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Читать книгу: «I misteri del castello d'Udolfo, vol. 2», страница 8

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Il conte la trascinò in camera. « Perchè tanto spavento? » diss'egli con voce tremante. « Ascoltatemi, Emilia, io non vengo per farvi alcun male; no, giuro al cielo, vi amo troppo, senza dubbio pel mio riposo. »

Emilia lo guardò un momento coll'incertezza della paura. « Lasciatemi, signore, » gli disse, « lasciatemi dunque sul momento.

– Ascoltate, Emilia, » soggiunse Morano, « ascoltatemi: io vi amo, e sono disperato, sì, disperato. Come posso io guardarvi, forse per l'ultima volta e non provare tutte le furie della disperazione? Ma no, voi sarete mia a dispetto di Montoni, a dispetto di tutta la sua viltà.

– A dispetto di Montoni! » sclamò Emilia con vivacità. « O cielo! che sento mai?

– Che Montoni è un infame, » gridò Morano con veemenza, « un infame che vi vendeva al mio amore, che…

– E quello che mi comprava lo era egli meno? » diss'ella gettando sul conte un'occhiata sprezzante. « Uscite, signore, uscite sull'istante. » Poi soggiunse con voce commossa dalla speranza e dal timore, benchè sapesse di non poter essere intesa da nessuno: « Od io metterò sossopra tutto il castello, ed otterrò dal risentimento del signor Montoni ciò che implorai indarno dalla sua pietà.

– Non isperate nulla dalla sua pietà; egli mi ha tradito indegnamente: la mia vendetta lo perseguiterà da per tutto; e quanto a voi, Emilia, ha senza dubbio progetti più lucrosi del primo. »

Il raggio di speranza che le prime parole del conte avevano reso ad Emilia, fu quasi spento da queste ultime espressioni. La di lei fisonomia ne fu conturbata, e Morano procurò di trarne vantaggio. Ei disse:

« Io perdo il tempo, non venni per declamare contro Montoni, venni per sollecitare, per supplicare Emilia; venni per dirle tutto ciò che soffro, per iscongiurarla di salvarci amendue: me dalla disperazione e lei dalla rovina. Emilia, i progetti di Montoni son tali, che voi non potete concepirli; sono terribili, ve lo giuro. Fuggite, fuggite da quest'orrida prigione coll'uomo che vi adora. Un servo, guadagnato a forza d'oro, mi aprirà le porte del castello, e fra breve vi sarete sottratta da questo scellerato. »

Emilia era oppressa dal colpo terribile ricevuto nel mentre appunto rinascevale la speranza in cuore. Si vedeva perduta senza riparo. Incapace di rispondere e quasi di riflettere, si abbandonò sur una sedia, pallida e taciturna; era probabilissimo che in principio Montoni l'avesse venduta a Morano, ma era chiaro che in seguito avesse ritrattata la sua promessa, e la condotta del conte lo provava. Appariva eziandio che un progetto più vantaggioso aveva solo potuto decidere l'egoista Montoni ad abbandonare quel piano, che aveva sì vivamente sollecitato. Queste riflessioni la fecero fremere delle parole di Morano, ch'ella non esitava a credere. Ma mentre tremava all'idea delle sventure che l'attendevano nel castello di Udolfo, considerava che l'unico mezzo di uscirne era la protezione d'un uomo, col quale non potevano mancarle sciagure più certe e non meno terribili; mali in fine, di cui non poteva sostener il pensiero.

Il silenzio di lei incoraggì le speranze del conte, che l'osservava con impazienza; ei le prese la mano e scongiurala a decidersi. « Tutti gl'istanti di ritardo, » le disse, « rendono la partenza più pericolosa; i pochi momenti che noi perdiamo, possono dare a Montoni il tempo di sorprenderci.

– Per pietà, signore, non m'importunate » disse Emilia fiocamente; « io sono infelice, e debbo continuare ad esserlo. Lasciatemi, ve ne prego, lasciatemi al mio destino.

– Non mai, » gridò il conte con impeto; « io perirò piuttosto… ma perdonate questa violenza: l'idea di perdervi mi altera la ragione. Voi non potete ignorare il carattere di Montoni; ma potete ignorare i suoi progetti, sì, voi li ignorate certo, chè diversamente non esitereste fra l'amor mio ed il suo potere.

– Io non esito punto, » disse Emilia.

– Partiamo dunque, » soggiunse Morano baciandole la mano, ed alzandosi in fretta. « La mia carrozza ci aspetta sotto le mura del castello.

– V'ingannate, signore; vi ringrazio dell'interesse che prendete per la mia sorte, ma io resterò sotto la protezione del signor Montoni.

– Sotto la sua protezione! » sclamò violentemente Morano; « la sua protezione! Emilia, deh! non vi lasciate ingannare… Ve l'ho già detto quale sarebbe la sua protezione.

– Scusate se in questo momento non presto fede ad una semplice asserzione, e se esigo qualche prova.

– Non ho il tempo nè il mezzo di produrne.

– Ed io non avrò nessuna volontà di ascoltarle.

– Voi vi beffate della mia pazienza e delle pene mie, » continuò Morano; « un matrimonio coll'uomo che vi adora, è egli dunque così terribile ai vostri occhi? Preferite questa crudel prigionia? Oh! c'è qualcuno, per certo, che m'invola gli affetti che dovrebbero appartenermi, altrimenti non potreste ricusare un partito che può sottrarvi alla più barbara tirannide. » E correva smarrito su e giù per la camera.

– Il vostro discorso, conte Morano, prova abbastanza che i miei affetti non potrebbero appartenervi, » disse Emilia con dolcezza. « Questa condotta prova abbastanza ch'io sarei ugualmente tiranneggiata, caso fossi in vostro potere. Se volete persuadermi il contrario, cessate di molestarmi davvantaggio colla vostra presenza; se me lo negaste, mi obblighereste di esporvi alla collera del signor Montoni.

– Ma ch'ei venga! » sclamò Morano furibondo; « ch'ei venga! Ardisca provocare la mia! ardisca guardare in faccia l'uomo che ha così insolentemente oltraggiato! Gl'insegnerò io cosa sia la morale, la giustizia, e specialmente la vendetta! venga, ed io gl'immergerò la spada nel seno. »

La veemenza colla quale si esprimeva, divenne per Emilia un nuovo motivo d'inquietudine. Si alzò dalla sedia, ma le tremavano le gambe, e ricadde. Guardava attentamente la porta chiusa del corridoio, convincendosi di non poter fuggire senza esserne impedita.

« Conte Morano, » diss'ella finalmente, « calmatevi, ve ne scongiuro, ed ascoltate la ragione, se non la pietà. Voi v'ingannate egualmente nell'amore e nell'odio. Non potrò mai corrispondere all'affetto onde vi piaceste onorarmi, e certo io non l'ho mai incoraggito. Il signor Montoni non può avervi oltraggiato: sappiate ch'ei non ha diritto di disporre della mia mano, quand'anco ne avesse il potere. Lasciatemi, abbandonate questo castello, finchè potete farlo con sicurezza. Risparmiatevi le terribili conseguenze d'una vendetta ingiusta, ed il rimorso sicuro di aver prolungato i miei patimenti.

– Una vendetta ingiusta! » esclamò il conte riprendendo a un tratto la furia della passione. « E chi mai potrà vedere questo volto angelico, e credere un castigo qualunque proporzionato all'offesa che mi fu fatta? Sì, abbandonerò questo castello, ma non ne uscirò solo. La mia gente mi aspetta, e vi porterà alla mia carrozza; le vostre strida saranno inutili; nessuno può ascoltarle in questo luogo remoto. Cedete dunque alla necessità, e lasciatevi condurre.

– Conte Morano, » diss'ella alzandosi, e respingendolo mentre si avanzava, « io sono adesso in poter vostro, ma riflettete che una simile condotta non può acquistarvi la stima di cui pretendete esser degno. »

Qui fu interrotta dal brontolìo del suo cane, che saltò giù dal letto per la seconda volta; Morano guardò verso la scala, e, non vedendo alcuno, chiamò ad alta voce Cesario.

« Emilia, » le disse, in seguito, « perchè mi obbligate ad usar questo mezzo? Oh! quanto desidererei persuadervi, anzichè obbligarvi ad essere la mia sposa! Ma giuro al cielo che Montoni non vi venderà ad un altro. Intanto verrete meco. Cesario, Cesario!… »

Un uomo comparve. Emilia gettò un alto strido, mentre il conte la trascinava. In quel punto s'intese rumore all'uscio del corridoio. Il conte si fermò, come esitante tra l'amore e la vendetta; l'uscio si aprì, e Montoni, seguito dal vecchio intendente e da parecchi altri, entrò precipitoso nella camera dicendo: « Ah traditore! pagherai il fio del tuo infame attentato; in guardia! »

Il conte non aspettò una seconda sfida; consegnò Emilia a Cesario, e voltosi con fierezza: « Sono da te, infame, » gridò egli menandogli un colpo da disperato. Montoni si difese valorosamente, ma furono separati dai seguaci, mentre Carlo strappava Emilia alla gente di Morano.

« È per questo, » disse Montoni con ironia, « è per questo ch'io vi riceveva nel mio tetto, e vi permetteva di passarvi la notte? Voi adunque veniste a ricompensar la mia ospitalità con un indegno tradimento, e per involarmi mia nipote?

– Che chi parla di tradimento, » rispose Morano con rabbia concentrata, « osi mostrarsi senza arrossire. Montoni, voi siete un infame; se qui c'è tradimento, voi solo ne siete l'autore.

– Ah vile! » gridò l'altro sciogliendosi da chi lo tratteneva e correndo addosso al conte. Uscirono dalla porta del corridoio. Il combattimento fu così furioso, che nessuno ardì avvicinarsi. Montoni, d'altra parte, giurava di trafiggere il primo che si fosse frapposto. La gelosia e la vendetta aumentavano la rabbia e l'acciecamento di Morano. Montoni, più padrone di sè stesso, ed abilissimo, ebbe il vantaggio, e ferì l'avversario; ma questi parendo insensibile al dolore e alla perdita del sangue, seguitò a battersi, e piagò Montoni leggermente nel braccio, ma nell'istesso momento toccò una larga ferita, e cadde in braccio a Cesario. Montoni, appoggiandogli la spada al petto, voleva obbligarlo a chieder la vita. Morano potè appena replicare con un gesto ed una parola negativa, e svenne. L'altro stava per trafiggerlo, ma Cavignì gli trattenne il braccio: cedette però con molta difficoltà, e vedendo l'avversario rovesciato, ordinò di trasportarlo all'istante fuori del castello.

Emilia, che non aveva potuto uscire dalla camera durante lo spaventoso tumulto, entrò nel corridoio, e patrocinando con coraggio la causa dell'umanità, supplicò Montoni di accordare a Morano, nel castello, i soccorsi che esigeva il suo stato. Montoni, il quale non ascoltava quasi mai la pietà, parea in quel momento sitibondo di vendetta. Colla crudeltà d'un mostro ordinò per la seconda volta che il suo vinto nemico fosse trasportato subito fuori del castello nello stato in cui si trovava. Quei dintorni, coperti di boschi, offrivano appena una capanna solitaria da passarvi la notte. I servi del conte dichiararono che non l'avrebbero mosso di lì, finchè non avesse dato almeno qualche segno di vita. Quelli di Montoni stavano immobili, e Cavignì faceva invano rimostranze: la sola Emilia, non badando a minacce, portò acqua a Morano, e ordinò agli astanti di fasciargli le ferite. Montoni, sentendo finalmente qualche dolore alla sua, si ritirò per farsi medicare.

In quell'intervallo, il conte rinvenne. Il primo oggetto che lo colpì, aprendo gli occhi, fu Emilia chinata su di lui coll'espressione della massima inquietudine. Egli la contemplò dolorosamente.

« L'ho meritato, » diss'egli, « ma non da Montoni. Io meritava d'esser punito da voi, e ne ricevo invece pietà. » Dopo qualche pausa soggiunse: « Bisogna ch'io vi abbandoni, ma non a Montoni. Perdonatemi i dispiaceri che vi cagionai. Il tradimento di quell'infame non resterà impunito.... Non sono in istato di camminare, ma poco importa: portatemi alla capanna più prossima. Non passerei la notte in questo luogo, quand'anco fossi certo di morire nel breve tragitto che dovrò fare. »

Cavignì propose di andare ad uniformarsi se vi fosse nelle vicinanze qualche abituro, prima di levarlo di là, ma il conte era troppo impaziente di partire. L'angoscia del suo spirito sembrava ancor più violenta del patimento della ferita. Rigettò sdegnosamente la proposta di Cavignì, nè volle che si ottenesse per lui il permesso di passar la notte nel castello. Cesario voleva far venir innanzi la carrozza, ma Morano glielo proibì. « Non potrei sopportarla, » diss'egli; « chiamate i miei servitori: essi mi trasporteranno sulle braccia. »

Finalmente, calmandosi alquanto, acconsentì che Cesario andasse prima in cerca di un ricetto. Emilia, vedendolo risensato, si disponeva ad uscire, quando Montoni glie l'ordinò per mezzo d'un servo, aggiungendo che se il conte non era partito, dovesse allontanarsi immediatamente. Gli sguardi di Morano sfavillarono di sdegno, e si fece di fuoco.

« Dite a Montoni, » soggiunse, « che me n'andrò quando mi converrà. Lascerò questo castello ch'esso chiama il suo, come si lascia il nido di un serpente; ma non sarà l'ultima volta che udrà parlar di me. Ditegli che, per quanto potrò, non gli lascerò un altro omicidio sulla coscienza.

– Conte Morano, sapete voi bene quel che dite? » disse Cavignì.

– Sì, lo so benissimo, ed egli intenderà ciò ch'io voglio dire. La sua coscienza, su questo punto, seconderà la sua intelligenza.

– Conte Morano, » disse Verrezzi, che fin allora stava zitto, « se ardite insultare ancora il mio amico, v'immergo la spada nel cuore.

– Sarebbe azione degna dell'amico d'un infame, » disse Morano, e la violenza dello sdegno lo fe' sollevare dalle braccia de' servi; ma la di lui energia fu momentanea, e ricadde spossato. La gente di Montoni tratteneva Verrezzi, il quale pareva disposto a compiere la sua minaccia. Cavignì, meno irritato di lui cercava di farlo uscire, Emilia, trattenuta fin allora dalla compassione, stava per ritirarsi, quando la voce di Morano l'arrestò. Le fe' cenno di avvicinarsi. Ella si avanzò timidamente, ma il languore che sfigurava la faccia del ferito, eccitò la di lei pietà.

« Vi lascio per sempre, » ei le disse; « forse non vi vedrò più. Vorrei portar meco il vostro perdono, e, se non fossi troppo importuno, ardisco chiedere la vostra benevolenza.

– Ricevete questo perdono, » disse Emilia, « coi voti più sinceri per la vostra pronta guarigione. »

Scongiuratolo quindi ad uscir tosto dal castello, recossi dallo zio. Egli era nel salotto di cedro su di un sofà, e soffriva molto della sua ferita, ma la sopportava con gran coraggio.

Emilia tremava nell'avvicinarsegli; ei la rampognò forte per non aver obbedito subito, e attribuì a capriccio la di lei pietà pel ferito.

La fanciulla, punta da quelle oltraggiose parole, non rispose.

In quella Lodovico entrò nella stanza, riferendo che trasportavano Morano su d'una materassa ad una capanna poco distante. Montoni parve placarsi, e disse ad Emilia che poteva tornare alla sua camera. Ella andossene volentieri; ma l'idea di passar la notte in una stanza che poteva esser aperta a tutti, le fece allora più spavento che mai. Risolse di andare da sua zia a chiederle il permesso di condur seco Annetta.

Nell'avvicinarsi alla galleria, udì voci di persone che parevano altercare; riconobbe ch'erano Cavignì e Verrezzi; quest'ultimo protestava di voler andare ad informar Montoni dell'insulto fattogli da Morano. Cavignì parea cercar di calmarlo.

« Non si deve badare, » diceva egli, « alle ingiurie d'un uomo in collera; la vostra ostinazione sarà funesta al conte ed a Montoni; noi abbiamo ora interessi molto più seri da discutere. »

Emilia unì le sue preghiere alle ragioni di Cavignì, e riuscirono in fine a distoglier Verrezzi dal suo progetto.

Entrata dalla zia, la di lei calma le fece credere che ignorasse l'accaduto; volle raccontarglielo con cautela; ma la zia l'interruppe dicendole che sapeva tutto. Benchè Emilia sapesse benissimo ch'ella aveva poche ragioni per amare il marito, pur non la credeva capace di tanta indifferenza. Ottenne il permesso di condur seco Annetta, e si ritirò subito. Una striscia di sangue, rigando il corridoio, conducea alla sua stanza, e nel luogo del combattimento il suolo erane tutto coperto. La fanciulla tremò, ed appoggiossi alla cameriera nel passarvi. Giunta in camera, volle esaminare dove mettesse la scala, dipendendo molto la sua sicurezza da questa circostanza. Annetta, curiosa e spaventata insieme, acconsentì al progetto; ma nell'avvicinarsi alla porta, la trovarono chiusa al di fuori, talchè dovettero accontentarsi di assicurarla nell'interno, appoggiandovi i mobili più pesanti che poterono smovere. Emilia andò a letto, e la cameriera si mise sur una sedia presso al camino, ove fumava ancora qualche tizzone.

CAPITOLO XXI

Fa duopo riferir ora qualche circostanza di cui l'improvvisa partenza da Venezia e la rapida sequela di casi susseguiti nel castello non ne concessero d'occuparci.

La mattina istessa di quella partenza, Morano, all'ora convenuta, andò a casa Montoni per ricevere la sposa. Fu sorpreso non poco dal silenzio e dalla solitudine de' portici, pieni al solito di servitori; ma la sorpresa fece luogo immediatamente al colmo dello stupore ed alla rabbia, allorchè una vecchia aprì la porta, e disse che il suo padrone e tutta la famiglia erano partiti di buonissim'ora da Venezia per andare in terraferma. Non potendolo credere, sbarcò dalla gondola e corse nella sala ad informarsi più minutamente dalla vecchia, la quale persistè nella sua asserzione, e la solitudine del palazzo lo convinse della verità. L'afferrò pel braccio, e parve volesse sfogare sulla poveretta la bile che l'ardea. Le fece mille interrogazioni in una volta, accompagnati da gesti così furibondi, che colei, spaventatissima, non fu in grado di rispondergli. La lasciò, e si mise a scorrere il portico e i cortili come un insensato, maledicendo Montoni e la propria dabbenaggine.

Quando la donna si fu riavuta dal terrore, gli raccontò quanto sapeva; per verità era poco, ma bastò a far comprendere a Morano come Montoni fosse andato al suo castello degli Appennini. Ei ve lo seguì tostochè la sua gente ebbe fatti i necessari preparativi, accompagnato da un amico e da numerosa servitù. Era deciso di ottenere Emilia, o sacrificare Montoni alla sua vendetta. Quando si fu alquanto calmato, la coscienza gli rammentò alcune circostanze che spiegavano abbastanza la condotta di Montoni. Ma in qual modo quest'ultimo avrebbe mai potuto sospettare un'intenzione ch'egli solo conosceva, e che non poteva indovinare? Su questo punto però era stato tradito dall'intelligenza simpatica che esiste, per così dire, fra le anime poco delicate, e fa giudicare ad un uomo ciò che deve fare un altro in una data circostanza. Così infatti era accaduto a Montoni. Aveva alfine acquistata la certezza di quanto già sospettava: che la sostanza, cioè, del conte Morano, invece di esser ragguardevole, come l'aveva creduto in principio, era al contrario in cattivissimo stato. Montoni avea favorito le sue pretese sol per motivi personali, per orgoglio, per avarizia. La parentela d'un nobile veneziano avrebbe sicuramente soddisfatto il primo, e l'altro speculava sui beni di Emilia di Guascogna, che doveangli esser ceduti il giorno stesso delle nozze. Aveva già concepito qualche sospetto per le sregolatezze del conte, ma non aveva acquistata la certezza della di lui rovina, se non la vigilia del matrimonio. Non esitò dunque a concludere che Morano lo ingannava per certo sull'articolo dei beni di Emilia, e questo dubbio confermossi, quando, dopo aver convenuto di firmare il contratto la notte medesima, il conte mancò alla sua parola. Un uomo così poco riflessivo, così distratto come Morano, nel momento in cui s'occupava delle sue nozze, aveva facilmente potuto mancare all'impegno senza malizia; ma Montoni interpretò l'incidente secondo le proprie idee. Dopo avere aspettato un pezzo, egli aveva ordinato a tutta la sua famiglia di star pronta al primo cenno. Affrettandosi di arrivare al castello d'Udolfo, voleva sottrarre Emilia a tutte le ricerche di Morano, e sciogliersi dall'impegno senza esporsi ad alterchi. Se il conte, al contrario, non avesse avuto che pretese onorevoli, com'ei le chiamava, avrebbe certamente seguito Emilia, e firmata la cessione concertata. A questo patto Montoni l'avrebbe sacrificata senza scrupolo ad un uomo rovinato, all'unico scopo di arricchir sè medesimo. Si astenne nullameno dal dirle una sola parola sui motivi di quella partenza, temendo che un'altra volta un barlume di speranza non la rendesse indocile ai suoi voleri.

Fu per tai considerazioni ch'era partito improvvisamente da Venezia; e, per motivi opposti, Morano eragli corso dietro attraverso i precipizi dell'Appennino. Allorchè seppe il di lui arrivo, Montoni, persuaso che venisse ad adempire la sua promessa, si affrettò di riceverlo; ma la rabbia, le espressioni ed il contegno di Morano lo disingannarono tosto. Montoni spiegò in parte le ragioni della sua improvvisa partenza; e il conte, persistendo a chiedere Emilia, colmollo di rimproveri senza parlare dell'antico patto.

Il castellano finalmente, stanco della disputa, ne rimise la conclusione alla domane, e Morano si ritirò con qualche speranza sull'apparente di lui perplessità; quando però, nel silenzio della notte, si rammentò il loro colloquio, il di lui carattere e gli esempi della sua doppiezza, la poca speranza che conservava l'abbandonò, e risolse di non perder l'occasione di possedere Emilia in altro modo. Chiamò il suo confidente, gli comunicò il proprio disegno, e l'incaricò di scoprire fra i servi del castello qualcuno che volesse prestarsi a secondare il ratto di Emilia: se ne rimise in tutto alla scelta e prudenza del suo agente, e non a torto, poichè questi non tardò a trovar un uomo stato recentemente trattato con rigore da Montoni, e che non pensava se non a tradirlo. Costui condusse Cesario fuori del castello, e per un passaggio segreto l'introdusse alla scala, gl'indicò una via più corta, e gli diede le chiavi che potevano favorirne la ritirata; fu anticipatamente ben ricompensato, ed abbiamo veduto qual riuscita ebbe l'attentato del conte.

Il vecchio Carlo, frattanto, aveva sorpreso due servitori di Morano, i quali avendo avuto ordine di aspettare colla carrozza fuori del castello, comunicavansi la loro maraviglia sulla partenza improvvisa e segreta del padrone. Il cameriere non aveva lor confidato, del progetto di Morano, se non ciò ch'essi dovevano eseguire; ma i sospetti eran destati, e Carlo ne trasse il miglior partito. Prima di correre da Montoni, procurò di raccogliere altre notizie, ed a tal uopo, accompagnato da un altro servo, si pose in agguato alla porta del corridoio della camera di Emilia; nè vi restò indarno, giacchè, poco dopo, sentì giunger Morano, ed essendosi accertato de' suoi progetti, corse ad avvertire il padrone, contribuendo così ad impedire il ratto.

Montoni, il giorno dopo, col braccio al collo, fece il solito giro delle mura, visitò gli operai, ne fece aumentare il numero, e tornò al castello, ov'era aspettato da nuovi ospiti. Li fe' venire in un appartamento separato, e Montoni restò chiuso seco loro per quasi due ore. Chiamato poscia Carlo, gli ordinò di condurre i forestieri nelle stanze destinate agli uffiziali della casa, e di farli immediatamente rifocillare.

Frattanto il conte giacea in una capanna della foresta, oppresso da doppio patimento, e meditando una terribil vendetta. Il servo di lui, spedito al villaggio più vicino, non tornò che il dì dopo con un chirurgo, il quale non volle spiegarsi sul carattere della ferita, e volendo prima esaminare i progressi dell'infiammazione, gli amministrò un calmante, e restò con lui per giudicarne gli effetti.

Emilia potè nel resto di quella notte riposare un poco. Destandosi, si rammentò che finalmente era stata liberata dalle persecuzioni di Morano, e si sentì sollevata in gran parte da' mali che l'opprimevano da tanto tempo. L'affliggevano ancora però i sospetti esternatile dal conte sulle mire di Montoni: egli aveva detto che i suoi progetti erano impenetrabili, ma terribili. Per iscacciarne il pensiero, cercò le sue matite, si affacciò alla finestra, e contemplò il paese per iscegliervi una bella veduta.

Così occupata, riconobbe sui bastioni gli uomini giunti di fresco nel castello. La vista di quegli stranieri la sorprese, ma ancor più il loro esteriore: avevano essi una singolarità di vestiario, una fierezza di sguardi, che cattivarono la di lei attenzione. Si ritirò dalla finestra mentr'essi vi passavano sotto, ma vi si riaffacciò tosto per osservarli meglio. Le loro fisonomie accordavansi così bene coll'asprezza di tutta la scena, che, mentre esaminavano il castello, li disegnò come banditi nella sua veduta.

Carlo, avendo procurato a coloro i rinfreschi necessari, tornò da Montoni, il quale voleva scoprire il traditore da cui, la notte precedente, Morano aveva ricevute le chiavi; ma Carlo, troppo fedele al suo padrone per soffrire che gli nuocessero, non avrebbe però denunziato il camerata, neppure alla giustizia. Accertò che l'ignorava, e che il colloquio de' servi del conte non gli avea svelato altro che la trama. I sospetti di Montoni caddero naturalmente sul guardaportone, e lo fece venire. Bernardino negò con tanta audacia, che lo stesso Montoni dubitò della sua reità, senza poterlo credere innocente; infine lo rimandò, talchè sebben fosse il vero autore del complotto, ebbe l'arte di sfuggire ad un severo castigo.

Montoni recossi dalla moglie, ed Emilia non tardò a raggiungerli; essa li trovò in una violenta contesa e voleva ritirarsi, ma la zia la richiamò.

« Voi sarete testimone, » diss'ella, « della mia resistenza. Ora ripetete, o signore, il comando al quale ho tante volte ricusato d'obbedire. »

Egli ordinò severamente alla nipote di ritirarsi. La zia insistè perchè restasse. Emilia desiderava sfuggire alla scena di quell'alterco; voleva servire la zia, ma disperava di calmare Montoni, nei cui sguardi dipingeasi a tratti di fuoco la tempesta dell'anima.

« Uscite, » gridò egli infine con voce tuonante, Emilia obbedì, e andò sul bastione, dove non erano più gli stranieri. Meditando sull'infelice unione fatta dalla sorella di suo padre, e sull'orrore della propria situazione, cagionata dalla ridicola imprudenza della zia, avrebbe voluto rispettarla quant'erale affezionata; ma la condotta della Montoni aveaglielo sempre reso impossibile. La pietà però che sentiva pel cordoglio di quella infelice, le faceva obliare i torti dei quali poteva accusarla.

Mentre passeggiava così sul bastione, comparve Annetta, che, guardando intorno con cautela, le disse:

« Mia cara padroncina, vi cerco dappertutto; se volete seguirmi, vi farò vedere un quadro.

– Un quadro! » sclamò ella fremendo.

– Sì, il ritratto dell'antica padrona del castello. Il vecchio Carlo mi ha or detto ch'era dessa, e pensai farvi cosa grata conducendovi a vederla: quanto alla signora, voi sapete che non si può parlargliene.

– E perciò tu ne parli con tutti.

– Sì, signora; cosa farei qui, se non potessi parlare? Se fossi in un carcere, e mi lasciassero chiaccherare, sarebbe almeno una consolazione: sì, vorrei parlare, quand'anco fosse ai muri. Ma venite, non perdiamo tempo: bisogna che vi mostri il quadro.

– È forse coperto da un velo? » disse Emilia dopo una pausa; « non ho nessuna voglia di vederlo.

– Come! signora Emilia, non volete vedere la padrona del castello, quella signora che sparve così stranamente? Quanto a me, avrei traversate tutte le montagne per veder il ritratto. A dirvi il vero, questo racconto singolare mi fa fremere al solo pensarvi, eppure è l'unica cosa che m'interessa.

– Sei tu poi certa che è un quadro? l'hai tu veduto? È coperto da un velo?

– Buon Dio! sì, no e sì: son certa che è un quadro. L'ho veduto, e non è coperto da alcun velo. »

L'accento e l'aria di sorpresa con cui Annetta rispose, rammentarono ad Emilia la sua prudenza, e con un sorriso forzato, dissimulando la commozione, acconsentì ad andar a vedere il ritratto posto in una stanza oscura attigua al tinello.

« Eccolo qua, » disse Annetta piano, mostrandole il quadro. Emilia l'osservò, e vide che rappresentava una signora nel fior dell'età e della bellezza. I lineamenti n'erano nobili, regolari e pieni d'una forte espressione, ma non di quella seducente dolcezza che avrebbe voluto trovarvi Emilia, nè di quella tenera melanconia che tanto l'interessava.

« Quant'anni sono scorsi, » disse Emilia, « dacchè è sparita questa signora?

– Venti anni circa, a quel che dicono. »

La fanciulla continuò ad esaminare il ritratto.

« Io penso, » ripigliò Annetta, « che il signor Montoni dovrebbe situarlo in una camera più bella. A parer mio, il ritratto della signora, della quale ha ereditate le ricchezze, dovrebbe stare nell'appartamento nobile. In verità, era una bella donna, ed il padrone potrebbe, senza vergognarsi, farlo portare nel grand'appartamento dove c'è il quadro velato. (Emilia si volse). È vero che non lo si vedrebbe meglio: ne trovo sempre chiusa la porta.

– Usciamo, » disse Emilia; « lascia, Annetta, che torni a raccomandartelo; procura di esser riservatissima nei tuoi discorsi, e non far sospettare che tu sappia la minima cosa, a proposito di quel quadro.

– Santo Dio, non è già un segreto: tutti i servitori lo hanno veduto più volte.

– Ma come può essere? » disse Emilia sussultando; « veduto! quando? come?

– Non c'è nulla di sorprendente: già noi siam tutti un pochetto curiosi.

– Ma se mi dicesti che la porta era chiusa?

– Se così fosse, come avremmo potuto entrare? » E guardava da per tutto.

– Ah! tu parli di questo quadro qui, » disse Emilia calmandosi. « Vieni, Annetta. Non vedo altro degno d'attenzione. Andiamo via. »

Avviandosi alla sua stanza, essa vide Montoni scendere nella sala, e tornò nel gabinetto di sua zia, cui trovò sola e piangente. Il dolore e il risentimento lottavano sulla sua fisonomia. L'orgoglio aveva trattenuto fin allora le sue doglianze. Giudicando Emilia da sè medesima, e non potendo dissimulare ciò che si meritava da lei l'indegnità del suo trattamento, credeva che i suoi affanni avrebbero eccitata la gioia della nipote, anzichè qualche simpatia. Credeva che la disprezzerebbe, nè avrebbe, per lei la minima compassione; ma conosceva assai male la bontà di Emilia.

Le pene vinsero finalmente l'orgoglioso carattere. Quando Emilia era entrata la mattina nelle sue stanze, le avrebbe svelato tutto, se il marito non l'avesse prevenuta; ed or che la di lui presenza non glielo impediva, proruppe in amari lamenti.

« O Emilia, » esclamò ella, « io sono la donna più infelice! Vengo trattata in un modo barbaro! Chi l'avrebbe preveduto, quando aveva dinanzi a me una sì bella prospettiva, che proverei un destino così terribile? Chi avrebbe creduto, allorchè sposai un uomo come Montoni, che mi sarei avvelenata la vita? Non c'è mezzo d'indovinare il miglior partito da prendere; non ve n'ha per riconoscere il vero bene. Le speranze più lusinghiere c'ingannano, ingannando così anche i più saggi. Chi avrebbe preveduto, quando sposai Montoni, che mi pentirei così presto della mia generosità? »

Возрастное ограничение:
12+
Дата выхода на Литрес:
03 августа 2018
Объем:
160 стр. 1 иллюстрация
Правообладатель:
Public Domain

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