Читать книгу: «Castel Gavone: Storia del secolo XV», страница 6

Шрифт:

E con voce alta e sicura, in mezzo ad un silenzio solenne, il marchese Galeotto dettò la sua risposta allo scriba; rimessa in principio e tranquilla, come portava il costume, indi man mano, per lo infiammarsi a grado a grado del personaggio, più concitata ed altiera.

«Al magnifico signore Giano Fregoso, doge di Genova, salute.

«Tutto quanto mi significate nella vostra lettera, magnifico messere, io ho chiaramente inteso. Mi dolse della opinione dei Genovesi, aver io fatta poca stima della loro amicizia, che io sempre n'ho avuto grandissima, nè mai ho trascurato veruna di quelle cose per le quali ho udito e letto potersi conservare i vincoli della benevolenza tra gli Stati; nè penso essere alcuno dei vostri vicini che siasi più attentamente studiato di piacere a cotesta repubblica, perchè durasse tra noi la consuetudine dell'antica amicizia. E ciò talvolta con mio nocumento non lieve; laonde io debbo stupirmi di questa ira, che voi mi dite, dei cittadini di Genova. Vi ringrazio tuttavia che abbiate cercato di contenere e dissipare gli sdegni popolari, per istornarli dalla guerra, provvedendo in tal guisa non meno alla quiete dei Genovesi, che alla salute mia.

«Per rispondere alla lettera vostra, dirò che avrei amato meglio mi significasse pace perpetua, anzi che guerra. Si affà la pace alle mie consuetudini; alieno son io dalle guerre. Ma se infine è così statuito nei consigli degli invidiosi e nemici miei, accetto la sfida, e di grand'animo, confidando nel senno e nella potestà di quel giudice e padrone, che è splendore e difesa dei giusti e terror dei malvagi, a cui niente è nascosto. Egli invero conosce l'animo mio e gl'intendimenti vostri, e sa quanto io con virtù, quanto voi con odio vi facciate a contendere. Imperocchè io non sono, messer lo Doge, così fuori di senno, da non sapere come da lunga pezza, e innanzi voi perveniste a tal dignità, fosse stabilito d'intimar questa guerra. Conosco l'animo vostro e di tutti i vostri contro me e contro tutti i miei; ricordo con quanta moderazione e temperanza mi diportassi coi Genovesi, pur di vivere in pace continua con esso loro, e so come tutte queste cose, a mala pena entraste voi in Genova, niente abbiano giovato a mutare i vostri propositi. Che se vi pensavate esser io obbligato di alcun patto a cotesta illustra repubblica, il quale io oggi negassi di mantenere, mancavano ancora le cagioni di guerra; imperocchè io mi contentai, come mi contenterei anche oggi, che, o l'imperator de' Romani, od altro principe, o comune, o studio di giureconsulti, giudicasse della nostra querela. E nol voleste allora, e nemmeno ora il vorrete, poichè siete infiammati, inaspriti, bramosi di guerra; laonde, resta che con mani e piedi, con tutte le forze mie, di congiunti, di amici e di quanti avrò meco, difenda questa terra e il mio dritto. Facciano adunque i Genovesi come vogliono; resisterò come potrò.

«Voi frattanto, Doge Giano Fregoso, io debbo pregiare assai più che non facessi da prima, se avete pensato di me che io fossi uomo da serbar la mia fede, e m'avete indicato il giorno in cui dovessi aspettarmi la guerra; così facendo cosa dicevole ad ogni principe, e in particolar modo a voi stesso. Spero di uscirne vincitore e di potervi rimeritare, in ogni occasione, della vostra lealtà, se mai avrete mestieri dell'opera mia.

«Data dal Finaro, addì 27 di novembre, 1447.

«GALEOTTO DEL CARRETTO.»

La lettera del marchese Galeotto era nobilissima, come ognun vede, sebbene per avventura in alcuni passi ricisa ed aspra più del bisogno, e condita nel fondo di sottile ironia. Ma queste cose erano da condonarsi ad un principe, che metteva in quel punto a grave cimento la quiete sua e la sicurezza de' suoi dominii. Del resto, e il pepe e il sale di quella risposta piacquero in uguale misura a tutti i gentiluomini della sua corte, e un bisbiglio d'approvazione e certi sorrisi mal rattenuti commentarono prontamente le lodi alla lealtà di Giano, che tutti ricordavano in qual modo fosse tornato a Genova e salito ai sommi onori della repubblica.

Galeotto, così per debito dell'alto suo grado, come per atto di cortesia verso l'inviato di Genova, era rimasto in contegno. Più saldo e più chiuso di lui Messer Pietro, a cui l'uffizio di ambasciatore comandava in quella occasione il silenzio e la calma. Per altro, la torva guardatura e l'atteggiamento della persona fieramente appoggiata al pomo della spada, significavano le represse pugne dell'animo e promettevano alla corte del Finaro che ben presto la libertà del capitano si sarebbe ricattata dei silenzi sforzati del messaggero di Genova.

Finita la lettera e sigillata colle armi del marchesato, Galeotto la prese dalle mani del cancelliere e la consegnò a messer Pietro.

–Eccovi la mia risposta all'illustrissimo Doge e al nobil comune di Genova;—diss'egli frattanto.—Aspetterò la guerra in quel giorno che mi è stato indicato; non posso desiderarla prima, perchè non la ho provocata e aspetto ancora che vogliano i miei nemici tornare a più miti consigli. Comunque sia, messer Pietro Fregoso, io vi prego di render grazie in mio nome al Doge vostro cugino, che tanto ha fatto stima di me e di tanto ha cresciuto la solennità della sfida, mandandola per le mani di un così illustre capitano.—

Anche da queste parole, come già dalla lettera, traspariva un fil d'ironia; ma messer Pietro non poteva adontarsene, e perchè l'ironia era finamente condotta, e perchè, poi, quell'ufficio di messaggero, non al tutto conveniente al suo grado, lo aveva voluto egli stesso.

Si accomiatò con garbo, diede un'ultima occhiata, in guisa di arrivederci, a Barnaba e agli altri fuorusciti genovesi, indi si mosse per uscir dalla sala. Galeotto lo accompagnò fino all'androne del castello.

–Cavaliere,—gli disse, porgendogli cortesemente la mano,—la guerra ha tristi vicende per tutti. Ricordatevi che Galeotto Del Carretto, se è pronto e risoluto a respingere, è poi altrettanto umano in accogliere. Il Finaro è luogo d'asilo ai disgraziati; perciò avete qui veduti gli Adorni. Il giorno che sarà guerra tra noi, non avrete altri avversarii che i Carretti; gli Adorni avranno, non pure licenza, ma preghiera di ritirarsi da un rifugio, che non sarebbe quind'innanzi più sicuro per essi.

–Nobilmente parlate, messere;—disse a lui di rimando il Fregoso;—capitano dell'esercito genovese, io ricorderò queste vostra parole. Ed ora, signor marchese, alla sorte delle armi!—

Le cortesie del commiato rasserenarono il volto di messer Pietro Fregoso. Del resto, quella bisogna era fornita, ed egli facea ritorno, come suol dirsi, nella sua beva.

–Animo, via!—disse ad Anselmo Campora, a mala pena furono usciti di là.—I grattacapi sono finiti e adesso verrà il buono. Mi fermo stassera a Vado, e tu proseguirai fino a Genova, per consegnare la lettera.

Il Picchiasodo fece a queste parole una faccia scontenta, che nulla più.

–Messer Pietro riveritissimo,—soggiunse egli poscia, veduto, che l'altro non aveva badato a' suoi versi,—non perderò mica il mio posto alla predica?

–E come potresti tu perderlo, se c'è tempo fino ai cinque del mese venturo? Siamo oggi ai ventisette di novembre, mi pare, ed io non leverò il campo dalla spiaggia di Vado che la mattina del due di dicembre. Tu dunque domani arrivi a Genova; consegni la lettera al Doge mio cugino; gli dai que' ragguagli di veduta che egli ti chiederà certamente; aspetti le lettere e i comandi che vorrà darti per me, e doman l'altro, il trenta, alla più trista, puoi essere al campo di Vado.

–Eh, diffatti, se non mi fanno aspettare dell'altro, la cosa può esser così come voi dite, padron mio reverito! Dopo tutto, non son io il capo dei vostri bombardieri? Dee premere a loro di rimandarmi libero, come a me di capitar primo all'osteria dell'Altino.

–Ah sì,—disse Pietro Fregoso, ridendo,—questa è la tua meta; ma temo che la bisogna non sia per correre spedita come tu pensi. Castelfranco non si piglia in un giorno.

–Lo capisco ancor io;—rispose il Picchiasodo;—ma questa è una ragione di più per capitarci in tempo colle bombarde.—

In questi ragionari, oltrepassato il Borgo, s'erano avviati sulla strada della Marina, dove aveva a trattenerli il tristo caso che abbiamo narrato nel capitolo antecedente.

E adesso torniamo al castello, dove la sfida di Genova avea messo tutti in trambusto. Il marchese Galeotto, prevedendo da lunga mano la cosa, aveva, siccome ho già detto, raccolto gran gente nel marchesato; ma egli bisognava spartire i comandi, sincerarsi che niente mancasse nei luoghi più esposti a un primo assalto nemico, asserragliare i passi più facili, e frattanto mandare l'annunzio della guerra dichiarata al capitano della Lega, perchè incontanente spedisse gli aiuti promessi al Finaro.

Per questo uffizio nessuno parve al marchese più adatto di Giacomo Pico. Egli era tornato bensì quella stessa mattina dalla Langhe; ma in lui Galeotto riponeva ogni sua fede; il negozio richiedeva la massima speditezza nel messaggero e pari conoscenza dei luoghi, degli uomini e delle cose; però fu mandato a cercare nelle sue stanze il Bardineto, e, non essendo trovato colà, fu mandato a cercare nel Borgo.

Ora, in quella che lo si aspettava, e il marchese Galeotto s'intratteneva co' suoi gentiluomini e colle donne della sua casa, ecco giungere la Gilda, una vispa e leggiadra ragazza, e, avvicinatasi a madonna Bannina, susurrarle alcune parole, che parvero turbar grandemente costei e la sua gentile figliuola, che le aveva udite del pari.

–Che c'è?—dimandò il marchese, notando il turbamento improvviso delle sue dame.

–Giacomo Pico moribondo all'Altino;—rispose madonna Bannina al marito;—questo è l'annunzio che ci ha recato la Gilda.

–Come? che è stato? e da chi lo sai?—ripigliò il marchese, volgendosi alla ragazza con atto di profonda ansietà.

La Gilda, tutta confusa, ripetè allora ad alta voce come il Bardineto avesse combattuto in duello pur dianzi col cavaliere di Genova e fosse gravemente ferito all'osteria dell'Altino, dov'era accaduto lo scontro. La notizia era stata portata a lei da Tommaso Sangonetto, aiutante del notaio David, che stava ancora in anticamera, per aspettare i comandi del marchese. Disse infine tutto quel che sapeva; non già tutto quello che le aveva detto il nostro Tommaso, Egli diffatti, in mezzo alle notizie dell'accaduto, aveva trovato modo di schiccherarle una dichiarazione d'amore, che a lei era parsa sconvenevole al sommo, in quella occasione, e glielo sarebbe parsa, ne abbiam fede, in altre parecchie.

Ora, come si spiega cotesto, senza frugare un pochino negli arcani del cuore? Veramente, i segreti d'una bella ragazza non s'avrebbero a dire; ma noi siamo qui per raccontare, e non andremo fuori di carreggiata dicendo che la Gilda ci aveva il suo e che un uomo le aveva dato nell'occhio. Anche lei, cresciuta nella compagnia e nella benevolenza dei castellani, era diventata ambiziosa, come Giacomo Pico; per altro, siccome nel cuore d'una ragazza inesperta l'ambizione non mette ancora troppo in alto la mira, gli occhi della Gilda non s'erano levati fino ad un cavalier di corona; avevano fatto sosta sulla persona di quell'altro ambizioso, che era Giacomo Pico. Il giovinotto non le aveva mai detto nulla di singolare; nè occhiate, nè sospiri, avevano fatte le veci di una accesa parola; ma egli era così buono, così dolce, così grazioso con lei! Già si capisce che il Bardineto fosse tale, o si studiasse di parerlo, con quante persone attorniavano di consueto madonna Nicolosina. Epperò, fidandosi a quelle apparenze, la Gilda aveva pigliato un granchio, come a tante ragazze della sua età facilmente interviene. Egli è tuttavia da soggiungere, a lode delle donne, che esse, pigliato il primo, non ne pigliano più altri; li fanno pigliare.

Ciò posto in chiaro, si capirà come la Gilda fosse dolente per l'annunzio recato dal Sangonetto e come dovessero parerle sconvenevoli le digressioni da lui fatte per utile proprio. E non ne diciamo più altro.

Udita la Gilda, il marchese Galeotto volle vedere il messaggiero, che fu subito introdotto e raccontò, s'intende, l'accaduto a suo modo. Giacomo Pico era andato con esso lui a diporto sulla Caprazoppa. Scesi all'Altino, avevano udito di due cavalieri, che, prima di salire al castello, s'erano intrattenuti a curiosare per via e a pigliar lingua dei luoghi. Cotesto aveva insospettito il Bardineto; ambedue avevano fiutato i genovesi e s'erano messi sulle orme loro. Nel risalire alla volta del Borgo li avevano incontrati, ma già sul ritorno, e lì, una parola ne tira un'altra (il Sangonetto non ricordava più come), erano venuti alle grosse. Pico aveva la spada a sfidò a duello il Fregoso. Egli, Sangonetto, non l'aveva, e non potè essere che testimone al combattimento, che era finito colla peggio del suo povero amico.

–Fu un colpo disgraziato!—diceva il prode Tommaso.—Ed io non ho potuto ricattarmi sul compagno del Fregoso, perchè non avevo meco che questo coltello da caccia.

–Bravi giovani!—sclamò il dabben gentiluomo.—Ma dimmi, è così grave la ferita, che il nostro Pico non possa muoversi dall'Altino?

–Oh, non dico questo, magnifico messere; su d'una lettiga si potrà sicuramente portarlo via di laggiù.

–Va dunque; piglia quattro soldati alla porta di San Biagio e sia il nostro Giacomo condotto al castello, dove gli sarà usata ogni cura.

–Padre mio,—entrò a dire timidamente quell'anima pietosa di madonna Nicolosina,—se noi gli andassimo incontro?

–Perchè no?—soggiunse il marchese, assentendo del gesto.—È delle dame aver cura ai feriti. Giacomo Pico ha salvato la vita a me; la mia famiglia deve essergli grata. Andate dunque e veda il Finaro che le sue castellane son pronte ad ogni ufficio di carità pei nostri fedeli servitori e soldati. Ma ora che Pico è ferito, chi porterà l'annunzio della sfida di Genova al capitano della Lega, a Millesimo?—

Tommaso Sangonetto, che stava coll'occhio alla penna, vide che quello era momento da farsi avanti e acciuffar l'occasione.

–Magnifico signore,—diss'egli, inchinandosi,—non valgo io nulla per obbedirvi? Son tutto vostro e se v'è cosa che io possa fare, in cambio del mio povero amico, eccomi ai vostri comandi.

–Sì, puoi servirmi benissimo;—rispose il marchese Galeotto.—Si tratta di portare una lettera a messer Francesco del Carretto, signor di Novelli. Lo troverai a Millesimo, nella torre di Oddonino. Andando a staffetta, potrai essere domani, all'alba, in Millesimo. Va dunque a pigliare il nostro Giacomo e torna; ti metterai in viaggio tra un'ora.—

Ed ecco il nostro Tommaso Sangonetto ambasciatore dell'esoso tiranno. La fortuna capricciosa lo aveva innalzato a quel segno; ma la fortuna egli l'avea anche aiutata con una mezza serqua di bugìe; non le era dunque debitore di nulla. Per contro, egli poteva credersi obbligato di qualche cosa alla disgrazia di un amico, e, pensando al povero ferito che andava a togliere dall'osteria dell'Altino, aveva anche ragione a considerare la profonda verità dell'adagio, che tutto il mal non vien per nuocere. Disgrazia di cane, ventura di lupo, dicevano i vecchi.

–Un bel garbuglio s'è fatto!—andava egli digrumando tra sè.—Giacomo in di grosso ha capito quello che dee lasciar credere della sua sfuriata contro il Fregoso. Mastro Bernardo, che è stato cagione di tutto il guaio, non parlerà. Io ci ho guadagnato di poter dire una parolina alla Gilda e di diventare un pezzo grosso alla corte. Non c'è che dire; sono ambasciatore, o giù di lì; lascio la spada pel caducèo, il panzerone per la guarnacca; cedant arma togae!—

CAPITOLLO VI

Nel quale si vede come San Giorgio, invocato da due parti, non sapesse a cui porgere orecchio.

Era un fiorito esercito quello che la repubblica genovese avea posto sotto il comando di Pietro Fregoso, e che questi guidava dal campo di Vado all'impresa del Finaro.

Come Genova avesse provveduto a radunar gente, s'è già accennato a suo luogo. Seicento fanti dovea fare il vicariato di Chiavari, quattrocento il vicariato della Spezia ed ottocento le tre podesterie. La città di Genova dava quattrocento balestrieri, milizia sceltissima e assai riputata; Varazze, Savona e Noli, davano mille fanti; Albenga, i Doria d'Oneglia e i signori della Lengueglia, quattromila; Filippo Doria, del Sassello, cinquanta balestrieri; Giovanni Aloise del Fiesco e gli altri parenti suoi, si mettevano alla discrezione del Doge; gli Spinola di Luccoli, così quelli che possedevano castella, come quelli che non ne possedevano, erano obbligati a fornir per un mese dugento balestrieri; quanto al Doge, ne metteva del suo quanti bisognassero. E questi dovevano essere i più numerosi e più certi nel campo.

Invero, non si poteva a que' tempi far troppo assegnamento sulle forze comandate, e questo non già per manco di prodezza nei combattenti, bensì per la poca e varia durata del loro servizio. Comuni e feudatarii non usavano imporlo che per breve stagione, talvolta di trenta dì, come nel caso citato degli Spinola, tal altra di quaranta; spirato il qual termine, le milizie in tal guisa raccolte lasciavano a mezzo l'impresa meglio avviata e si sbandavano tosto. Bene per moneta, o grazia speciale, si consentiva al comandante un servizio più lungo; ma questo per privati accordi dovea stipularsi; ad ogni modo, egli non era da farci a fidanza. Perciò, in ogni impresa, occorreva ai comuni ed ai principi aver gente in altra maniera, e, a dirla in poche parole, pigliar mercenarii in condotta.

Il nome solo di mercenarii è un doloroso ricordo per noi italiani. In quelle soldatesche vaganti era la forza, e la loro prevalenza nelle guerre del medio evo ci spiega come fosse possibile lo imperversare di tante fazioni e il soverchiare di tante tirannidi. Piccoli comuni inghiottiti dai grandi; questi oppressi dalla violenza di un solo, o lacerati dalle gare di molti; discordie tirate innanzi fino alla calata di un più possente nemico, che aggravi la sua mano di ferro sulla contesa città; vicarii d'Impero e vicarii di Chiesa, con tradimenti e raggiri, fatti padroni di vaste provincie, incautamente preparate a stimolare la cupidigia di stranieri monarchi; questo ed altro hanno procacciato i mercenarii all'Italia. Il bisogno, nei comuni e nei principi, di guerreggiarsi l'un l'altro, aveva tirato quella peste tra noi, e le grosse paghe avean fatto della milizia un gradito mestiere; laonde privati cittadini e gentiluomini agli sgoccioli radunavano spesso un certo numero di cavalieri e di fanti, coi quali andavano a soldo del migliore offerente.

Forastieri in principio, furono italiani dappoi. Italiano, per citarne uno fra tanti, era quell'Astorre Manfredi che comandava nel 1379 quella terribile compagnia della Stella, mandata da Bernabò Visconti a molestare il territorio dei Genovesi. Questi, per altro, il 24 di settembre di quel medesimo anno, la ruppero sulla spianata del Bisagno, tuttochè forte di ben quattromila uomini e saldamente appoggiata alla collina d'Albaro, menando prigione il maggior numero e deputando un commissario a giudicarli. Aveva egli dal Comune il mero e misto imperio e la podestà della spada, affinchè procedesse juris ordine servato et non servato, cioè a dire che potesse giudicare sommariamente. E così fece messer Giorgio Arduino, che tale aveva nome il fiero magistrato, mandando tutti que' scellerati predoni alle forche.

Ma lasciamo in disparte le grandi compagnie, che non entrano nel nostro povero quadro, e ristringiamoci a parlare di quelle piccole masnade di venturieri, che, datisi al mestiere dell'armi, cominciavano ad essere caporali di lancia, e, venuti in fama di prodezza, riuscivano a far manipolo di gente, che poi conducevano a' servigi di questo e di quello. La loro condotta era di tre sorte. Dicevasi che un condottiero serviva a soldo disteso, quando egli, con un dato numero di cavalli e di fanti, militava operosamente sotto il comando del capitano generale; era in quella vece condotto a mezzo soldo quando, senza obbligo di passare la mostra, e in forma di compagnia, guerreggiava a suo bell'agio le terre sopra le quali era mandato; da ultimo, stava in aspetto quando, per certa piccola paga, il principe, o comune che fosse, teneva impegnata a suo pro' la compagnia del condottiero, per ogni caso di guerra.

A tal gente aveva fatto capo il Doge di Genova, per rafforzare l'esercito d'un buon nerbo di cavalli e di fanti. E sotto il comando di messer Pietro Fregoso erano venuti in condotta per tutto il tempo che avesse a durare la guerra, Firmiano Migliorati con dugento fanti, Francesco Bolognese con quattrocento, Vecchia da Lodi con cinquecento, Santino da Riva, lombardo egli pure, con altri cinquecento, Bombarda di Nè con trecento, Giovanni di Trezzo con trecento del pari e Pietro Visconte con dugento cinquanta. Cinquecento ne aveva Bartolomeo da Modena; dugento per ciascheduno Giovanni da Cuma, Soncino Corso e Carlo del Maino; trecento Cipriano Corso, duecento Antonello da Montefalco ed altrettanti il Vecchio Calabrese; cento il Giovine Calabrese, cento Battista di Rezzo, come Carlino Barbo, Bertone Maraviglia e Bertoncino il Poccio, da ultimo, ne aveva cinquecento egli solo.

Parecchi portavano anche condotta di lancie. Cinquanta ne comandava Firmiano Migliorati; venticinque Santino da Riva; dieci per ciascheduno Bartolomeo da Modena e Giovanni da Cuma; venticinque Beltramino da Riva.

E qui bisognerà fermarsi un tratto per dire che cosa fossero le lancie. Parlo pei meno intendenti di queste astruserie militari, che pure ricorrono tanto frequenti nelle storie italiane anteriori alla prevalenza dei cannoni e degli schioppi maneschi.

Nella cavalleria, più che nei fanti, era a que' tempi il nerbo delle battaglie. Questi, se arcadori e balestrieri, incominciavano la pugna; i cavalieri vi facevano poscia lo sforzo decisivo. Sepolti, per così dire, entro a montagne di ferro, portati da cavalli smisurati e coperti anch'essi di ferro, correvano a furia gli uni sugli altri, e vincitore era facilmente colui che levasse il nemico d'arcione. Il ferire, essendo intatte le armature, non tornava agevole, salvo in un punto, cioè sotto l'allacciatura dell'elmo. E a ciò, se il cavaliere non reputava più utile imporre un riscatto al caduto, badavano i serventi del vincitore e gli altri fantaccini accorsi nella mischia.

Così poderosamente armato e bisognoso d'aiuti, il cavaliere aveva sempre un cavallo di riserbo, talvolta anche due, ed un manipolo di pedoni con sè. Potevano esser quattro e cinque, non mai meno di tre serventi, uno dei quali armato di balestra, e un altro di lancia, o di partigiana. Costoro si chiamavano anche saccomanni; gli altri si diceano paggi, o ragazzi, nel primo significato del vocabolo, che è quello di servi, adoperati in umili esercizi. E tutta questa famiglia dicevasi lancia, giusta il costume degl'inglesi venturieri calati in Italia, che tolsero il nome dall'arma principale del combattente; laddove, più anticamente, da noi i cavalieri erano detti militi, per antonomasia, quasi i soli che meritassero tal nome, o barbute, o elmetti, dalla più nobil forma dell'armatura del capo. Quest'elmo, un panzerone di ferro e un'anima d'acciaio sul petto, bracciali, cosciali e schinieri di ferro, erano le difese del cavaliere; daga, e spada soda, lancia a posta sul piè della staffa, erano l'armi di offesa.

Nomi diversi, secondo i tempi e le fogge del loro armamento, avevano i fanti. Portavano giaco e cervelliera di ferro, spada e mazza, oppure una picca di smisurata lunghezza. Dicevansi tavolaccini e palvesarii i balestrieri che combattevano al riparo d'un tavolaccio, o d'un palvese, scudi alti quanto la persona e terminati in punta, che si conficcavano in terra. Le balestre (chi nol sa?) erano aste di legno, cui s'adattavano archi di ferro; le maggiori avevano un piede, di guisa che il balestriere non durava altra fatica che di tenderle, appuntarle e scoccarle; altre, più grandi, e dette balestroni, o spingarde, specialmente adoperate nella difesa, o nell'assedio delle fortezze, si montavano la mercè d'una girella e scagliavano tre verrettoni, e all'occorrenza anco pietre.

L'argomentò mi tirerebbe a parlare eziandio delle macchine; ma il troppo stroppia e fo punto. Tra fanti e cavalli, bombardieri, artefici e bagaglioni, erano forse quindicimila sotto i comandi del Fregoso, all'impresa del Finaro. Pochi erano i cavalieri in paragone degli altri; ma i luoghi montuosi e ristretti in cui era portata la guerra, non richiedevano gran nerbo di gente a cavallo. Del resto, in aiuto alle lancie, militavano con messer Pietro molti nobili genovesi, e tra essi quasi tutti i giovani della casata Fregosa.

Le prime bandiere giunsero in vista del Finaro il giorno che era stato indicato, cioè a dire il 5 del mese di dicembre. Le vedette collocate dal marchese al passo delle Magne, si ritrassero a Verzi e di là fino al Calvisio, per dare avviso dell'approssimarsi del nemico. Galeotto aspettava il Fregoso al passo di Val Pia, per sbarattare le prime compagnie che si fossero perigliate laggiù. Ma messer Pietro non avea fretta di calare nella valle; per quattro giorni intieri stette sul poggio di Castiglione, aspettando l'arrivo di tutta la sua gente; e frattanto gli artefici, per suo comando, prendevano a far bastita in quel luogo.

Dicevasi bastita, o battifolle, quell'edifizio che un esercito innalzava in prossimità del nemico, per comandare un passo contrastato, o una città assediata, ed era alcun che di simile al vallo degli antichi romani e al campo trincierato degli eserciti moderni. Facevasi di legno e di pietre, munivasi di steccato, di scarpa e di fosso tanto più profondo quanto più era consentito dal tempo e richiesto dalla poca eminenza dei luoghi. Colà dentro riparava l'esercito con tutte le sue salmerie ed ingegni di guerra, così per custodirsi da un colpo disperato del nemico ed aver tempo a mettersi in arme, come per tornarvi a rifugio e riordinarsi nel caso d'una sconfitta.

Messer Pietro era uomo avveduto e non gli accadeva mai di badare ad un negozio, che non ponesse mente in pari tempo a tutte quelle cose che potevano aiutarne il buon esito. La sua bastita non appariva una delle solite a farsi in somiglianti occasioni; capace era e fortissima, con quattro torri sugli angoli, come se anche di là dond'era venuto temesse egli un assalto. Que' monti, che scendevano dirupati fin presso al mare, gli parean traditori, ed egli inoltre, quanto al senno di poi, non voleva rimorsi.

Quella bastita, del resto, anche avanzandosi egli col grosso delle schiere entro la valle del Finaro, doveva rimanere il suo ricettacolo, il suo emporio, la sua piazza forte. Però l'aveva innalzata in luogo così eminente e lontano, e fatta così ampia, così validamente munita. I Finarini, che stavano spiando tutto ciò dalle loro beltresche e battifredi rizzati sui colli di rimpetto, in cominciavano a beffarsi di questo Fabio temporeggiatore, e delle sue fabbriche tanto lontane.

–Scenda,—dicevano essi,—venga alla prova sotto le mura di Castelfranco e vedrà se, scompigliato al primo urto, gli riesce di tornare in salvo su quella bicocca.—

E messer Pietro, la mattina del 14, bravamente discese. Santino da Riva, colle sue lancie, correva sulla sponda sinistra del torrente di Pia, per assicurare le spalle dell'esercito dalla imboscate nemiche. I quattrocento balestrieri di Genova calarono in bell'ordine sotto il comando di Nicola Fregoso, giovin cugino di Pietro, e s'avviarono verso la foce del torrente. Giunti ad un luogo coltivato, che avea nome di Vigna Donna, si fermarono, con gran meraviglia dei difensori di Castelfranco, che si aspettavano un assalto e stavano ai parapetti, pronti con verrettoni, sassi, e pece bollente, a respingerli. Questo per la difesa del castello; ma dietro ai saglienti dei bastioni c'era preparato dell'altro, per attaccar battaglia sul lido. Erano colà forse due mila Finarini appostati, che dovevano piombare sul nemico, a mala pena si fosse avventurato all'assalto.

Ma messer Pietro non volle pigliarsi la briga di andarli a cercare. Piantatosi a Vigna Donna, accennò di volervi attender battaglia, e, poichè questa non gli fu data, di volervi dormire. E giunse difatti la sera, senza che egli si fosse scostato di là. Il luogo doveva piacergli di molto, poichè egli ci stava ancora la mattina vegnente; anzi ci avea messo casa. Il principio d'uno steccato appariva in quel luogo; il fosso era scavato in giro e il cavaticcio ammontato a rincalzo dei pali, minacciosamente aguzzi e appuntati all'ingiù. Quello era stato il lavoro di tutta la notte, e certamente messer Pietro ci aveva fatto vegliare la metà dell'esercito. Di torri non c'era ancor segno in quel luogo; chè sarebbero state opere inutili. Il palazzo di Gandolfo Ruffini, murato in quella vigna, era parso la man di Dio al prudente capitano, che n'avea fatto il mastio della sua nuova difesa. Una strada coperta, tutta irta di punte, metteva dal battifolle improvvisato fino alla bastita del poggio di Castiglione.

I difensori di Castelfranco incominciarono a capire il disegno di messer Pietro. Voleva esser sicuro del fatto suo, il capitano genovese, e dar battaglia colle spalle al coperto. E quanta riserva di pali faceva portar tuttavia da lunghe file di bagaglioni! Ormai ce n'erano tanti accatastati là dentro, da farne, non che una doppia, o tripla stecconata, una selva.

Così passò la giornata del 15; i Genovesi lavorando senza posa a rafforzare il battifolle e portando sempre nuovo legname; i Finarini aspettando un assalto da alcune compagnie di fanti, che proteggendo i lavori dei manovali, accennavano di avvicinarsi a Castelfranco. Erano giunti a due balestrate dalle mura, nel luogo detto di San Fruttuoso, poco stante dalla spiaggia del mare; ma non s'inoltravano di più.

–Che diavol fanno?—si chiedevano i difensori di Castelfranco l'un l'altro.—Oramai, il battifolle di Vigna Donna è diventato una legnaia.

–Provvedono forse ai casi loro per quest'inverno, che sarà freddo laggiù.

–T'appiccherà il fuoco messer Galeotto, statene certi; e di qui ci vogliamo goder la fiammata;—

Questi i ragionari sul parapetto. Intanto giungeva la notte, senz'altro di nuovo per tutto quel dì, tranne qualche colpo di balestra scambiato sul lido tra le vedette dei Finarini, appostati sotto Castelfranco, e alcuni più audaci scorridori nemici.

Возрастное ограничение:
0+
Дата выхода на Литрес:
01 июля 2019
Объем:
300 стр. 1 иллюстрация
Правообладатель:
Public Domain
Формат скачивания:
epub, fb2, fb3, html, ios.epub, mobi, pdf, txt, zip

С этой книгой читают