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Читать книгу: «I misteri del castello d'Udolfo, vol. 4», страница 9

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CAPITOLO LV

Alcune circostanze singolari distrassero Emilia dalle sue inquietudini, eccitando in lei sorpresa pari ad orrore.

Pochi giorni dopo la morte della signora Laurentini, fu aperto il testamento di quella dama in presenza della superiora del convento e di Bonnac. Un terzo de' suoi beni era stato lasciato al parente più prossimo della marchesa di Villeroy, e questo legato riguardava Emilia.

La badessa conosceva da molto tempo il segreto della sua famiglia; ma Sant'Aubert, ch'erasi fatto conoscere al religioso che avevalo assistito, aveva prescritto che questo segreto restasse celato sempre alla sua figlia. I discorsi però sfuggiti alla signora Laurentini, e la strana confessione da lei fatta nei suoi ultimi momenti, fecero creder necessario alla badessa di parlare alla sua giovane amica d'un soggetto che poteva illuminarla. Per questo motivo adunque avrebbe voluto vederla il giorno seguente a quello in cui era stata a visitare suor Agnese. L'indisposizione di Emilia avevale impedito di recarsi al monastero, ma dopo l'apertura del testamento, essendo andata a Santa Chiara, venne informata di molti dettagli che l'afflissero molto. Siccome poi il racconto fatto dalla badessa sopprimeva varie particolarità che possono interessare il lettore, e che l'istoria della monaca è legata con quella della marchesa, ometteremo la conversazione del parlatorio, e daremo qui un ristretto della storia della defunta.

Storia della signora Laurentini di Udolfo

Era essa figlia unica ed erede dell'antica famiglia di Udolfo nel territorio di Venezia. Il primo infortunio della sua vita, e la vera sorgente di tutte le di lei sciagure fu che i suoi genitori, i quali avrebbero dovuto moderare la violenza delle sue passioni, ed insegnarle a regolarle, non fecero che fomentarle con una colpevole indulgenza. Amavano in lei i propri sentimenti. Lodavano sgridavano, la figlia non secondo una tenerezza ragionevole, ma dietro la loro inclinazione. L'educazione non fu per essa che un misto di debolezza e di pertinacia che l'irritò. I consigli che le venivano dati divennero altrettante contese, in cui il rispetto figliale e l'amor paterno erano egualmente dimenticati. Ma siccome quest'amor paterno era sempre più forte, e si disarmava più facilmente, la figlia credeva aver vinto, e lo sforzo che facevano per moderare le sue passioni lor somministrava sempre nuova forza.

La morte de' genitori la lasciò padrona di sè medesima nell'età tanto pericolosa della gioventù e della bellezza. Amava il gran mondo, s'inebbriava del veleno della lode, e sprezzava la pubblica opinione quando contraddiceva a' suoi gusti. Il di lei spirito era vivo e brillante; aveva tutti i talenti, tutte le attrattive che formano la grand'arte di sedurre. La sua condotta fu quale potevano farlo presagire la debolezza de' suoi principii e la forza delle sue passioni.

Nel numero infinito de' suoi adoratori, vi fu il marchese di Villeroy. Viaggiando in Italia, la vide a Venezia, e se ne innamorò. Anch'essa fu colpita dalla bella figura, dalle grazie e dalle qualità del marchese, il più amabile de' gentiluomini francesi. Seppe nascondere i pericoli del suo carattere, le macchie della sua condotta, e il marchese chiese la di lei mano.

Prima della conclusione delle sue nozze andò al castello di Udolfo, ove il marchese la seguì. Là, meno riservata e prudente forse di quello fosse stata fino allora, diè luogo all'amante di formar qualche dubbio sulla convenienza nel nodo che stava per istringere. Un'informazione più esatta lo convinse del suo errore, e colei che doveva esser sua moglie, divenne la sua concubina.

Dopo aver passato alcune settimane a Udolfo, fu d'improvviso richiamato in Francia: partì con ripugnanza, e col cuore pieno della sua bella, colla quale però aveva saputo differire la conclusione del matrimonio. Per incoraggirla a sopportare tale separazione, le diè parola di tornare a celebrar le nozze appena i suoi affari glielo avessero permesso.

Consolata da tale assicurazione, la signora Laurentini lo lasciò partire. Poco dopo, Montoni, suo parente, venne a Udolfo, e le rinnovò proposte da lei già respinte, che rigettò nuovamente. I suoi pensieri eran tutti rivolti al marchese di Villeroy. Provava per lui tutto il delirio d'un amore costante, fomentato dalla solitudine in cui erasi confinata. Aveva perduto il gusto de' piaceri e della società, e la sua unica consolazione consisteva nel contemplare e bagnar di lacrime un ritratto del marchese. Visitava i luoghi testimoni della loro felicità, e sollevavasi il cuore scrivendogli del continuo lettere affettuosissime. Contava i giorni, e le ore, i minuti che dovevano scorrere prima dell'epoca probabile del suo ritorno. Questo periodo immaginario finì; le settimane che susseguirono, divennero per lei d'un peso insopportabile. La di lei fantasia occupata in una sola idea, si disordinò. Il suo cuore era dedito ad un solo oggetto, e quando credè averlo perduto, la vita le divenne odiosa.

Scorsero parecchi mesi senza ch'ella ricevesse una sola parola del marchese. Passava i giorni intieri fra i trasporti di una passione furiosa ed il cupo languore della più nera disperazione. Isolata da tutto, e da tutti, si chiudeva in casa settimane intiere senza parlare ad altri che alla sua confidente. Scriveva lettere, rileggeva quelle ricevute una volta dal marchese, piangeva sul di lui ritratto, e parlavagli del continuo, ora per rimproverarlo, ora per baciarlo con fervore.

Finalmente, si sparse la voce nel castello che il marchese si fosse maritato in Francia. Straziata dall'amore, dalla gelosia e dallo sdegno, prese il partito di andar segretamente in quel paese, e vendicarsi, se il fatto era vero. Comunicò alla sola sua confidente il progetto formato, e l'indusse a seguirla. Prese tutte le sue gioie, e quelle raccolte nelle successive eredità di vari membri della famiglia, ch'erano d'immenso valore; e partita segretamente in compagnia d'una sola cameriera, andò a Livorno, ove s'imbarcò per la Francia.

Al suo arrivo in Linguadoca, venne a sapere che il marchese di Villeroy era già ammogliato da qualche tempo. La disperazione alterò la sua ragione. Formava ed abbandonava contemporaneamente l'orribile progetto di pugnalare il marchese, la di lui sposa e sè medesima. Decise finalmente di presentarsegli, rimproverargli la sua condotta, ed uccidersi alla sua presenza. Ma quando l'ebbe riveduto, quand'ebbe ritrovato il costante oggetto de' suoi pensieri e della sua tenerezza, il risentimento cedè all'amore: le mancò il coraggio; il conflitto di tanti affetti contrari la rese tremante, e cadde svenuta ai suoi piedi.

Il marchese non potè resistere alla prova di tanta bellezza e sensibilità; tutta l'energia di un primo sentimento si risvegliò; la ragione, ma non l'indifferenza, aveva combattuto la sua passione. L'onore non avevagli permesso di sposar la Laurentini; aveva cercato di vincersi; aveva cercato una compagna, per la quale non aveva che stima, considerazione ed un ragionevole affetto. Ma la dolcezza e le virtù di quella donna adorabile non poterono consolarlo di un'indifferenza, ch'essa cercava indarno nascondere. Egli sospettava da qualche tempo che il di lei cuore fosse impegnato ad un altro, allorchè la Laurentini giunse in Linguadoca. Questa donna artifiziosa conobbe in breve tutto l'impero ripreso su di lui. Calmata da tale scoperta, si determinò a vivere, e moltiplicare gli artifizi per ridurre il marchese all'esecrabile misfatto cui credeva necessario per assicurare la sua felicità. Perseverò nel suo progetto con profonda dissimulazione ed imperturbabile pazienza. Riuscì a staccare intieramente il marchese dalla consorte. La sua dolcezza, bontà e freddezza, così opposte alle maniere insinuanti, alla voluttà inesprimibile d'una Veneziana, cessarono ben tosto di piacergli. La Laurentini ne profittò per destare nel di lui cuore la gelosia dell'orgoglio, non potendo più risentir quello dell'amore: giunse perfino a designargli la persona per la quale affermava che la marchesa lo tradisse, dopo avergli strappato il giuramento, che il rivale non sarebbe stato mai l'oggetto della sua vendetta, nella persuasione, che, restringendola così da una parte, avrebbe preso dall'altra maggior violenza ed atrocità. Pensò che così il marchese si sarebbe determinato più facilmente all'atto orribile che diveniva indispensabile a' suoi disegni, e doveva annichilare l'unico ostacolo che sembrava impedire la di lei felicità.

L'innocente marchesa osservava con estremo dolore il cambiamento del marito verso di lei. Alla sua presenza, egli era pensieroso e riservato. La di lui condotta diveniva sempre più austera ed aspra: la lasciava struggere in lacrime, e per ore intiere essa piangeva sulla di lui freddezza, facendo sempre nuovi progetti per riguadagnarne l'affetto. La di lui condotta l'affliggeva tanto più in quanto che aveva sposato il marchese unicamente per obbedienza: ne aveva amato un altro, col quale sarebbe stata al certo felice; ma aveva saputo sacrificare la passione ai doveri coniugali. La Laurentini, la quale non tardò a scoprirlo, ne approfittò sagacemente. Suggerì al marchese tante prove apparenti sull'infedeltà della moglie, che, nell'eccesso del furore e del risentimento per l'oltraggio che credeva aver ricevuto, pronunciò il decreto fatale della sua morte. Le fu dato un lento veleno, e quell'infelice morì vittima d'un'astuta gelosia e d'una colpevole debolezza.

Il trionfo della Laurentini fu di breve durata. Quel momento, ch'essa aveva riguardato come il colmo di tutti i suoi voti, divenne il principio di un supplizio che la tormentò fino alla morte. La sete della vendetta, prima motrice della sua atrocità, fu spenta appena soddisfatta, e lasciolla in preda alla pietà e ad inutili rimorsi. Gli anni di felicità ch'erasi ripromessa col marchese di Villeroy ne sarebbero stati indubbiamente avvelenati; ma anch'egli trovò il rimorso nel compimento della sua vendetta e la sua complice gli divenne odiosa. Tutto ciò che gli era sembrato una convinzione, parvegli allora svanire come un sogno; e fu oltremodo sorpreso, dopo che la moglie ebbe subìto il suo supplizio, di non trovare alcuna prova del delitto pel quale l'aveva condannata. Al sapere ch'ella era in fin di vita, sentì d'improvviso la persuasione della sua innocenza, la quale gli venne confermata dall'assicurazione solenne ch'essa gliene diede in punto di morte.

Nel primo orrore del rimorso e della disperazione, voleva darsi da per sè nelle mani della giustizia con colei che l'aveva piombato nell'abisso del delitto. Dopo questa crisi violenta, cambiò risoluzione: vide una volta sola la Laurentini, ma per maledirla come l'autrice detestabile di tanto misfatto. Le dichiarò che non la risparmiava se non perchè consacrasse i giorni all'orazione e alla penitenza. Oppressa dal disprezzo e dall'odio d'un uomo, pel quale erasi resa tanto colpevole; sovrappresa d'orrore per l'inutile delitto, di cui si era macchiata, la Laurentini rinunziò al mondo, e, vittima orribile d'una passione sfrenata, prese il velo nel convento di Santa Chiara.

Il marchese partì dal castello di Blangy, nè vi tornò più. Procurò di spegnere i rimorsi nel tumulto della guerra e nelle dissipazioni della capitale; ma i suoi sforzi furono vani. Gli pareva d'esser sempre circondato da una nube impenetrabile; i suoi più intimi amici non valsero a consolarlo, e infine morì fra tormenti quasi eguali a quelli della Laurentini. Il medico che aveva osservato lo stato della marchesa dopo la sua morte, era stato indotto a tacere a furia di regali. I sospetti di qualche domestico si limitarono ad una voce vaga. Se questa voce giungesse al padre della marchesa, o se la mancanza di prove lo impedisse di accusarlo, è egualmente incerto. È indubitato però che la di lei perdita rincrebbe a tutta la famiglia, e specialmente a Sant'Aubert suo fratello, tal essendo il grado di parentela esistente tra la marchesa ed il padre di Emilia: egli sospettò il genere della sua morte, e scrisse immediatamente al marchese, da cui ricevè parecchie lettere, le quali, insieme a quelle della marchesa, che confidava al fratello il motivo della sua sventura, componevano le carte che Sant'Aubert aveva ordinato di bruciare. L'interesse, il riposo di Emilia aveangli fatto desiderare ch'ella ignorasse questa tragica istoria. L'afflizione cagionatagli dalla morte prematura d'una sorella da lui tanto amata, avevagli impedito di pronunziarne mai il nome, se non alla defunta consorte. Temendo specialmente la viva sensibilità di Emilia, le aveva lasciato ignorare affatto l'istoria ed il nome della marchesa, non che la parentela esistente tra loro, ed aveva prescritto il medesimo silenzio alla signora Cheron sua sorella, che l'aveva rigorosamente osservato.

Era sur alcune lettere della marchesa che, partendo dalla valle, Emilia vide piangere il padre; era al di lei ritratto ch'egli aveva fatto sì teneri baci. Una morte sì crudele può spiegare l'emozione cui dimostrò quando Voisin la nominò a lui dinanzi. Egli volle esser sepolto presso al mausoleo de' Villeroy, ove giaceano le ceneri di sua sorella. Il marito di questa essendo morto nella Francia settentrionale, ve l'avean sepolto colà.

Il confessore, il quale assistè Sant'Aubert al letto di morte, lo riconobbe pel fratello della defunta marchesa. Per tenerezza verso Emilia, Sant'Aubert scongiurollo di celarle siffatta circostanza, e fe' chiedere la medesima grazia alla badessa, raccomandandole la figlia.

La Laurentini, arrivando in Francia, aveva scrupolosamente celato il suo nome. Entrando in convento, per meglio nascondere la sua vera storia, aveva ella stessa fatta circolare quella stata raccontata da suor Francesca. La badessa non era nel monastero quando fece professione, e non conoscea tutta la verità. I crudeli rimorsi che opprimevano la rea, la disperazione d'un amore deluso, e la passione che conservava pel marchese, aveanle alterata la fantasia. Dopo le prime crisi, una cupa malinconia s'impadronì di lei, e fu di rado sino alla morte interrotta da accessi violenti di delirio. Per vari anni il di lei solo piacere fu quello di passeggiare la notte pei boschi; portava seco un liuto, e s'accompagnava sovente colla sua bella voce cantando le più squisite ariette italiane coll'energico sentimento che occupava costantemente il suo cuore. Il medico che la curava, raccomandò alla badessa di tollerare questo capriccio, come l'unico mezzo di calmarla. Soffrivano adunque che la notte errasse pe' boschi, accompagnata dalla sola donna che fosse venuta seco da Udolfo; ma siccome un tale permesso alterava la regola del monastero, fu tenuto segreto; e quella musica misteriosa, unita a tante altre circostanze, fece credere che il castello di Blangy ed i suoi dintorni fossero frequentati dagli spiriti.

Avanti che la sua ragione si alterasse, e prima di prendere il velo, aveva fatto testamento. Oltre un lascito importante al monastero, essa divideva il resto de' suoi beni, che le sue gioie rendevano ragguardevoli, tra un'Italiana sua parente, sposa di Bonnac, ed il parente più prossimo della marchesa di Villeroy. Emilia era la parente più prossima di questa dama, e la condotta misteriosa di suo padre venne giustificata in tal guisa.

La somiglianza d'Emilia colla sventurata sua zia era stata spesso osservata dalla Laurentini; ma fu specialmente all'ora della sua morte, nel momento stesso in cui la sua coscienza mostravale del continuo la marchesa, che siffatta somiglianza la colpì, e che, nel suo delirio, credette vedere la marchesa in persona. Ardì affermare, ricuperando i sensi, che Emilia doveva esser la figlia di quella dama. N'era convinta; sapeva che la sua rivale, sposando il marchese, gli preferiva un altro, e non dubitava che una passione sfrenata non avesse, come la sua, trascinata la marchesa a qualche fallo.

Intanto il delitto che, per un malinteso, Emilia supponeva essere stato commesso dalla signora Laurentini in Udolfo, non aveva mai avuto luogo. Emilia era stata ingannata dalla vista orribile del quadro coperto da un velo nero, onde si parlò negli scorsi capitoli, e che aveale fatto attribuire i rimorsi della monaca ad un omicidio accaduto in quel castello. Quel velo nascondeva un oggetto che la riempì di orrore; sollevandolo, invece di un quadro, vide nello sfondo una figura umana, i cui lineamenti sfigurati avevano il pallore della morte. Era coperta da un lenzuolo, e distesa in una specie di tomba. Ciò che rendeva tal vista ancor più spaventosa, era che quella figura parea esser già in preda ai vermi, e che le mani ed il volto ne lasciavano vedere le orme. È facile immaginare, che un oggetto tanto schifoso non si dovea guardar due volte. Emilia, quando lo vide, lasciò cadere il velo, e se ne allontanò spaventata, nè tornovvi più. Se avesse avuto il coraggio di osservarla più attentamente, l'orrore e lo spavento suo si sarebbero dissipati, perchè avrebbe riconosciuto che quella figura era di cera. Questo fatto, sebbene straordinario, non è però senza qualch'esempio negli annali della dura servitù in cui la superstizione monastica ha sovente piombato il genere umano. Un membro della casa di Udolfo aveva offeso in qualche punto le prerogative della Chiesa, e fu condannato a contemplare due ore per giorno l'immagine in cera di un cadavere. Questa penitenza, che doveva servire a rammentargli una sorte inevitabile, aveva per iscopo di reprimere nel signore di Udolfo un orgoglio di cui quello di Roma era offeso. Non solo egli subì esattamente la sua penitenza, ma nel suo testamento, prescrisse la conservazione di quella figura, mettendo a tal prezzo la proprietà del dominio, e riguardando come utilissima l'umiliante moralità che insegnava il finto cadavere, l'avea fatto incorniciare nel muro del suo appartamento, ma nessuno degli eredi però volle imitarne la penitenza.

L'immagine era così naturale, che non è da stupirsi se Emilia la credè un corpo umano. Aveva udito raccontare la strana scomparsa della padrona del castello, e il carattere di Montoni autorizzava in lei il sospetto che il cadavere fosse quello della signora Laurentini assassinata dallo stesso suo parente.

Venendo a conoscere che la marchesa di Villeroy era sorella di Sant'Aubert, Emilia si sentì combattuta da contrari affetti. In mezzo alla mestizia cagionatale della morte prematura dell'infelice, si sentì alleviata dalle penose congetture in cui l'avea gettata la temeraria asserzione della Laurentini sulla di lei nascita e sull'onore de' suoi parenti. La sua fiducia ne' principii del padre non permetteale guari d'immaginare ch'egli avesse mancato alla delicatezza. Ripugnava a credersi figlia di tutt'altra che di colei ch'ella avea sempre amata e rispettata come sua madre; avrebbe stentato molto a crederlo; ma la di lei somiglianza colla defunta marchesa, la condotta di Dorotea, le asserzioni della Laurentini, il misterioso affetto di Sant'Aubert aveanle ispirati dubbi che la sua ragione non poteano nè distruggere, nè confermare; ella se ne trovava così sbarazzata, e la condotta del padre si spiegava. Il suo cuore non era più oppresso che dalla sventura d'una parente amabile, e per la terribile lezione data dalla monaca moribonda. Troppa indulgenza per le sue prime passioni, avean trascinata grado grado la signora Laurentini ad un delitto il cui solo nome in gioventù l'avrebbe al certo fatta fremere d'orrore; delitto di cui lunghi anni di penitenza non avean potuto cancellar la memoria, nè alleviare la di lei coscienza.

CAPITOLO LVI

Dopo le ultime scoperte, Emilia fu trattata dal conte e dalla sua famiglia come una parente della casa Villeroy, e ricevuta, se era possibile, anche con maggiore amicizia.

Il conte, inquieto e sorpreso di non ricevere alcuna risposta da Valancourt, s'applaudiva della sua prudenza. Emilia non partecipava a paure di cui ignorava il motivo; ma quando la vedeva soccombere al peso del suo errore crudele, aveva bisogno di tutta la sua risoluzione per privarla d'un sollievo momentaneo e dissimular seco lei. Le nozze di Bianca si avvicinavano, attirando la sua attenzione e le sue cure. Si aspettava di giorno in giorno il cavaliere Santa-Fè, e tutto il castello si occupava dei più brillanti preparativi. Emilia voleva prender parte all'allegrezza che circondavala, ma lo tentava invano; preoccupata di quanto avea saputo, ed inquieta soprammodo della sorte di Valancourt si raffigurava lo stato in cui era quando diè l'anello a Teresa: essa credea riconoscervi l'espressione della disperazione, e quando considerava dove questo stato avrebbe potuto spingerlo, il cuore le sanguinava di dolore e spavento. I dubbi da lei formati sulla salute e sull'esistenza sua, l'obbligo in cui era di conservar questi dubbi sino al di lei ritorno alla valle, pareale insopportabile. Eranvi momenti in cui nulla valea a contenerla. Essa sottraevasi inosservata da casa, andando a cercare la calma nelle profonde solitudini de' boschi che contornavano la spiaggia. Il fragor delle onde spumanti, il sordo stormir delle foreste, s'accordavano collo stato dell'anima sua: sedeva sopra una rupe o sulle rovine della vecchia torre; osservava verso sera la sfumatura de' colori nelle nubi; vedea svolversi i tetri veli del crepuscolo. La candida cresta dell'onde, eternamente sospinte al lido, distinguevasi appena sull'oscura superficie dell'acque. Talvolta essa ripetea i versi incisi dall'amante in que' luoghi; poi, troppo addolorata pe' dispiaceri che le rinnovavano, cercava distrarsi.

Una sera che col liuto errava a caso sul lido favorito, entrò nella torre. Salita una scala a lumaca, trovossi in una stanza meno rovinata del resto. Di là spesse fiate ella aveva ammirato la vasta prospettiva offertale dal mare e dalla terra: il sole tramontava da quella parte de' Pirenei che divide la Linguadoca dal Rossiglione; ella si mise ad una finestra munita di ferriate: i boschi e le onde sotto a lei conservavano ancora le tinte rossicce del tramonto. Accordato il liuto, vi unì il suono della voce, e cantò una di quelle romanze semplici e campestri tanto predilette da Valancourt.

Il tempo era sì queto e sereno, che appena la brezza vespertina increspava la superficie dell'acqua o gonfiava leggermente la vela indorata ancora agli ultimi rai del dì. I colpi misurati de' remi di qualche battello sturbavan soli il riposo ed il silenzio. La tenera melodia del liuto finiva d'immerger la fanciulla in dolce malinconia; essa ripetè le antiche canzoni, e le memorie in lei destate diventando ognor più tenere, le sue lagrime caddero sul liuto, e non potè proseguire.

Il sole era scomparso dietro le vette de' monti, e le loro cime più alte non ne ricevevan più la luce; Emilia, trattenendosi ancora nella torre, vi si abbandonava a' suoi pensieri. Udendo camminare, sussultò, e guardando abbasso, riconobbe Bonnac. Ricadde nella meditazione, e dopo alcuni momenti, ripreso il liuto, cantò la sua aria favorita. Tornò ad udir rumore di passi; ascoltò: salivan la scala della torre. L'oscurità ispirolle qualche paura; i passi eran veloci e leggeri; la porta s'aprì ed il debole crepuscolo le celò sulle prime i lineamenti d'una persona che entrava; ma Emilia potea ingannarsi al suono della voce? era quella di Valancourt. La fanciulla, la quale non aveala mai intesa senza emozione, turbata da sorpresa e piacere a un tempo, appena se l'ebbe visto a' piedi, fu per venir meno. Tanti contrari affetti agitavanle il cuore, che a stento udiva quella voce, i cui teneri e timidi accenti cercavan riassicurarla. Valancourt, vedendola in tale stato, si rimproverava l'eccesso d'impazienza che l'aveva spinto a sorprenderla così. Appena giunto al castello di Blangy, non aveva potuto aspettare il ritorno del conte, ch'era fuori al passeggio, e correndone in cerca, nel passar presso la torre, avea riconosciuta la voce d'Emilia, ed era salito subito.

Quand'essa fu rinvenuta, respinse le attenzioni di Valancourt, e gli domandò, con aria di malcontento, qual fosse il soggetto della sua visita.

« Ah! Emilia, » disse Valancourt, « queste parole, questo disprezzo… Gran Dio! Mi sono illuso. Allorchè mi privaste della vostra stima, voi avete dunque cessato di amarmi?

– Sì, signore, » rispos'ella, sforzandosi di parer tranquilla; « se faceste caso della mia stima, non mi avreste data questa nuova occasione di affanno. »

La fisonomia del giovane si alterò visibilmente, e l'ansietà del dubbio cedè alla sorpresa e allo scoraggiamento. Tacque alcun poco, poi disse:

« M'avevano lusingato di un'accoglienza molto diversa! È dunque vero, o Emilia, che ho perduto per sempre il vostro affetto? Debbo io dunque credere che la vostra stima non può essermi mai restituita, e che il vostro amore non può rinascere? Il conte ha meditato dunque questa crudeltà che mi dà una seconda volta la morte? »

L'accento con cui si esprimeva allarmò e sorprese molto Emilia. Tremante d'impazienza, gli disse che si spiegasse più chiaro.

« E perchè una spiegazione? Ignorate voi, » rispose Valancourt, « quanto la mia condotta fu calunniata? Ignorate voi che le azioni di cui mi credeste colpevole… E come poteste, o Emilia, degradarmi fino a questo punto nella vostra opinione?… Che queste azioni, le disprezzo e le abborro quanto voi? Ignorate voi che il conte ha scoperte le falsità che mi privavano dell'unico bene che mi sia caro al mondo; che mi ha invitato egli medesimo a venire a giustificarmi presso di voi? Lo ignorate voi, o son io ancora il trastullo d'una falsa speranza? »

Il silenzio di Emilia parea confermare questo timore; il giovane, nell'oscurità, non poteva distinguere la sorpresa e la gioia che la rendevano quasi immobile, incapace di parlare, un profondo sospiro parve sollevarla, e disse finalmente:

« Valancourt! Io ignorava tutto quel che mi avete detto. L'emozione ch'io sento n'è la prova. Io non poteva stimarvi più, ma non aveva ancora potuto riuscire a dimenticarvi.

– Qual felicità mi recan le vostre parole! Vi son dunque caro ancora, o mia Emilia?

– È forse necessario che io ve lo dica? Questo è il primo momento di gioia dopo la vostra partenza, e m'indennizza di tutto quello che ho sofferto. »

Valancourt sospirava, non poteva rispondere, bagnava di baci e lagrime le mani di lei, ed il suo pianto esprimeva assai meglio di qualunque più tenero linguaggio. La fanciulla, riavutasi alquanto, propose di tornar al castello. Allora, e per la prima volta, ricordossi che il conte avea invitato Valancourt a giustificarsi appo lei, e che nessuna spiegazione era avvenuta. Ma, a questa sola idea, il suo cuore respinse la possibilità che Valancourt fosse stato reo. I suoi sguardi, la voce, i modi erano il pegno della sua nobile e costante sincerità. Ella abbandonossi dunque senza ritegno al sentimento di una gioia non mai provata fin allora.

Nè Emilia, nè il giovane seppero come fossero tornati al castello: se un potere magico ve li avesse trasportati, forse ne avrebbero meglio notato il movimento; erano nel vestibolo prima d'accorgersi che esistesse qualcuno al mondo. Il conte venne loro incontro con tutta la franchezza e l'affabilità del suo carattere; accolse cordialmente Valancourt, e lo pregò di perdonargli la sua ingiustizia. Poco dopo Bonnac raggiunse quel gruppo felice, e Valancourt ed esso si abbracciarono con reciproca e tenera soddisfazione.

Dopo i primi complimenti, il conte ebbe una lunga conferenza col giovane, il quale si giustificò appieno. Confessò così ingenuamente i suoi torti, e ne mostrò tanto rammarico, che il conte ne concepì le più liete speranze. Valancourt era dotato delle più eminenti qualità: l'esperienza gli aveva insegnato a detestare tutte le follie che l'avevano sviato qualche momento; ed il conte, persuaso ch'esso avrebbe menato vita onesta, gli confidò alfine senza scrupolo la felicità della parente cui amava come sua figlia. Le rese conto in due parole del soggetto del loro colloquio; Emilia aveva già saputo tutto ciò che Valancourt aveva fatto per Bonnac, e versava in quel momento copiose lacrime di piacere e di tenerezza. Il colloquio del conte Villefort finì a dileguare tutti i suoi dubbi, ed ella restituì senza tema la sua stima e l'amor suo a colui che aveva saputo inspirarglieli.

L'arrivo del cavaliere di Santa-Fè, guarito dalle sue ferite, finì di spargere il brio e l'allegrezza in tutti gli abitanti del castello. Il povero Dupont volle scansar di gettare, colla sua presenza, qualche ombra di tristezza su tutta quella felice comitiva. Appena fu certo che Valancourt non era indegno di Emilia, pensò sul serio a guarire dalla sua passione, e partì. La di lui condotta, ben compresa dalla fanciulla, le ispirò pietà ed ammirazione insieme.

Quando Annetta seppe l'arrivo di Valancourt, Lodovico durò gran fatica a trattenerla; voleva correre nella sala ad esprimere tutta la sua gioia, assicurando che dopo il ritorno del suo caro Lodovico non aveva provato mai tanta consolazione.

Le nozze di Bianca e di Emilia furon celebrate nel medesimo giorno a Blangy con tutta la magnificenza. Le feste furono splendidissime: la sala grande era stata ornata d'un nuovo parato rappresentante Carlo Magno co' suoi dodici pari. Si vedevano i fieri Saraceni che si avanzavano in battaglia, e tutti gl'incanti ed il potere magico di Merlino. Le sontuose bandiere de' Villeroy, sepolte a lungo nella polvere, sventolarono di nuovo sulle torri gotiche del castello. La musica rimbombava da tutte le parti. Annetta ammirava tutte quelle feste, considerava la magnificenza degli abbigliamenti, le ricche livree dei servitori, i mobili di velluto ricamati in oro, ascoltava i lieti canti che facevan echeggiar le vôlte, e credevasi trasportata in un palazzo di geni e di fate. La vecchia Dorotea sospirava, e diceva che l'aspetto attuale del castello le rammentava tuttavia la sua gioventù.

Dopo aver per qualche giorno fatto l'ornamento delle feste, Emilia e Valancourt si congedarono dai loro buoni amici, e tornarono alla valle. Furono ricevuti dalla buona e fida Teresa con gioia sincera.

Le fresche ombre di quel luogo favorito parvero offrir loro gratamente le più care memorie. Percorrendo que' luoghi, soggiorno per tanto tempo de' suoi diletti genitori, Emilia mostrava con tenerezza allo sposo i luoghi ove solevan riposare, e la sua felicità pareale più dolce, pensando che entrambi l'avrebbero abbellita d'un sorriso.

Возрастное ограничение:
12+
Дата выхода на Литрес:
03 августа 2018
Объем:
170 стр. 1 иллюстрация
Правообладатель:
Public Domain

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