riusciva un poco imbarazzante. Tuttavia, avvezza a molti sacrifizi non osava rifiutarsi al più grande di tutti. Stava al tavolo delle ore intiere per mettere insieme una pagina tutta piena di strambotti; cancellava, tornava a provare, sostituiva uno sproposito ad un altro, poi ricopiava varie volte, e finiva sospirando, tutta rossa in viso, e colle dita sporche d'inchiostro.

Quando Metilde leggeva queste lettere a suo marito cercava di dissimulare, per quanto le era possibile, la soddisfazione che provava della inferiorità della cugina, ma un certo sorriso sarcastico svelava i suoi pensieri e attristava Silvio.

Papà Gervasio scriveva più raramente, per sollevare Maria, si limitava a far coraggio a' suoi figli, dava le notizie precise della famiglia, e basta.

Quando c'erano buone nuove, Metilde scriveva con brio, e pareva che il suo buon umore, pieno di grazia, si spandesse per la casa, come una consolazione soave. Quando il marito o la bimba peggioravano, le sue espressioni prendevano un senso così doloroso che stringevano il cuore. Aveva delle frasi nuove, originali, tutte sue, che riuscivano balsami o frecce, secondo i casi.

Quando leggevano quelle lettere, tutti stavano attenti ad ammirarle, e papà Gervasio esclamava:

– Scrive come una fata! si vede che ha ricevuto una educazione letteraria perfetta!..

– Peccato, osservava il maestro, ma proprio peccato che non sappia cuocere due uova al burro!..

Un giorno Metilde ricevette una lettera di Maria con tali errori, sconcordanze, ed equivoci burleschi, che leggendola a suo marito, senza essersi apparecchiata, non le fu possibile di frenare uno scoppio di risa argentine che parvero colpire l'ammalato come tante laminette taglienti. Essa lo vide sconvolto, si pentì subito della sua imprudenza, gliene fece mille scuse colle lagrime agli occhi, ma fu peggio di tutto. Egli chiuse in sè stesso quella dolorosa impressione, ma sulla sera fu ripreso dai brividi della febbre con acute sofferenze d'intestini.

Il medico alla cura, fortemente impressionato dalla impreveduta recrudescenza della malattia, volle udire nuovamente l'opinione del dottore Pellegrini, il quale comparve per la seconda volta al letto dell'infermo.

Il medico alla cura chiese alla signora che cosa aveva mangiato suo marito.

– Un semplice brodo con un tuorlo d'uovo, essa rispose.

– Nemmeno se fosse stato un uovo di serpente! esclamò il medico, e volle sapere che cosa avesse bevuto.

– La solita acqua di limone allungata.

– Ha preso aria? Hanno aperte le finestre!

– Mai! mai, mai…

Intanto il dottor Pellegrini taceva. Seduto in fianco al letto colla mano al polso dell'ammalato, cogli occhi intenti nel volto di lui, lo andava guardando con profonda attenzione, come volesse scrutarne i pensieri. Quando il medico alla cura ebbe finito il suo esame, il medico consulente cominciò colla interrogazione seguente:

– Chi è venuto oggi a trovarlo?..

– Nessuno affatto… rispose Metilde.

– La signora, o la domestica gli avranno data qualche notizia?..

– Gli ho letto una lettera della famiglia

– Ah!.. fece il dottor Pellegrini, poi rivolto al collega gli disse: Ecco il motore!.. ecco l'agente! e rivolto alla signora gli domandò:

– Erano forse notizie attristanti?..

– Tutt'altro… erano buone notizie… tutti stanno un po' meglio.

– Allora ha sorriso per la gioia, o ha pianto di consolazione?

– Non ha nè riso nè pianto.

– Chi scriveva quella lettera?

– Nostra cugina…

– Una cugina… nubile?.. maritata?..

– Maritata, maritata, rispose Metilde con un po' di dispetto, tanto la seccavano quelle interrogazioni indiscrete.

– Vedo che la signora mi trova troppo curioso, osservò il dottore; ella crede certamente inutili le mie domande. Ebbene, io voglio giustificarmi perchè parlo con persona che intende. Ella deve dunque sapere, cara signora, che ogni uomo obbedisce come uno schiavo ad un complesso di leggi che non conosce. Molte ispirazioni elevate, molti sentimenti generosi non sono che effetti d'un alimento o d'una bevanda, e così pure molti dolori intestinali sono prodotti da un'impressione morale. Se nessun cibo e nessuna bevanda hanno fatto male a suo marito, bisogna cercarne la causa nel cervello o nel cuore, perchè questi organi sono strettamente legati agli intestini, come il telegrafo di Venezia è legato a quello di Roma. Tutte le parti del nostro corpo corrispondono fra loro, e comunicano cogli agenti esterni non solo colla bocca, ma ancora cogli occhi e colle orecchie, quello che si vede e che si sente può produrre gli stessi effetti di quello che si mangia; una lettura può agire come un veleno; un paesaggio come un calmante. La collera, il disinganno, l'invidia alterano il fegato, i debiti fanno dolere la testa, la paura agisce sulla vescica e sugli intestini… Ella vede dunque chiaramente che è stata quella lettera, che avendo trovato suo marito in uno stato di profonda debolezza, ha prodotto gli effetti dolorosi che ora dobbiamo risanare.

A queste parole, Silvio si scosse dal letargo nel quale lo aveva gettato la febbre, e disse:

– È verissimo quello che dice il dottore, l'inasprimento delle mie sofferenze è una conseguenza di quella lettera; essa mi ha fortemente contrariato ed afflitto.

– Ecco trovata la causa, conchiuse il dottor Pellegrini, adesso tocca a noi a modificarne gli effetti, e a riparare i danni prodotti.

Metilde in piedi davanti il letto guardava il marito con occhio torvo, mentre il dottor Pellegrini scriveva una ricetta, parlando sotto voce col collega, che mostrava di approvarlo col movimento del capo.

Il giorno seguente toccò alla piccola Camilla d'essere molto sofferente. Il medico la trovò aggravatissima. La madre afflitta ed inquieta era poco fiduciosa nel dottore, ma non voleva nemmeno consultare quel famoso Pellegrini che cominciava a diventarle antipatico. Pregò sua madre di mandarle il loro vecchio medico di casa, che non faceva tante domande suggestive, che ordinava ai bimbi dei biscottini, ed agli adulti quei beveroni di fieno filtrato, i quali contenendo tutte le erbe medicinali conosciute, dovevano giovare a tutte le malattie. Ma il povero vecchio era morto da qualche tempo, senza lasciare degli allievi. La piccola ammalata peggiorava, il giovane medico consigliò la signora di chiamare ancora il Pellegrini, e nell'interesse della bambina dovette rassegnarsi al nuovo consulto.

Quando udì il campanello che annunziava la visita all'ora fissata, la signora agitata da diverse sensazioni andò ad incontrare i medici in anticamera; li ricevette con un certo sussiego, e quando furono davanti la cuna, s'indirizzò al dottore Pellegrini, e gli disse con aria di mal dissimulata ironia:

– La povera bimba non ha ricevuto nessuna lettera da un cugino, dove andremo adesso a trovare il movente dei suoi dolori?..

– Nel sangue dei genitori: le rispose pacatamente il medico, in un qualche vizio, in qualche disgrazia degli antenati, in una debolezza o in un peccato della nonna o della bisnonna. Nella vita sociale i debiti restano alcune volte insoluti. Il benefizio d'inventario è un'invenzione umana, come ne ebbero sempre i legislatori; ma la natura non transige, e se i parenti contraggono dei debiti, tocca ai discendenti a pagarli.

– I nostri parenti morirono tutti vecchi, rispose Metilde; il nonno di mio marito, il capitano Bonifazio ha fatta la campagna di Russia ed è morto da pochi anni; sua moglie invecchiò come lui; i miei nonni morirono vecchioni; i miei genitori, grazie al cielo, stanno benissimo; mia suocera è morta da parto; mio suocero fu fra i difensori di Venezia: è una famiglia ricca di sangue generoso…

– Cerchiamo dunque nel sangue degenerato della generazione presente, soggiunse il dottore; i vecchi resistettero ai disagi della guerra, affrontarono impavidi tutti i pericoli; i discendenti minacciano di morire per la lettera d'una cugina! la ricchezza è diventata la povertà, la pletora degli eroi si è ridotta all'anemia d'un fisico fiacco.

Non c'era caso d'aver ragione con quell'implacabile scrutatore delle umane miserie. Metilde si fece buona, alzò le mani congiunte in atto di preghiera verso il medico, e cogli occhi velati di pianto, gli disse:

– Per carità, dottore, mi salvi questa creaturina innocente di tutti i torti degli avi; dalla sua vita dipende la mia esistenza!..

Il dottore Pellegrini le rispose in tuono raddolcito:

– Mia cara signora, gli alberi si puntellano contro gli uragani; ma basta un soffio d'aria leggiera per abbattere un fiore. La scienza che ha costruite le macchine a vapore non è capace di creare un insetto. La natura è il solo medico dei deboli; la loro tenuità sfugge alla nostra ruvidezza. Cerchiamo di secondare la natura nella sua opera benefica; non possiamo sperare che nella sua potenza. Stia bene attenta ai più lievi movimenti della bimba, cerchi d'indovinare i suoi desideri, la aiuti a conseguirli; invece di consultare i medici, consulti il suo cuore, il cuore di una madre è il miglior medico dei bambini; se una madre, che abbia intelletto d'amore, non salva il suo bimbo ammalato, nessun altro lo può. Eccole il mio consiglio.

Questa volta parve a Metilde che il medico avesse ragione; se ne mostrò riconoscente, lo ricondusse fino alla porta dell'appartamento, stringendogli la mano in modo affettuoso. Avevano fatto la pace.

La malattia rimase stazionaria per due giorni, poi andò peggiorando.

Metilde non abbandonava la bambina nemmeno un istante, la vegliava assiduamente tutta la notte, le dava quei soccorsi che le venivano indicati dal cuore in osservazione continua; ma la natura del male si mostrava ribelle ad ogni cura.

Silvio inquieto, fremente nel suo letto di dolore, andava fantasticando con mille sogni d'infermo. Conoscendo sua moglie inetta a tutte le faccende domestiche, confondeva la padrona di casa colla madre, e pensava che una donna incapace di preparare una bevanda, non poteva essere capace nemmeno di assistere con intelligenza la sua bambina ammalata, e la rendeva ingiustamente responsabile dell'esito della malattia. È certo che vedendosi assistito da un infermiere l'animo irritato e malcontento lo spingeva a cattivi giudizii.

Ma la natura fu spietata e inesorabile, ogni più delicata cura materna fu vana; e dopo parecchi giorni di atroci sofferenze, la povera Camilla morì. E nessuno avrebbe mai potuto cavar dalla mente di Silvio che fosse morta per mancanza di cure.

Per riguardo al dolore della madre che fu grandissimo, il marito desolato nascose il triste pensiero, ma gliene rimase sempre un punto nero nel fondo dell'anima.

Ne diedero subito l'annunzio funebre alla famiglia, e ricevettero le più affettuose condoglianze, e un cassetto contenente i più bei fiori del giardino, raccolti e spediti da Maria per ornare di belle ghirlande la candida bara della morticina.

L'uscita della bara dall'appartamento fu uno schianto atroce pel cuore di Metilde, che cadde priva di sensi nelle braccia di suo padre, accorso colla signora Emilia per assisterla, e calmare il suo dolore. Si temette assai anche pel povero Silvio che quantunque in via di guarigione si trovava tanto abbattuto di forze da non poter sopportare una sensazione violenta. Ma il medico prevedendo la gravità del pericolo gli aveva somministrato degli oppiati soporiferi che attutivano il suo dolore.

Nel giorno dei funerali i signori Ruggeri rimasero colla figlia, lasciando libero sfogo alle sue lagrime; ma il giorno seguente la signora Emilia la ammonì in aria solenne di fare uno sforzo di rassegnazione, per occuparsi di quelle cure affliggenti che sono l'immediata conseguenza della morte dei nostri cari, e le diceva con aria compunta:

– Il mondo, mia cara, ha le sue terribili esigenze, dopo le lagrime c'è un'altra cosa, assai dolorosa, ma indispensabile; bisogna occuparsi del lutto, bisogna vestire le gramaglie. – La sarta e la modista attendevano in anticamera, la signora Emilia accennò alla Betta d'introdurle.

Allora distesero sul tavolo i figurini della moda in lutto, i fiori, e le perline nere di vetro, e le stoffe.

Metilde guardava sbadatamente, cogli occhi gonfi iniettati di sangue; prendeva in mano un figurino, con aria distratta, languente; si asciugava le guancie bagnate di lagrime, rispondeva sì e no coi semplici cenni della testa. La signora Emilia osservava le figure, le stoffe, consultava la sarta, discuteva, si animava parlando, e diceva a sua figlia:

– Ti consiglio la sottana di casimiro, a pieghe nella parte superiore, e a sboffi dal ginocchio in giù. Deve terminare con uno sboffo, una gala a cannoni e un pieghettato. Poi prendendo un altro figurino, le indicava: questa sarebbe la tunica…

– Mi piacerebbe più il giacchettino attillato, soggiungeva Metilde, con voce fioca e sommessa, ma la madre con voce insinuante, riprendeva:

– Creatura mia, quei giacchettini non si portano più dalle signore ammodo, sono troppo comuni, ne hanno perfino le cameriere; invece guarda bene questa tunica, si compone di due panierini sui lati; per di dietro si guerniscono di crespo e formano il puff…

Il disegno del puff sul didietro la persuase. Allora fissarono la forma del cappellino, scelsero i fiori neri, e il lungo velo crespo d'un effetto funebre meraviglioso. La sarta, la modista e la signora Emilia ciarlavano, criticavano certe mode; un mezzo sorriso velato sfiorò anche le labbra della madre, accennando con aria di profondo disprezzo alcuni aggiustamenti del giornale di mode, che le spiacevano.

Poi passarono alla scelta delle golette, dei polsini, dei fazzoletti di battista, a larghe righe nere…

– Mi occorrono anche dei guanti, disse Metilde, con un profondo sospiro, un ombrellino, e un ventaglio…

– Tutte queste cose le compreremo insieme alla prima uscita, le rispose la madre. Ho veduto da Fana dei ventagli da lutto, deliziosi!.. te li farò vedere.

Dopo la partenza della sarta e della modista entrarono nella stanza di Silvio; si avvicinarono al letto; la signora Emilia gli parlò dei preparativi del lutto, e gli domandò se desiderava che mandassero il suo cappello dal cappellaio, perchè vi mettesse il velo crespo.

Silvio guardò la suocera cogli occhi stupiditi, poi tutto d'un tratto le voltò le spalle e proruppe in uno scoppio di pianto. Metilde gli si avvicinò, gli appoggiò una mano sulla fronte, e piansero insieme.

La signora Emilia si ritirava scuotendo la testa, mettendo in moto i ricciolini della fronte, e dimenando i fianchi in aria disinvolta, si affacciava alla finestra, e guardava se il macellaio aveva aperta la bottega, per mandare la Betta a far la spesa. Tutte quelle scene le vuotavano lo stomaco, e sentiva il bisogno di rintonarsi le forze.

Incominciata la convalescenza, gli amici di Silvio venivano a vederlo, e a fargli un po' di compagnia; la signora Metilde faceva la sua comparsa in gran lutto, e prendeva parte alla conversazione.

Quei giovinotti, quando uscivano dalla casa, si comunicavano le loro impressioni.

Chi diceva che Metilde era una donna molto elegante e gentile; chi lodava la sua intelligenza e coltura; e chi trovava che il lutto andava bene a tutte le donne, ma specialmente alle bionde. Silvio si accorgeva della rispettosa ammirazione degli amici, e ne andava superbo. Aveva già congedato l'infermiere da qualche giorno, e non si rammentava più quanto gli fossero mancati i soccorsi del cuore nei giorni delle sofferenze.

Erano privi da qualche giorno di notizie della villa, quando giunse inaspettata una lettera del maestro Zecchini, il quale non scriveva che nelle grandi occasioni. Ruppero prontamente la busta per vedere che cosa c'era di nuovo, e cominciarono a leggere una lunga filastrocca che preparava l'annunzio d'una nuova disgrazia.

Tutte quelle frasi lambiccate potevano riassumersi in poche parole; ma egli divagava lungamente per persuadere che a questo mondo bisogna morire, specialmente dopo qualche insulto apoplettico. La morte della nonna era tutt'altro che inaspettata, anzi tutti erano sorpresi che la povera paralitica potesse tirare più in lungo. Ma la vita le fu prolungata per le cure affettuose di Maria. Alfine dovette soccombere ad un ultimo attacco decisivo. Maria poteva dire di aver perduto sua madre, e infatti nessuno tentava di consolarla.

La povera vecchietta paralitica era più che rimbambita, ma la nipote la sorvegliava con tenerezza, e sperava che le sue cure affettuose l'avrebbero conservata ancora per lungo tempo. Il sorriso benevolo della nonna la ricompensava largamente di tante fatiche, e la sua morte lasciava un vuoto spaventoso nella casa Bonifazio, e nel cuore figliale della nipote.

La perdita della madre adorata, la desolazione straziante di Maria, le lagrime e il lutto di tutti diedero l'ultimo crollo anche a papà Gervasio, già infiacchito dagli anni e dalle amarezze, e consunto dalle sofferenze intestinali, che lo molestavano da lungo tempo.

Si mise a letto, fece chiamare il maestro Zecchini, come il più vecchio amico di casa, e colla sincera effusione d'un animo affranto, gli confidò i suoi presentimenti e le sue disposizioni.

– Mi sono tenuto in piedi colla forza della volontà, egli disse; fino che viveva mia madre le dissimulava le mie sofferenze, perchè leggevo l'inquietudine nel suo sguardo incerto e vagante, e non volevo aggravare il suo stato mostrandole di star male. Ma sento che la mia fine si avvicina, ho dei doveri da compiere, vi prego di farmi venire un notaio.

– Appunto perchè soffrite da molti anni io spero che il male non sia grave, e che la vostra vita sarà prolungata per il bene di tutti, gli rispose il maestro; ma siccome il far testamento non fa morire nessuno, così io vado a cercare il notaio, e vi approvo; ma lo condurrò senza che la povera Maria se ne avveda; essa non ha bisogno d'altri dolori.

E così fu fatto. Papà Gervasio dettò il suo testamento, e dopo la partenza del notaio, pregò l'amico Zecchini di scrivere un'altra lettera a suo figlio, annunziandogli che le sue sofferenze si erano aggravate, che desiderava vederlo ancora una volta prima di morire per dargli l'ultimo bacio e la sua benedizione.

Il maestro sapeva che Silvio cominciava appena la convalescenza della grave malattia sofferta, e vedeva d'altronde che le apprensioni di Gervasio erano esagerate; scrisse dunque in modo da non spaventare nessuno, annunziando il desiderio del padre, facendo vedere che non c'era urgenza, e che sarebbe stato bene di prendere delle misure per restare in campagna qualche mese colla moglie, per tener compagnia al padre infermo, e in pari tempo per rimettere perfettamente in salute anche Silvio, coll'aria pura ed elastica della villa, durante la bella stagione.

Questa lettera giunse a Venezia qualche giorno dopo di quella che annunziava la morte della povera nonna, e aggravò il dolore sofferto, lasciando sospettare, malgrado le attenuazioni del maestro, la minaccia d'una perdita ancora più dolorosa.

– Le disgrazie sono come le ciliegie, diceva Silvio; non vengono mai sole, e quando cominciano non finiscono più!

Il medico venne informato minutamente di tutte queste circostanze, e in considerazione della gravità del fatto permise a Silvio di lasciarlo partire fra pochi giorni, quantunque non fosse ancora intieramente ristabilito, e che le forze continuassero a fargli difetto. Tuttavia la brevità del viaggio, fatto con ogni precauzione possibile non poteva recargli danno. Avrebbe continuato la sua cura ricostituente anche nella casa paterna, col vantaggio dell'aria della campagna, e della quiete tanto benefica ai convalescenti, che gli restituirebbero prontamente le forze indebolite, e il vigore perduto.

Marito e moglie furono concordi per seguire il consiglio medico; ma la signora Emilia vi trovava delle grandi difficoltà, e non poteva persuadersi della necessità d'un soggiorno prolungato in campagna.

– Pazienza per qualche giorno, essa diceva a sua figlia, ma al tempo dei bagni! nella stagione più brillante per Venezia; e se passasse l'autunno, e se venisse il novembre e che tuo suocero fosse ancora ammalato? Se si trattasse d'una malattia acuta che si sbrigasse in qualche giorno, ma quel pover'uomo mi pare un cronico, e vi sono dei cronici che vivono più dei sani!..

Возрастное ограничение:
12+
Дата выхода на Литрес:
25 июня 2017
Объем:
290 стр. 1 иллюстрация
Правообладатель:
Public Domain

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