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Читать книгу: «Mezzo secolo di patriotismo», страница 8

Bonfadini Romualdo
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Scrisse in carcere le sue Memorie; dieci fascicoli di carattere fitto che non si possono guardare senza emozione, pensando al luogo dove furono scritte e alle lagrime che avranno costato.

Le dirigeva, con affettuose parole, alla consorte Teresa, di cui certo in quegli anni avrà apprezzato l'amore più che in ogni altra epoca della sua vita.

Si struggeva dal desiderio di poterla rivedere, e lo sperava. Ma un giorno entra nel suo carcere un commissario ruvido e impettito. “Numero sette„ gli dice “S. M. l'Imperatore si degna di farvi sapere che vostra moglie è morta.„ La pagina che segue nelle sue Memorie a questo annuncio è straziante. Cessa di scrivere perchè non ha più il Nume che lo inspirava. Nelle ultime pagine, le sue riflessioni si volgono di preferenza ad argomenti spirituali. Quando Francesco muore, e il suo successore spalanca, non senza restrizioni, le porte delle prigioni politiche, Confalonieri è un uomo, come Pellico e più di Pellico, avvolto nell'atmosfera di un misticismo religioso profondo. Sicchè dovette certo suonargli gradita l'epigrafe apposta ad un libro che trovò a Gradisca, inviatogli dal suo condiscepolo e quasi fratello, Alessandro Manzoni.

“Che può l'amicizia lontana per mitigare le angosce del carcere, le amarezze dell'esiglio, la desolazione di una perdita irreparabile? Qualche cosa quando preghi; chè, se sterile è il compianto che nasce nell'uomo e finisce in lui, feconda è la preghiera che vien da Dio e a Dio ritorna. – Milano, 23 aprile 1836.„

Rispettiamo l'evoluzione di queste coscienze, che, dopo 15 anni di colloquio col proprio dolore, hanno trovato una via. Quante cose, al mondo, sembrano diverse, guardate al lume della solitudine e della sventura!

Federico Confalonieri fu, nell'ultima fase della sua vita, uomo e patriota alto d'istinti, com'era stato nella prima. Il carcere non lo aveva domato, la libertà non lo sbilanciò. Condottosi in America, vi trovò accoglienze così romorose quali non potevano convenire al suo carattere chiuso ed austero. Vi era stato preceduto da un articolo dell'Edimbourg Rewiew che ne faceva altissime lodi. Più, v'era conosciuto e assai popolare il nuovo libro di Pellico: Le mie prigioni, la cui traduzione si leggeva anche nei più meschini abituri. Il Confalonieri fu dunque accolto con quegli entusiasmi, di cui la razza anglo-sassone non cede in alcune occasioni il privilegio alle razze latine. Lo chiamavano il martire del miglioramento umano; lo pregavano di benedire, di battezzare i bambini; domandavano al suo cameriere qualcuno dei suoi grigi capelli.

Il proscritto milanese si sottraeva, come e quando poteva, a simili pubblicità. Studiava, secondo l'antica abitudine, uomini, istituzioni, movimento scientifico; e v'è una sua lunga lettera, in cui parla delle nuove applicazioni dell'elettricità, e suppone, con notevole preveggenza, che questa forza debba potere in seguito adoperarsi pei trasporti e per l'illuminazione.

In America trova Pietro Borsieri, suo compagno di sventura, e lo soccorre con fraterna larghezza; trova il principe Luigi Bonaparte, che lo colma di gentilezze, e vi risponde con severo riserbo.

Torna in Europa, va a Parigi, e Luigi Filippo lo sbandisce entro ventiquattro ore dal regno, per compiacere alle richieste dell'ambasciatore d'Austria.

Questi pretendeva che il Confalonieri avesse violato uno dei patti dell'amnistia concessagli, cercando di vivere in Europa. E lasciava che questa sua accusa si diffondesse, tanto che un giornale, il Temps, la raccolse per conto suo e stampò un articolo abbastanza ingiusto per l'esule milanese. Il Confalonieri non accettò di sopportare in silenzio questa duplice ostilità. Scrisse al Temps una lettera dignitosa per rivendicare i suoi diritti e ristabilire la verità delle cose49. L'incidente destò rumore; parve indegno che due governi si unissero per togliere ad un uomo la libertà del suo domicilio; e il ministero francese, spaventato dalle fiere proteste dell'opposizione parlamentare, revocò il suo decreto.

A Vichy s'incontra per la prima volta, dopo lo Spielberg, con Giorgio Pallavicino; e fra quei due uomini, così duramente provati dal destino, la prima impressione è piuttosto d'imbarazzo che di simpatia. Le origini del processo pesavano sulla loro memoria. Ma quel broncio, in terra straniera, fra due vecchi patrioti, addolorava un giovane patriota, e Carlo D'Adda si prese l'assunto di ravvicinarli e riconciliarli. Strano a dirsi, non fu il Confalonieri l'uomo di cui si dovettero vincere le esitazioni.

L'amnistia del 1838 riapre al profugo illustre le mura della sua Milano, ed egli vi trova le antiche amicizie, risaldate dal rispetto che impongono le sofferenze nobilmente patite. Trova la situazione politica migliore di quella che vi aveva lasciata; perchè la rivoluzione del 1830 ha data una nuova sconfitta alla reazione; e perchè il suo sacrificio e quello dei suoi compagni ha ingagliardita la fibra popolare, rialzando, colla virtù dell'esempio, le coscienze prostrate. L'antico prigioniero è affranto, malaticcio, solitario, aspro di umore e di carattere; ma il rispetto dei patrioti e dei giovani lo accompagna; quando passa a cavallo, dinanzi al ginnasio di S. Marta, gli scolari escono per vederlo e si scoprono il capo dinanzi a lui; Giuseppe Mazzini gli scrive: “fin dai miei primi anni di gioventù ho imparato a stimarvi e ad amarvi… Parmi che uomini come voi debbano essere serbati non solamente a patire, ma a fare. E parmi che le occasioni non mancheranno.„

Sventuratamente, quando le occasioni vennero, Federico Confalonieri non v'era più. V'è e rimane la fama di lui, che per l'insieme dei fatti e per lo sdrucciolo delle odierne moralità politiche, bisogna sperare sia più vicina a crescere che a diminuire.

Quella generazione del 1821, resa sacra dal patriotismo, non possedeva nel suo complesso i requisiti necessari al còmpito che i tempi duri le avevano assegnato. Fra uomini colti e miti, come il Pellico, come l'Arrivabene, come l'Arconati, e giovani facilmente avventati, come il Pallavicino, il Trecchi, il Borsieri, soltanto Federico Confalonieri ebbe tutte le qualità del cospiratore, del capo di parte, dell'uomo di Stato. La generosità dell'indole sua è provata dalla grande solidità degli affetti che a molte persone superiori seppe inspirare. Dove si trovava era il primo, e nessuna gelosia turbava questa sua preminenza. Le lettere che gli scrivono Silvio Pellico, Lodovico de Breme, Pellegrino Rossi, il Mompiani, gli Ugoni sono calde di una vera amicizia. Teresa Casati crea per lui una leggenda di amor conjugale. Il Mazzini e il Manzoni lo amano di pari affetto. Alessandro Andryane gli dedica un culto idolatra. Quando i condannati camminano verso lo Spielberg, circondano lui d'ogni dimostrazione di simpatia e di rispetto. Il commissario che il conduce scrive: “sentivano essi ogni sua fisica e morale alterazione, nè di altro si occupavano che dello stato del Confalonieri50.„

Un uomo che si concilia da persone così diverse, e in così diverse situazioni, sentimenti così profondi, doveva essere uomo di qualità superiori; la sola energia del carattere non sarebbe bastata a giustificarli. Forse le occasioni soltanto gli mancarono per essere un uomo grande. L'ambiente di compressione e l'epoca di transizione dovettero unirsi per impedirgli maggiore svolgimento di facoltà e di azione51.

Quando il Confalonieri morì, i suoi funerali servirono al popolo ed alla nobiltà milanese di occasione per confondersi insieme sulla piazza di San Fedele e compiere la prima di quelle dimostrazioni politiche, alla cui serie doveva seguire l'ammirabile concordia delle cinque giornate. E certo quel generoso spirito dovette essere lieto nell'infinito che il suo cadavere giovasse a così fecondo suggello delle sue speranze. Era stato, vivendo, il martire; doveva essere, morendo, il profeta del patriotismo. V'è qualche sintesi a trarre, in vantaggio dei tempi nostri, dall'insieme doloroso e glorioso dei fatti che siamo venuti esponendo o riassumendo? Se v'è, potrebb'essere questa.

Per uno di quei contrasti che non sono nella storia infrequenti, sotto un regime assetato di despotismo e di vigliaccheria s'era educata una generazione di uomini forti e liberi che ci hanno preparata la patria. Ora che la patria l'abbiamo, siamo insofferenti d'ogni difetto di cose, e c'immaginiamo di poterli tutti correggere, improvvisando, contro ogni difetto, ordinamenti e decreti. Mutiamo il metodo; volgiamo l'intento nostro a fare dei caratteri e non dei decreti. Quando avremo i primi, trarremo anche da decreti mediocri effetti buoni. Ma se ci ostineremo esclusivamente intorno ai secondi, lasciando che dietro ad essi sorgano generazioni fiacche e prive di fede, avremo fatto una patria somigliante a quei busti di guerrieri a cavallo che si ammirano nelle nostre armerie medio-evali. Le corazze saranno lucide, i gambali perfetti, gli elmi eleganti; soltanto, il cavallo sarà di legno, e le brune armature nasconderanno il vuoto.

IL QUARANTOTTO
E LE CINQUE GIORNATE

Tocchiamo coi nostri studi ad epoche d'indagazione scabrosa, e più che mai sentiamo quanto sia difficile il camminare per ignes.

Parlare della rivoluzione del 1848 senza poterne fare la storia; ricordare fatti di uomini vivi e di uomini morti, colla certezza di non poter rendere nè a tutti i vivi, nè a tutti i morti quel giusto omaggio che richiederebbe giorni e volumi; esporre questa mezza storia e questi mezzi ricordi a giovani che non hanno sentita di quegli eventi neanche l'ultima onda, ed a vecchi, a cui non disdirebbe la frase del poeta: quorum pars magna fui; ecco certamente un'impresa che, come soverchia le nostre forze, così dovrebbe soverchiare il nostro coraggio.

Senonchè un altro pensiero ci risospinge; ed è che dopo avere osato evocare dal loro silenzio tanti e così diversi tipi storici milanesi, da S. Ambrogio a Federico Confalonieri; dopo avere, per quasi tre volumi, agitata la face dei dolori e delle discordie che ingemmarono il nostro passato; potrebbe sembrare una ingiustizia od una viltà il chiudere questo colloquio coi nostri lettori, senza tentare di farli rivivere, almeno per un'ora, in quella sola epoca di combattimento che fu una gloria per tutti, – in quel solo periodo, già pur troppo così lontano, in cui gli animi e i cuori dei nostri concittadini si sono trovati, per molti mesi, uniti da un solo pensiero, scaldati da un solo affetto.

L'Europa del 1886 muove per vie affatto diverse da quelle su cui ci eravamo incamminati trentasette anni fa. Quelle parole d'indipendenza, di nazionalità, di libero scambio, di fratellanza sociale, che allora ci facevano battere il cuore, sono divenute parole antiquate, idee puerili, sulle quali discende l'olimpico sorriso di compassione o di scetticismo degli uomini pratici. Oggi la nazionalità si seppellisce sotto i protocolli diplomatici di Londra o di Berlino; l'indipendenza si porta per l'Asia o per l'Africa a colpi di cannone; il libero scambio fa innalzare a regni ed a repubbliche barriere di dogane protezioniste; la fratellanza sociale si esplica, sotto repubbliche e sotto regni, cercando i modi per cui s'impedisca agli operai stranieri di cooperare coi nazionali nei prodigi del lavoro e dell'industria.

Quelle parole hanno avuto però la loro storia. Forse potranno riaverla. Ad ogni modo, è quando l'egoismo degl'interessi materiali corrode le società e “mena gli spirti nella sua rapina„ che bisogna irrigidirsi dal lato opposto e tenere alta la fiaccola degli ideali. A questi – tosto o tardi – ritornano le nazioni, quando giunge l'ora del dolore e della sventura. Allora piace intrattenersi colle nobili ombre, e trarre da nobili tradizioni la lena per rifare il cammino. E si comprende allora – tardi – come debba vedere disalvearsi presto i fiumi della sua prosperità materiale un popolo che lasci inaridire le fonti della sua morale dignità.

I.
LA PREPARAZIONE

Fra gli abituri che il rinnovamento edilizio di Milano ha trovato sul suo passaggio e che ha irrevocabilmente sacrificato ai tardi orgogli delle vie possibilmente larghe e passabilmente diritte, pochi ormai ricordano due bottegucce da caffè, tanto modeste da non avere quasi neanche un nome proprio, e che perciò si rifugiarono dietro il nome vezzeggiativo delle singole proprietarie.

L'una esisteva dietro gli attuali portici occidentali della piazza del Duomo tra le distrutte vie del Falcone e del Cappello, e si chiamava il caffè della Peppina; l'altra stava quasi di fronte al maggior Teatro, in quel massiccio di case che si dovette abbattere per preparare il giardino dove sorge il monumento a Leonardo da Vinci, e si chiamava il caffè della Cecchina.

Chi avesse frequentato, con ispirito di osservazione, quei due bugigattoli, negli anni che corsero dal 1840 al 1848, vi avrebbe spesse volte notato due gruppi d'amici, stretti a colloqui più intimi degli altri avventori; facilmente occupati a sfogliare giornali, a commentarli vivacemente, a ricevere e leggere biglietti, a scrivere risposte, a mandare e ricevere messaggeri. E forse un osservatore superficiale, pensando alle abitudini del tempo, all'età di quegli avventori, all'ubicazione dei due stabilimenti, avrebbe potuto immaginarsi che tutta quell'attività giovanile avesse per ultimo risultato i sorrisi delle ballerine e delle cantanti che passavano dinanzi al caffè della Cecchina o di deità anche minori che brulicavano nei paraggi del caffè della Peppina.

Eppure proprio in quei due bugigattoli si venivano preparando audacie grosse, e le due società intime che avevano scelti per le loro confidenze i tavolini di quei due caffè rappresentavano su per giù due diverse scuole di movimento politico, che riunendosi avrebbero provocato la rivoluzione del 1848.

La schiera che si radunava al caffè della Peppina usciva direttamente dalle numerose fila della Giovane Italia; e quando v'era a dibattere qualche argomento più geloso o più pericoloso dei soliti, si trasportava nella casa di uno dei suoi più intelligenti e più risoluti centurioni, Attilio De Luigi, dimorante in una delle vie curve e deserte dell'antica Milano, S. Ambrogio dei Disciplini. Lì complottavano, con maggiore o minore efficacia, ma con intera devozione e con intero sacrificio di sè; e l'osservatore vi avrebbe potuto notare, tra gli altri, il dottor Pietro Maestri, allora direttore della Casa di Salute a Porta Nuova, e Alberico Gerli, conosciuto nelle intimità rivoluzionarie col nomignolo di Pepe, e due giovani, che mescolavano la matematica colla politica, Giovanni Cantoni ed Angelo Tagliaferri, e quel fiero Pezzotti, che prometteva ai compagni di uccidersi, se fosse stato arrestato, e doveva più tardi mantenere la parola; vi bazzicavano, con minore frequenza, ma con eguale attività di preparazione, un altro matematico, già più alto nella scienza che negli anni, Francesco Brioschi, e due giovani, destinati a lunga e dolorosa sanzione di patriottismo, Giuseppe Finzi e il dott. Antonio Lazzati.

La Giovane Italia era rimasta ormai la sola fra le società segrete di carattere militante, dopo il naufragio che avevano fatto, colle sconfitte del 18, del 20, del 21 e del 31, i carbonari, i federati, gli adelfi. L'aveva fondata, nel 1832, un giovane, il cui nome cominciava ad essere influentissimo sugli elementi patriottici, Giuseppe Mazzini.

Di fede ardente, di vita immacolata, di pensoso ingegno e di stile concitato, il Mazzini pareva ordito veramente di quella stoffa di cui si fanno gli apostoli. Dedicatosi giovanissimo alla disciplina delle congiure, non seppe uscirne più per tutta la vita, e nella seconda parte di questa meritò il rimprovero di avere qualche volta sacrificato la realtà dello scopo all'amore del mezzo. La sua comparsa nel moto politico italiano era stata veramente una scossa di pila elettrica. Aveva dato alla società che fondava un intento assoluto di unità nazionale; programma che abbiamo visto inalberato anche trent'anni prima da pensatori e da uomini di Stato, ma a cui egli s'era buttato con maggiore speranza d'ogni altro e con quella efficacia di proselitismo che gli veniva dalla parola ardente, dall'aspetto simpatico, dall'onnipotente patrocinio femminile. Quei suoi primi pensieri, raccolti poi in tre volumi, sotto il titolo: Scritti letterarj d'un italiano vivente, avevano ottenuto un grande successo, specialmente fra i giovani, ai quali parevano aprire orizzonti nuovi e larghi, meravigliosamente dissimili dai metodi compassati di letteratura, di filosofia e di critica, a cui si tenevano fedeli i professori dei licei e delle università. Quei nostri giovanili intelletti trovavano a tante cognizioni vaghe, a studi pedanti, troppe volte contrastati dal bigliardo, uno scopo nuovo, imprevisto, tratteggiato con enfasi, – la patria. Non era più l'arte per l'arte. La patria era il faro a cui doveva giungere la navigazione affannosa: l'Italia una e libera, il nodo a cui si allacciavano con iscopi pratici gli studj morali, i progressi fisici, le indagini di storia e di geografia. Con questi ideali nell'animo si studiava di più, e lo studio allargava, colle simpatie pel Mazzini, l'aderenza a' suoi concetti politici, a' suoi organismi di setta.

Così cresceva l'influenza del grande agitatore genovese, che fu per alcuni anni lo spauracchio di tutte le polizie d'Europa. Uomo, che ha lasciato dietro a sè una fama assai contrastata, piuttosto, oseremmo dire, per colpa dell'ambiente che sua. Certo, la contraddizione umana non mancò in lui. Ebbe un indirizzo filosofico di alto spiritualismo, e lasciò troppe volte che dal suo labbro o dalla sua mano uscissero incoraggiamenti, diretti od indiretti, all'assassinio politico. S'era dichiarato pronto a sacrificare per l'unità della patria i suoi impulsi repubblicani, ed è morto nemico implacabile della monarchia che aveva fatto l'Italia. Passerà nella storia come un gran cospiratore che non aveva attitudini di governo, e crediamo che in questa, come in altre occasioni, la storia s'ingannerà. Il Mazzini aveva attitudini di governo; lo ha provato per pochi mesi, reggendo a Roma in situazione difficilissima, con sagacia e moderazione maggiori di quelle che gli si attribuivano. Forse anzi una esperienza più lunga di governo fu la sola cosa che gli sia mancata, per trarre interamente nell'orbita di una salutare efficacia le qualità politiche in lui sepolte sotto una mistica fraseologia. Come cospiratore, era improvvido ed impotente. Riceveva e dava confidenza, con una facilità di cui troppe volte abusarono le astute polizie. Non sapeva conservare il segreto. I suoi biglietti, i suoi indirizzi, le sue giaculatorie venivano sovente in possesso dei commissarj e dei gendarmi, prima che delle persone a cui erano dirette. Credeva ciecamente ad ogni informazione che gli dipingesse sollevamenti pronti, e se ne valeva per prepararne altrove, sulla base di queste ingannevoli cooperazioni.

È l'influenza personale di Mazzini che ha giovato alla patria; il suo ingegno pieno di slancio, il suo prestigio di esule; e soltanto una scuola fanaticamente innamorata d'ogni cosa sua ha potuto confonderne le egregie qualità del cuore e dell'animo con quegli sforzi inorganici, che erano invece il difetto o l'eccesso della sua inesperienza pratica.

A Giuseppe Mazzini l'Italia deve memoria grata e rispettosa per la vita austera, pel lungo esiglio, per l'instancabile apostolato dell'unità politica, per l'alto intento dato ai giovanili intelletti; non per le sue cospirazioni, che non sono riuscite mai, in nessuna parte d'Italia, dalla Calabria alla Valtellina; che dai moti savojardi del 1833 al 6 febbraio 1853 hanno dischiuso innanzi tempo il sepolcro a giovani ed illusi patrioti, gettando sempre piuttosto impacci che ajuti sul sentiero del risorgimento nazionale.

Tornando da questo illustre infelice ai più modesti casi del caffè della Cecchina, bisogna dire che in questo si raccoglieva un'altra schiera agitatrice, non meno generosa e non meno intelligente della prima, ma uscita da tutt'altro ambiente e inchinevole a soluzione diversa. Lì si adunavano specialmente i giovani delle famiglie ricche e patrizie, che sottraendosi alle influenze, generalmente retrive, dei vecchi genitori, guardavano al di là del Ticino cercandovi alleati contro la dominazione straniera. L'osservatore che fosse venuto in questi paraggi da quelli del Falcone, avrebbe facilmente riconosciuto fra gli avventori della Cecchina alcuni dei giovani più eleganti e nel tempo stesso più colti che brillassero nella società milanese: Carlo e Giovanni D'Adda, Giovanni Curioni, Carlo Taverna, i fratelli Guy, Alessandro Porro, i fratelli Prinetti, i fratelli Jacini, Rinaldo e Cesare Giulini della Porta. Questi giovani, per patriotismo e per tradizione politica, venivano in retta linea dalla generazione del 1821; avevano quasi tutti conosciuto e rispettato il Confalonieri, dalla cui vita e dalle cui sventure traevano un esempio alto e quasi un desiderio di patriottici sacrifici. Il loro programma era sopratutto l'indipendenza; ma, determinati a raggiungerla per ogni via, preferivano certamente quella che loro additavano i tentativi del 1821 e che da alcuni anni pareva schiudersi a maggiori probabilità per l'attitudine nuovamente assunta da quell'altro illustre infelice che fu Carlo Alberto, re di Sardegna.

Dopo le amnistie imperiali, erano ritornati in patria, oltre i prigionieri dello Spielberg, altri milanesi distinti che le persecuzioni di polizia avevano per alcuni anni costretto a vivere o a Parigi o a Londra o a Ginevra o a Bruxelles. I Battaglia, i Majnoni, i Rosales, Ignazio Prinetti, Francesco Arese, avendo vissuto lungamente nei centri maggiori della società politica europea, portavano a Milano le impressioni ultime e vere del loro esiglio; un desiderio cresciuto di far partecipare la loro patria ai vantaggi di quella vita larga e intellettuale a cui s'erano avvezzi; e insieme l'intonazione di una politica non meno rivoluzionaria ma più moderata, di quella politica che essi avevano veduto riuscire in Francia e nel Belgio a conciliare le guarentigie della monarchia con quelle della libertà.

Fra questi due gruppi principali d'azione, di cui l'uno penetrava colle sue influenze tutta la parte viva e popolare della città, l'altro avvinceva alla causa dell'indipendenza i potenti interessi e le vaste aderenze interne ed estere dell'aristocrazia lombarda, tenevano una situazione speciale due notevoli individualità, due uomini indipendenti allo stesso modo, ma per diversa ragione, da organismi compatti, – Carlo Cattaneo e Cesare Correnti.

Ingegno facile e largo, indole simpatica piena di scatti, di seduzioni, di entusiasmi e di mobilità, scrittore vibrato ed efficace di proclami, di opuscoli, di bollettini e di almanacchi, dai quali l'opportunità politica e il pensiero patriottico uscivano di mezzo a frasi nuove, a concisioni nervose, a mistiche oscurità e ad audaci eleganze, Cesare Correnti s'era buttato di buon'ora nel movimento e vi stava come uomo determinato a non uscirne senza vittoria. Amico a moltissimi, esercitava su tutti un ascendente che alcuni accettavano dall'ingegno, altri dalla vivace parola, altri da un'attività giunta allora al suo colmo. Che avesse un programma ben definito, nessuno lo saprebbe dire; forse l'ingegno coltissimo non lasciava nascoste a lui le difficoltà che ogni programma in quei giorni presentava e che altri non osava neanche studiare. Ad ogni modo, voleva fortemente l'indipendenza, la rivoluzione; e questo contribuì forse ad accrescere la sua influenza e la sua popolarità; perocchè la gran massa della popolazione, per una certa spensieratezza generosa che fu il carattere distintivo di tutta quell'epoca, costringeva volentieri ogni programma nella sola formola del mandar via gli Austriaci.

Questa conformità, non facile ad ottenersi, fra un uomo di pensiero e una folla di azione, fece del Correnti in quei giorni la personificazione più complessa del movimento. Se la rivoluzione del 48, contro la natura sua e la spontaneità de' suoi scoppj, avesse potuto darsi il lusso di un capo, forse sarebbe stato lui. Certo s'è ben lontani dal poter dire che abbia fatto ogni cosa, ma nessuna cosa importante s'è fatta senza di lui. I vecchi si fidavano del suo ardore, i giovani della sua dottrina. Quella stessa natura di letterato e d'artista, che lo rendeva schivo di politiche rigidità, lo metteva in grado di stare con molti e di agire su tutti con intento di accordo e di cooperazione. Fra il caffè della Peppina e quello della Cecchina era il vincolo naturale, la transizione più utile e più accettata. Coetaneo e condiscepolo degli uni, coi quali aveva divise, sui banchi universitarj, le aspirazioni della Giovane Italia, era accettissimo agli altri, per l'ingegno elegante e per le intime relazioni personali che aveva contratte coi Giulini, con Alessandro Porro, con Francesco Visconti-Venosta. E se agli uni portava l'assicurazione che il programma albertista non avrebbe impedito alla nobiltà milanese di spendere denari e sangue per la battaglia nazionale, garantiva altresì agli altri che nessun vincolo di setta avrebbe frastornate quelle combinazioni che portassero aiuto di armi fraterne e di monarchie militari a un popolo desideroso di combattere e incapace di eccessi. Negli ultimi tempi, questa azione sua, giovata man mano da altri elementi, da altre giovani e simpatiche individualità, da Enrico Besana, da Francesco Simonetta, da Manfredo Camperio, da Luciano Manara, era giunta a risultati completi; sicchè i due centri d'agitazione patriottica si erano, per così dire, fusi in uno solo; o, meglio, s'erano sminuzzati e moltiplicati in altrettanti sub-centri, che, pure annodandosi a quei due principali, assumevano ciascuno iniziative proprie e preparazioni speciali; certi tutti che qualunque impulso, qualunque energia, qualunque imprudenza, avrebbe trovato negli altri centri intera solidarietà, animi disposti ad affrontare responsabilità e pericoli, comunque creati.

Tutt'altra attitudine aveva assunto, e a tutt'altri impulsi intendeva l'animo, Carlo Cattaneo.

Era uomo di vasta cultura, di molta operosità intellettuale, di carattere integro ma diffidente. Come il Correnti, era estraneo a spiccati sodalizj politici; ma mentre il Correnti lo era perchè avrebbe bramato essere con tutti d'accordo, il Cattaneo ne rifuggiva perchè persuaso di avere con pochi solidarietà di opinione. Questi pochi si radunavano la sera da lui: discorrevano molto di scienza e meno di politica; erano gente di studio, piuttosto che di azione; antichi scolari di Gian Domenico Romagnosi, filosofi, economisti, giuristi, innamorati di cultura pubblica e di quesiti morali, ma che un certo orgoglio d'intelletto teneva in parte disgiunti dalle impressioni vivaci ed ingenue a cui la moltitudine si abbandonava con giovanile ebbrezza.

Politicamente, il Cattaneo era agli antipodi da Giuseppe Mazzini. Dove questi voleva unità d'Italia, congiure, impeti di popolo, idealità generose, ma sfumate, di educazione patriottica, quegli voleva ordinamenti di Stati piccoli, energie amministrative sostituite a slanci rivoluzionarj, svolgimento di questioni pratiche e di interessi positivi, di canali irrigatorj, di legislazione commerciale, di finanze precise.

Sulla questione di repubblica o di monarchia, il Cattaneo non aveva allora rigidezza di accentuazione. Vi fu un'epoca, dopo l'amnistia del 1838, in cui parve fortemente inchinevole ad accettare istituzioni autonome e liberali da un principe della dinastia d'Absburgo. E da alcuni articoli suoi sugli Annali Universali di Statistica e sul Politecnico questa disposizione si lasciava, tra il prudente viluppo delle frasi, chiaramente additare. In uno scritto, p. es. del marzo 1839, intorno alla piazza del Duomo, che cominciava a ventilarsi dopo l'incoronazione dell'imperatore Ferdinando, scriveva con uno spirito da cui ogni aspirazione repubblicana pareva esclusa: “Il nome di regno, sovrapposto alle ristrette signorie dei tempi andati, divenne una parola di riordinamento e di concordia; e la Corona Ferrea, non più controversa reliquia d'età remote, divenne già due volte, fra i penetrali del Duomo, segno vivo di forza e di unità.„ Non vi pare di udire un Crispi di quarantasei anni fa, esclamare colla stessa inspirazione di patriotismo: La monarchia ci unisce, la repubblica ci divide? Delle due volte in cui questa Corona Ferrea era stata, secondo il Cattaneo, segno vivo di forza e di unità, una volta s'era posata sopra un capo francese, l'imperatore Napoleone; ma l'altra non s'era posata che sopra un capo austriaco; o Giuseppe II, o Ferdinando I; due epoche diverse, ma una sola dinastia. Rincarava poi sulle stesse idee e sulle stesse disposizioni, soggiungendo: “Una piazza del Duomo, degna del tempio e della città, e del più bello ed ubertoso fra i regni d'Europa, è divenuta un desiderio universale. E la rappresentanza civica interpretò questo pubblico voto, deliberando appunto di aprire una piazza del Duomo e d'inaugurarla col nome del Principe regnante e a memoria del giorno solenne nel quale assunse la nostra nazionale Corona.„

Gli è che veramente, più della repubblica o della monarchia, l'idea politica fondamentale del Cattaneo era lo Stato piccolo, la federazione, l'autonomia. Spirito liberale per eccellenza, gli pareva di scorgere nelle grandi agglomerazioni politiche un pericolo per gli svolgimenti individuali, e, tenero di questi, contro quelle diventava feroce. Non si avvedeva che, restando largo nella questione scientifica, diventava angusto nella questione politica; poichè tutta l'Europa andava di corsa verso le grandi unità, e a non voler inaugurare programma di reazione contro l'indirizzo europeo, bisognava necessariamente, non opporsi ai grandi Stati, ma cercare i modi di far camminare i grandi Stati colle ragioni della libertà.

Si capisce come, dominato da questi concetti, il Cattaneo vivesse, nei mesi che precedettero le cinque giornate, sotto la tenda. Non aderiva alla parte democratica che voleva l'unità mazziniana; non accettava dalla parte aristocratica il progetto del regno dell'Alta Italia.

49.Signor Redattore,
  “Nel punto di lasciare la Francia, lessi sul vostro giornale del 28 di questo mese l'articolo che mi riguarda. Qualunque sia il desiderio ch'io provo di non intrattenere il pubblico delle mie sventure, e qualunque e' sia il bisogno che ho di vivere nell'oscurità, cionondimeno mi sento obbligato, per difendere il mio onore che voi attaccate, di escire dal silenzio che io mi era così strettamente proposto.„
  “Lasciando da parte le prime asserzioni del vostro articolo, io devo tuttavia affermarvi positivamente che ho finora vissuto nella più completa ignoranza di tutti i fatti che vi siete permesso di asserire; ma mi trovo più particolarmente obbligato a smentire l'asserzione per la quale voi dite che, venendo io in Europa, ho mancato alla parola che avevo data al governo austriaco, di non lasciare l'America.„
  “Io dunque dichiaro formalmente che non ho mai impegnato la mia parola in alcun modo e che nè io nè altri dei confinati, coi quali sono in perfetta parità di posizione, non abbiamo fatto altro che sottoscrivere una pura e semplice accettazione della deportazione con tutte le condizioni gravi che vi si trovano annesse; e fra queste condizioni trovasi che, tornando noi in Europa ed accadendo che fossimo ripresi dall'Austria, noi saremmo immediatamente ricondotti allo Spielberg.„
  “Conto abbastanza sulla vostra imparzialità, signor Redattore, per non dubitare punto che vorrete inserire questa mia dichiarazione nel vostro prossimo numero.„
  “Ho l'onore di essere, ecc. ecc.„
“Federico Confalonieri.„  Parigi, 29 settembre 1837.
50.Cantù, op. cit., p. 153.
51.Non vogliamo chiudere questa rubrica delle impressioni e dei giudizii altrui sul Confalonieri, senza aggiungervi il giudizio e l'impressione di altre due persone notevoli, non legate al celebre fuoruscito da nessuna comunanza di azione o solidarietà di sventura.
  Il conte Francesco Arese, che di uomini eminenti ne conobbe e ne praticò davvicino parecchi, trovandosi in America quando v'era il maggior numero dei rifugiati politici, così scrive da New-York, il 13 marzo 1837, all'amicissimo suo Pietro De-Luigi, pur esule per causa politica e rimasto a Londra: “… in totale, quello che per talento, cognizioni e viste, val meglio è Confalonieri che si può dire essere un uomo distinto„.
  E quella donna quasi perfetta che fu la marchesa Costanza Alfieri d'Azeglio così scrive al figlio Emanuele nel luglio 1843: “J'ai eu le plaisir de connaître Confalonieri, qui vient sonvent chez Maxime avec sa femme. C'est le point saillant de mon voyage. Je lui ai trouvé comme à Pellico cette douceur dans les manières si affectueuses qui est vraiment attachante. C'est un beau caractère. Soutenir avec fermeté un malheur si prolongé, sans apparence d'en sortir que par la mort; soutenir le malheur de leurs familles, sans se démentir jamais, quand, en capitulant avec leur conscience, ils pouvaient se racheter; on a beau dire, mais ce sont des hommes qui font honneur à notre époque, qu'ils l'aient comprise ou non; et je me sens en leur présence une vénération pour leur caractère et une satisfaction de les apprécier qui me dédommage de tant de choses qui choquent et blessent mes sentîments pour notre pays. C'est le contrepoids de tant de petitesses, bassesses et misères qui passent sous nos yeux…„
Возрастное ограничение:
12+
Дата выхода на Литрес:
05 июля 2017
Объем:
300 стр. 1 иллюстрация
Правообладатель:
Public Domain

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