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Читать книгу: «Mezzo secolo di patriotismo», страница 6

Bonfadini Romualdo
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CONFALONIERI
E I PROCESSI POLITICI

Si possono studiare in due modi, sotto due aspetti diversi, i rapporti fra un individuo ed una società.

La forma più generalmente studiata, quella che seduce per una maggiore precisione di cause ed uno svolgimento più evidente d'effetti, è l'influenza che un uomo esercita sull'ambiente in cui vive, sull'epoca da cui sorge. La forza dominante, in questi casi, appartiene all'individualismo sulla collettività. È il genio che si sprigiona dalle mistiche profondità dell'umanesimo, e combatte e vince fenomeni universali, trasformandoli intorno a sè, obbligandoli a percorrere traccie diverse, a subire leggi nuove, che talvolta si prolungano bene al di là del tempo e dell'ambiente.

Aristotele, Dante, Bacone da Verulamio creano e modificano ambienti sociali nella filosofia, nella letteratura, nella scienza; Giulio Cesare, Carlo Magno impongono al mondo organismi politici, la cui influenza durerà ben più lungamente che la vita degli individui creatori.

Si capisce che questi fatti colpiscano fortemente l'immaginazione degli scrittori; e che una folla di osservatori si stringa intorno a queste esistenze privilegiate, che appunto per la loro scarsità e pei forti contorni della loro fisonomia sono facili ad esaminare e a descrivere, se non facili ad imitare.

Ma ben diverse e più complesse sono le questioni e gli studi, allorchè si passa all'influenza che la collettività esercita sull'individualismo; allorchè si esamina in qual modo agisca un'epoca, con quale forza prema un ambiente sull'educazione, sulle attitudini, sugli istinti, sul pensiero dell'uomo che vi nasce e vi cresce.

Quanti uomini di genio sono soffocati da un'epoca di compressione? quante intelligenze lucide sono sviate o rese incerte da un'epoca di transizione? quanti caratteri robusti ed interi diventano tiranni od ipocriti, sotto la piegatura lenta e costante d'una società frolla, o bacchettona, o crudele? Terribili quesiti, che devono renderci bene indulgenti nel giudicare gli uomini, ben cauti nell'attribuire esclusivamente all'indole loro, deficienze o contraddizioni od eccessi, che talvolta a questa indole furono inoculati da forze estranee, da impulsi irresistibili di responsabilità collettive.

Un uomo può nascere con attitudini spiccate alla scienza od alla letteratura; gli basterebbe un incoraggiamento, un alito di libertà per segnare forse una traccia durevole nei campi dell'intelletto. Invece, si trova in mezzo ad un ambiente di compressione o di scetticismo; un censore ignorante gli mutilerà il suo primo libro; un'accademia formalista gli screditerà il suo trovato; avrà una fiera lotta da sostenere contro un editore avido od un pubblico arido; il genio in formazione si sentirà sfiduciato, schiacciato; l'homunculus si rimpiatterà nel suo germe; Tommaso Grossi farà rogiti di protesto cambiario; Piatti morirà povero e senza fama.

In ogni forma di attività questo fenomeno può manifestarsi; ogni carriera, ogni genio può essere alle prese colle rigide tenacità di un ambiente, può soccombere sotto la mole di un'epoca o di una società. Bonaparte, luogotenente d'artiglieria, trova innanzi a sè il mondo ridotto a frantumi, e diventa il genio della guerra per ricostruirlo a vantaggio suo; Cavour, scrittore di riviste, vede questo mondo bramoso di uscire dai ceppi antichi, e diventa il genio della politica per ricostruire la sua patria a vantaggio della libertà. Supponiamo che quelle due forze, quei due intelletti bisognosi d'azione avessero dovuto svolgersi nell'ambiente chiuso e tirannico in cui s'è trovata l'Europa dal 1815 al 1830; forse Bonaparte sarebbe divenuto colonnello nell'esercito del re di Francia; e il conte di Cavour avrebbe potuto aspirare al posto di direttore generale delle gabelle.

Se applichiamo criteri indagatori consimili alla storia milanese che va dall'eccidio del Prina agli albori del 1848, ci sarà forse più facile trovare la ragione dell'esaurimento politico in cui era caduta questa città, dove il periodo teresiano aveva prodotto gli eminenti economisti e giuristi del secolo scorso, e dove il periodo napoleonico s'era illustrato di Francesco Melzi, degli amministratori e dei generali, sorti con lui.

Quella fu un'epoca insieme di repressione e di transizione; di repressione in politica, di transizione nei costumi e nelle idee. Fu allora che cominciarono a sostituirsi abitudini di fusione sociale alle rigide distinzioni di classe dei tempi scorsi. Disparvero allora gli ultimi codini, le ultime parrucche, le ultime calze di seta bianca, gli ultimi spadini, le ultime giubbe ricamate e arabescate; l'abito rappresentò coll'esterna uniformità quella comunanza di pensieri e d'interessi che nobili e borghesi traevano dalla eguale umiliazione politica; nelle case, ai ritrovi pomposi, ai balli cadenzati, ai mobili pieni d'oro e di angoli, succedettero forme più famigliari, preferenze sempre maggiori per le comodità e le vivacità della vita.

Gli ultimi Arcadi morivano, uccisi dal ridicolo, sotto i colpi di quell'audace scuola boreal che tutto l'ingegno di Vincenzo Monti non era bastato a respingere ed a sfatare. Si sentiva tutto all'intorno un mondo che si sfasciava; e tra i ruderi del vecchio e l'ossatura del nuovo, gli spiriti erravano dubitosi, si slanciavano, retrocedevano, ripiegavano; la società lottava contro sè stessa per uscire dal passato, e si spaventava qualche volta d'avere già fatto troppo larghi passi verso il futuro.

Politicamente poi, il timore e il silenzio erano divenuti i capo-saldi della vita cittadina, della prudenza borghese. Dopo quelle sterminate catastrofi che avevano segnalato gli ultimi anni del regime napoleonico, dopo le coscrizioni doppie o anticipate che avevano spopolate e addolorate le pareti domestiche, dopo l'impressione di terrore che aveva lasciato negli spiriti l'ultima giornata del Regno Italico, s'era prodotta in paese una sete di tranquillità e di pace che nulla valeva a saziare.

Volevano corsi e carrozze e teatri e giornali di mode e sonni tranquilli e gendarmi per le contrade. L'Austria soddisfaceva ed ajutava questo indirizzo dello spirito pubblico. Venuta qui con larghe promesse d'indipendenza e di libertà, si accorse presto che poteva smentirle impunemente, e lo fece. In Europa le lasciavano ogni arbitrio, nel paese non trovava sufficiente scatto di opposizione. Ci diede il Codice civile e la Cassa di Risparmio, un Vicerè e una Vice-regina che facevano ballare e trottavano sul corso in tiro a sei, cantanti e ballerine di cartello, giornalisti che si accapigliavano per la Taglioni o per la Cerrito, gendarmi e poliziotti in abbondanza, sulle strade maestre, agli angoli delle vie, sotto i fumosi lampioni ad olio di noce, sugli impalcati delle vetture postali.

Sotto questo regime gli uomini che avevano avuto l'abitudine dei discorsi politici si racchiudevano nel silenzio; i giovani ne sentivano difficilmente il bisogno; la polizia era divenuta la maggiore istituzione europea, e il principe di Metternich voleva sapere da Vienna di che cosa si discorresse sotto i platani del bastione o nei palchi del teatro alla Scala. A poco a poco, il regime europeo ci soverchiò e s'impose. L'Austria, che aveva vinto Napoleone, parve divenuta la potenza invincibile, eterna, a cui l'Italia non sarebbe sfuggita più.

Si accettò la vita com'era. Si andò ai balli del Governatore, del Vicerè. Gli ufficiali austriaci, che ci avevano liberati dalla canaglia del 20 aprile, avevano forme cortesi, si accettarono cortesemente. Si leggevano i giornali ufficiali, la Gazzetta di Milano, la Biblioteca Italiana; più sovente i giornali musicali e teatrali, il Figaro, il Pirata; più tardi l'Indicatore e l'Eco della Borsa; i più rivoluzionari, leggevano il Journal des Débats. Ai giovani che crescevano, i padri, sfiduciati di cose vecchie e paurosi di cose nuove, raccomandavano prudenza, circospezione, rispetto ai superiori; il discorso di politica non si affrontava che sotto voce, fra gl'intimissimi, con mille reticenze di fatti e di nomi; si troncava presto, come di argomento che implicasse disgusto o pericolo; si parlava della Spagna o dell'Algeria, non dell'Italia. Le generazioni crescevano in quest'afa, sotto questa pressione, e perdevano a poco a poco ogni memoria, ogni coscienza di sè.

Com'era possibile uscire da queste molteplici difficoltà, vincere la compressione, sovrapporsi alla transizione, e riprendere in Lombardia la tradizione dei grandi caratteri e dei grandi intelletti?

Lo tentò e vi riuscì, con intero successo, un uomo solo, Alessandro Manzoni. Ma vi riuscì, allontanandosi da ogni complicità, da ogni attinenza colla politica contemporanea; vi riuscì, creando una letteratura nuova e potente, sotto cui i dominatori non avevano potuto indovinare nè punire l'alto sentimento di patria; vi riuscì, rigettando il suo genio fra le tenebre dei secoli precedenti, per trovarvi corruttele e discordie da flagellare, virtù ed audacie da segnalare, ad esempio dei tempi suoi.

Però intorno e al di sotto di lui, il pensiero politico, la vita pubblica trovavano pastoje difficili a superare, vincoli impossibili a rompere. Quei pochi, fra cui si conservava il fuoco sacro, o avanzi gloriosi del periodo militare napoleonico, o giovani sdegnosi di curvare la loro vita all'ossequio ignominioso dell'epoca, si riunivano, discutevano, deploravano, cercavano di sperare. Impotenti all'azione, si buttarono alla cospirazione; necessità dolorosa nei governi di servitù, deplorabile piaga nei liberi.

Quelle forme, quei segreti, quelle iniziazioni mistiche o paurose, ch'erano state fino allora espedienti per dare importanza ai mediocri od ai pessimi, cominciarono ad essere la seduzione dei cittadini migliori. Le società segrete pullularono, si moltiplicarono, si frazionarono secondo gli scopi, secondo le difficoltà materiali o morali d'ogni singolo centro. L'Italia fu piena di loggie, di vendite, di giuramenti, di motti, di segni di croce, di emblemi, di spade incrociate, di parole incomprensibili scritte col sangue o colla chimica. Tutti gli elementi di qualche valore intellettuale o di qualche vigore patriottico si ascrissero, per illusione di libere solidanze, ai frammassoni, ai carbonari, agli adelfi, ai federati, più tardi alla Giovane Italia. Le polizie non tardarono a fiutare i pericoli, a scoprire i misteri, e in ognuna di quelle illuse consorterie penetrarono elementi infidi, agenti diretti; che si acquistavano naturalmente fiducia, per essere sempre i più pronti e i più arditi nel manifestarsi.

Così l'organismo sotterraneo italiano cessava d'essere pericoloso pei governi e diventava invece un pericolo continuo pei patrioti. Il loro elenco, il loro censimento ufficiale stavano sul tavolino di tutti i direttori di polizia; i quali, ad ogni stormir di fronda, lanciavano i loro agenti a impadronirsi delle fila di congiure appena abbozzate, talvolta neanche pensate. E così passavano per le carceri, per le torture, per le forche uomini egregi, responsabili d'un biglietto ricevuto o d'un nome dato, ma che suscitavano colla loro riputazione o colla loro virtù i timori di un dispotismo, oscillante sulla stessa base della sua onnipotenza.

La storia d'Italia diventava null'altro che un protocollo di processi politici; la città del Parini e del Manzoni diventava l'ignobile anticamera d'una schiera di sbirri e di inquisitori, fra i quali erano destinati a trista celebrità un Trevisani, un Torresani, un Bolza, un Pachta, uno Zajotti, un Salvotti.

Il falso visconte di Saint-Aignan provocava e poi denunciava la cospirazione militare milanese del 1815; un Torelli complottava nel 1831 e poi svelava i complotti; il Boccheciampe tradiva, dopo averla incoraggiata, l'audace spedizione dei fratelli Bandiera; Attilio Partesotti s'insinuava nelle grazie di Giuseppe Mazzini e svelava all'Austria i nomi e i progetti dei mazziniani.

Infinita fu la schiera dei giovani deboli e degli uomini forti che da queste insidie e da questi terrori furono tratti a rompere la vita e l'ingegno contro le sbarre di una fiera prigione. Per non parlare che dell'alta Italia, il processo del 1815 avvolse Teodoro Lechi, Giovanni Rasori, Filippo Demester, Pietro Varese e una dozzina dei loro compagni; il processo del 1818 condusse a duro carcere, fra molti altri, Antonio Villa, Antonio Solera, Fortunato Oroboni, e quei due maschi caratteri di Felice Foresti e di Giovanni Bachiega. Poi venne il processo del 1820 contro Melchiorre Gioja, Domenico Romagnosi, Silvio Pellico, Piero Maroncelli, il conte Giovanni Arrivabene ed altri. Poi si arresta, come emissario d'una setta straniera, Alessandro Andryane; poi nel 1821 il Confalonieri, il Pallavicino, il Castillia, Pietro Borsieri, Andrea Tonelli. Poi, altri processi nel 31, nel 33, nel 35, e sfuggono all'arresto Pietro de Luigi, Francesco Arese, e sono presi con altri, Luigi Tinelli, uno Zambelli, Gabriele Rosa e Cesare Cantù.

La resistenza era tutta concentrata nelle classi superiori, fra i nobili soprattutto e fra i letterati. Le masse popolari non avevano ancora, come più tardi, aperte le loro fibre al fremito dell'indipendenza. Si commovevano alle sofferenze dei patrioti; ma non erano indifferenti alle feste dei persecutori. Subivano gli effetti dell'epoca di transizione. E l'imperatore Francesco e il principe di Metternich potevano, malgrado i processi iniqui e le più inique condanne, venire due o tre volte a Milano, senza che la moltitudine osasse turbare con atti di disapprovazione gli spettacoli e le luminarie. Soltanto uno studente dell'Università di Pavia, Tommaso Grossi, rispose nel 1819 alla sfida del viaggio imperiale, con una vigorosa e felicissima satira in dialetto popolano, la Prineide, che girò manoscritta e fu subito su tutte le bocche.

Fra questi tentativi politici, il più grave per la larghezza del disegno, per la qualità dei cospiratori, per le conseguenze che ne rimasero, fu certamente quello del 1821. E fra le vittime del tentativo, la figura più altera, la personalità più drammatica, il nome rimasto nella tradizione popolare e nel quesito istorico come il vero protagonista di quel dramma affannoso fu un patrizio milanese, il conte Federico Confalonieri.

Pochi uomini al tempo nostro sono stati più discussi di lui; pochi hanno avuto più devota schiera d'amici, più larga corrente di antipatie. Era nato al dolore e alla tragedia, come altri nascono all'idillio o all'amore. In tutte le fasi della sua vita, ha una pagina strana, che non lo porta mai al trionfo, ma che lo leva dal comune degli uomini. Giovane, è involto nei cupi andamenti di una rivoluzione che mette capo al delitto; sette anni dopo, gli si addossa la responsabilità di un altro movimento che mette capo a sconfitte e a supplizj; passa i quindici anni della sua virilità fra le nude pareti di un tetro carcere, amareggiato da ogni specie di sofferenze fisiche e di torture morali; muore, come pochi muojono, durante un viaggio, di pieno inverno, senza conforto di parenti o d'amici, in un albergo di villaggio, sulla cima del S. Gottardo. Il mistero s'è assiso, come dicono i poeti, al suo capezzale; lo offende nel 1814, lo perseguita nel 1821, esce con lui dallo Spielberg nel 1836, non lo risparmia nemmeno fra le pareti domestiche, in mezzo all'atmosfera di eleganza e di affetto che per pochi anni Teresa Casati ha potuto creargli intorno. È suo destino che lo si possa credere atto a cose grandi, capace di cose odiose. Nel complesso è una sfinge, contro cui non hanno cessato mai di scrosciare i venti e le tempeste, ma che resiste immota alle offese e che forza i viaggiatori del deserto a volgersi per guardarla e per occuparsi di lei.

Ora può dirsi giunto il tempo d'interpretare l'enigma di questa sfinge? possono dirsi vicini i posteri ad afferrare i confini di questa personalità, a strappare dalle pieghe dell'anima sua qualcuno fra i segreti, onde si compone e continuerà a comporsi la storia psicologica dell'ente umano?

Forse certi fenomeni dell'atavismo potrebbero essere utilmente invocati ad esplicare alcuni lati dell'indole di Federico Confalonieri.

Apparteneva al più antico patriziato milanese, senz'altro forse alla famiglia più antica; poichè, senza voler rimontare alla tradizione di S. Eustorgio, vi sono documenti del secolo ottavo, da cui appare già il privilegio dei Confalonieri di accompagnare nel loro ingresso gli arcivescovi di Milano. Fra i membri di quella prosapia parecchi avevano avuto vicende strane. Un Corrado, dopo avere appiccato incendj, s'era pentito, vedendo condannarsi alla morte un povero contadino pel delitto suo, ed era corso a chiudersi in un eremo, presso Noto, dove stette 36 anni e d'onde uscì beato, poi santo. I Confalonieri furono alleati di Carlo Magno e di Federico Barbarossa. Nel secolo XIII Stefano Confalonieri va ad appostarsi sulla strada di Barlassina ed uccide di sua mano, per fanatismo d'eretici, quel Pietro inquisitore che la Chiesa ha poi canonizzato col nome di S. Pietro Martire. Non vi sarebbe dunque a meravigliare se dall'insieme di queste tradizioni gentilizie uscisse nel conte Federico un tipo rigidamente aristocratico, duramente accentuato, e in lotta continua fra istinti vigorosi di ribellione e vaghe aspirazioni a misticismo religioso.

Durante il Regno Italico, Federico Confalonieri non ci appare che sotto le sembianze eleganti d'un giovane della buona società. È il migliore cavallerizzo, il re delle danze, l'oracolo nelle questioni di buon gusto, di spirito, di duelli. Il Cantù ha pubblicato in un suo libro pieno di sbalzi: il Conciliatore e i Carbonari, alcuni versi di Giovita Scalvini, da cui appare la grande seduzione che esercitava il giovane Confalonieri sugli uomini… e sulle donne. Teresa Casati, bellissima e dolcissima fanciulla, gli rompe coll'amor suo la vita da scapolo. Ed egli è felicissimo di quell'amore; la giovane coppia conserva il primato delle simpatie cittadine; la Vice-regina vuole la sposa Confalonieri a sua dama di corte, e lo sposo vi acconsente senza entusiasmo.

Verso gli ultimi mesi del Regno, Federico Confalonieri comincia ad assumere atteggiamento politico. Non accetta un ufficio di Corte che Napoleone gli destina29; si astiene dallo intervenire ai ricevimenti del Vice-re; parla alto e forte contro le follíe dell'Impero e le sue guerre sterminatrici. Al 20 aprile, ha già fisi sopra di lui gli sguardi del pubblico, ed ogni suo passo è spiato, ogni mossa giudicata, piuttosto con diffidenza che con simpatia. È considerato già come il capo del partito italico; e si separano tanto da lui i capi della soluzione austriaca, il Verri, il Guicciardi, l'Armaroli, quanto egli cerca separarsi dal Melzi, dal Prina, dai capi della soluzione eugeniana. Come accade in tutte le giornate di tragiche commozioni, le accuse e le difese s'incrociano e non riescono a illuminare la scena. Il Verri asserisce di averlo visto nel cortile del Senato dare il segnale di applausi, ed egli afferma in un opuscolo30 “nessuno potrà asserire d'avermi visto prender parte a que' clamori, sia di plauso, sia d'improbazione.„ L'Armaroli attribuisce a lui personalmente l'atto brutale di avere traforato coll'ombrello il ritratto dell'Imperatore dipinto dall'Appiani e di averlo buttato dalla finestra; e il Confalonieri risponde31, denunciando al pubblico lo scrittore come “un vile calunniatore„ e protestando di “non avere mai posto, nell'aula del Senato, in quella giornata, il piede.„ Abbiamo visto come il duca di Lodi, uscendo dal suo cauto e silenzioso riserbo, rispondesse ad una lettera del Confalonieri, chiamando “uomini più che imprudenti„ i pubblicatori di quelle accuse contro di lui.

Certo, il Confalonieri agì in tutta quella giornata con impeti giovanili, dei quali pareva che il rancore, un rancore fiero e personale contro il principe Eugenio, fosse l'inspiratore. E s'è molto almanaccato, allora e poi, intorno a questo rancore. Gli si cercarono ragioni speciali, molto intime, punto politiche. Si sono immaginate imprudenze, passioni, vendette, di carattere medioevale.

Il nome, la gentilezza, la riputazione morale di Teresa Confalonieri ci pare che bastino a collocare simili supposizioni fra quelle troppo abusate a spiegare i fatti politici coll'elemento fantastico.

Può darsi che Federico Confalonieri fosse geloso. Lo si è quando si ama e quando non si ama. In tal caso, Dio gli ha riserbata una punizione ben grave. Ma dall'essere geloso ai cupi drammi che la tradizione popolare ha raccolto intorno a quell'altera figura, ci corre assai. Il principe Eugenio Beauharnais era un vagheggino; Teresa Confalonieri era bellissima; Federico era marito ed era orgoglioso; il dramma umano è lì, ma tutto induce a credere che sia stato unicamente lì. Ora, non basta una semplice galanteria di modi o di linguaggio a spiegare il contegno del Confalonieri verso il Vicerè. Un uomo dell'educazione e delle abitudini del conte non poteva spingere all'odio qualche momentanea irritazione per preferenze usate da un principe ad una bella signora, in un'epoca in cui le relazioni sociali non s'inspiravano a claustrali rigidità. D'altronde vi sono lettere del Confalonieri a sua moglie, da Parigi, nel maggio 1814, in cui si esprime intorno ad Eugenio nei termini della maggiore franchezza e intimità; con quell'accento verace di comunanza negli affetti e nei giudizj, che certo non avrebbe potuto usare, se il principe ormai spodestato fosse stato, in qualunque tempo, fra lui e sua moglie una causa di dolorosi rapporti. Si compiace con essa, p. es. perchè alla famiglia Beauharnais non sia stata riserbata, nelle trattative diplomatiche, nessuna principauté. Le dà ragguaglio d'un incontro fortuito avuto con lui nell'anticamera di lord Castelreagh; e le aggiunge scherzosamente: “Sostenni però la dignità della mia rappresentanza, ed egli certo trovavasi più di me imbarazzato.„ Un'altra volta, invitato a pranzo dal maresciallo Berthier, vi trova il conte Méjean, segretario di Eugenio, che gli dice essere stato il principe assai spiacente di non aver veduto da lui nessuno della Deputazione Italiana. E il Confalonieri risponde calmo “che una Deputazione politica non poteva agire individualmente e che anche la semplice urbanità doveva cedere alla posizione gelosa in cui si trovava, dovendo rispondere di sè alla nazione.„

Tutta questa corrispondenza insomma, dettagliata, intima, affettuosa, dimostra che nessuna nube gettava tra Federico e Teresa il nome del principe Eugenio. Sicchè è forza cercare una ragione veramente politica alla condotta sdegnosa ed ostile del Confalonieri verso il più alto rappresentante del regime napoleonico in Italia. A questo regime egli era e s'era manifestato profondamente avverso. Come tutta la gioventù non militare del tempo suo, disperava di un'ambizione che nessuna strage poteva disarmare. Quella nuova Iliade aveva stancato; il nome di Napoleone, ancora pieno di prestigio sugli uomini di guerra, aveva cessato di rappresentare, innanzi agli uomini di pace e di governo, nessuna speranza di benessere o di stabilità. Dopo la campagna di Russia, un lutto profondo aveva regnato nelle famiglie lombarde; di ventisette mila Italiani ascritti al grande esercito, soltanto mille rivedevano, col generale Pino, la patria; altri ventidue mila erano rimasti fra le zolle insanguinate di Spagna. Le guardie d'onore, meno cinque, erano tutte perite32. Non bastava la gloria a consolare tante madri. Onde la coscienza pubblica, attonita a questo duello fra un uomo e l'Europa, non osava più ricordarsi dell'idolo antico, a cui l'adorazione aveva pur troppo insegnata la via del male; e si allontanava da quel gigante, sotto i cui passi, come sotto quelli del dio d'Omero, tremava la terra.

V'è una lettera di Confalonieri a sua moglie, da Parigi, pochi giorni dopo l'atto di abdicazione, in cui parla quasi con ira dell'uomo “che ha fatto scannare centomila vittime in sostegno di tutt'altra causa che la loro propria.„ Era veramente la nota dominante, il grido di dolore dell'epoca.

E se a questa ragione di alta politica, un'altra dovesse unirsene d'indole personale, a giustificare l'antipatia che il Confalonieri nutriva pel Vicerè, non la cercheremmo in un amore ferito, ma in un'ambizione offesa. Il principe Eugenio aveva offerto al conte Federico di essere suo grande scudiere; e l'offerta dovette singolarmente umiliarlo. Al giovane altiero, che si sentiva un valore politico ed era forse troppo impaziente di politiche attività, quel posto di Corte, che gli dava il diritto o l'obbligo di cavalcare sul corso alla portiera del Vicerè, parve piuttosto un insulto che un segno di favore. Rifiutò sdegnosamente, e forse di lì muovono i primi impulsi alla sua tenace ostilità. Da una lettera sua alla moglie e da un'altra a lui scritta da Lodovico De Breme traspare quanto orgoglio venisse offeso da quell'incauta proposta vicereale.

Ad ogni modo, dopo la fatale giornata del 20 aprile, e malgrado l'incerta fama che ne rimane su lui, l'influenza politica del Confalonieri diventa subito grande.

La Reggenza Provvisoria di governo, tratta dal solo partito austriaco, lo sceglie fra i deputati inviati a patrocinare presso le potenze alleate le sorti del Regno. Ed egli, più giovane di tutti, è il capo morale della Deputazione, l'oratore incaricato di affrontare le questioni più delicate, i colloqui più decisivi.

Questa prima missione politica è piena di onore pel conte Federico. Il brillante ordinatore dei minuetti milanesi si muove come un diplomatico esperto frammezzo a quella plejade di imperatori e di marescialli. Non è imbarazzato, non è timido, non è provocante. Vede giusto fino dal primo giorno e non s'illude, nè illude. Il suo colloquio con lord Castelreagh, in cui quel plenipotenziario inglese gli annuncia chiaro e tondo che la Lombardia è data senza condizioni all'Austria, è stato già pubblicato33; ma non sono pubblicate ancora le molte lettere sue da Parigi alla moglie, in cui la informa della situazione di Parigi e de' suoi colloqui coi sovrani di Russia e d'Austria.

È appena giunto, e scrive il 4 maggio: “Milano è nell'inganno. Egli è ben doloroso il doverne sortire, quando l'inganno è dolce… Un mese prima eravamo ancora in tempo per far qualche passo alla nostra politica esistenza; or non ci resta che ad implorarla. Ci verrà essa accordata? l'Austria è l'arbitra, la padrona assoluta dei nostri destini. Non trattasi più di domandare alle Alte Potenze costituzione liberale, indipendenza, Regno, ecc. Trattasi d'implorare ciò che un padrone ci vorrà accordare.„

Assiste all'ingresso in Parigi di Luigi XVIII, e, meravigliato degli entusiasmi che l'accompagnano, scrive con vibrate parole: “Stordita nazione, ha bisogno d'esser condotta colla catena e col flagello! 24 anni di disastri non l'hanno ancor resa alla ragione. Ma l'orgoglio, ma la vanità francese è bassa… si ubbidisce tremando a chi parla una lingua straniera…„

I suoi abboccamenti coll'imperatore Alessandro e coll'imperatore Francesco sono di notevole interesse storico. Alessandro riceve gl'inviati milanesi come illustri italiani, non come Deputazione. È garbato, ma breve e laconico, quasi per impedir loro affatto d'entrare in materia. Invano il Confalonieri e Alberto Litta prendono due volte la parola; egli la tronca con altiera urbanità sul labbro degli oratori, dice loro delle cose graziose e li congeda coi complimenti d'uso. Forse il contegno dell'imperatore Alessandro sarebbe stato diverso, se la Deputazione milanese avesse avuto il mandato di sollecitare una soluzione favorevole al principato indipendente di Eugenio Beauharnais. Questa soluzione avrebbe avuto tutto il favore dello Czar, che all'imperatrice Giuseppina lo aveva caldamente promesso. E forse in quel punto Federico Confalonieri avrà dovuto pensare come l'essere giovani e audaci non basti sempre a risolvere bene i gravi argomenti, e come il vecchio Melzi avesse avuto, nel suo tentativo politico di un mese prima, intuito più giusto e avvedimenti più sagaci de' suoi.

Quanto all'imperatore Francesco, le sue accoglienze sono egualmente cortesi, ma la sua volontà è inflessibile. “Voi mi appartenete per diritto di cessione e per diritto di conquista, vi amo come miei buoni sudditi, e come tali niente mi starà più a cuore del vostro bene;„ ecco le prime parole con cui l'Imperatore accoglie la Deputazione lombarda. E il Confalonieri scrive alla moglie: “nulla vi ha di lusingante e di paterno che non ci abbia detto in più di mezz'ora di amichevole conferenza, ma egli parlava da padrone, nè vi era luogo a patti.„ Richiesto se almeno acconsentiva che la Corona di Ferro brillasse sul suo capo, unitamente alle altre, ma dalle altre staccata, rispose: “Io non ho progetti ambiziosi, mi occuperò di questa idea, desidero assai farvi contenti; Regno Italico no, perchè io non ispingo le mani a quello che può essere d'altri.„ E cercava in quei giorni di spodestare la dinastia di Savoja!

Alle richieste di Confalonieri per un esercito indigeno, per lo sviluppo degli stabilimenti sorti durante il periodo italiano, per la restituzione dei capi d'arte involati sotto il periodo francese, rispondeva evasivamente: “Lo veggo, avete bisogno di una Corte; vi manderò un Arciduca; sarà ammogliato.„ Quanta meschinità di criterj in così grande sommovimento di cose!

L'Imperatore desiderava però compromettere più a fondo i delegati milanesi; diceva loro che desiderava vederli altre volte per valersi dei loro lumi. Al che rispondeva con prudente fermezza il Confalonieri che “la Deputazione non poteva allontanarsi dallo scopo per cui era stata mandata, senza avere nuove istruzioni.„

È rimasta nelle tradizioni storiche di quei giorni una grande oscurità intorno alla vera soluzione che il partito italico avrebbe voluto dare alle cose del Regno. Si conosce il programma dei Mellerio e dei Ghislieri, l'Austria assoluta; si conosce quello dei Verri, dei Guicciardi, della Reggenza, l'Austria con guarentigie amministrative; si conosce quello dei Melzi, dei Paradisi, dei generali italiani, il Regno autonomo colla dinastia di Beauharnais. Ma qual era il programma di Confalonieri, che a nessuno di questi aderiva e che di tutti s'era guadagnata l'ostilità?

29.Confalonieri, Lettera ad un amico.
30.La succitata Lettera ad un amico del 15 marzo 1815.
31.Idem. ibid.
32.Ventinovesimo bollettino, Cusani, VII, 9.
33.Ugo Foscolo, Prose politiche. Appendice.
Возрастное ограничение:
12+
Дата выхода на Литрес:
05 июля 2017
Объем:
300 стр. 1 иллюстрация
Правообладатель:
Public Domain

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