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Читать книгу: «Storia dei musulmani di Sicilia, vol. II»

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LIBRO TERZO

CAPITOLO I

Al contrario della stanca società bizantina che sgombrava di Sicilia, la musulmana che le sottentrò, portava in seno elementi di attività, progresso e discordia. Nel primo Libro, toccammo gli ordini generali dei Musulmani, e come si assettarono in Affrica. Or occorre divisare più distintamente alquanti capitoli di lor dritto pubblico, e l'applicazione che sortirono appo la colonia siciliana.

Farem principio dal reggimento politico. Il dispotismo che prevalse con la dinastia omeîade, e si aggravò con l'abbassida, non era bastato ad opprimere le due aristocrazie, gentilizia e religiosa, tanto che non prendessero parte, secondo lor potere, alla cosa pubblica. Fecerlo in due modi; cioè con la interpretazione dottrinale della legge, e con lo smembramento dello impero: a che si è accennato, trattando dell'Affrica.1 Secondo le teorie distillate per man dei dottori,2 dagli eterogenei elementi della legge musulmana, lo impero, era ormai, in dritto e in fatto, debole federazione di Stati, impropriamente chiamati province. Troviamo in Mawerdi, egregio pubblicista del decimo secolo, doversi tenere lo emir di provincia come delegato della repubblica musulmana, non del califo.3 Ei veramente esercitava tutta l'autorità sovrana, fuorchè la interpretazione decisiva dei dommi.4 Allo emir di provincia era dato:

Ordinare lo esercito, distribuire le forze nei luoghi opportuni, e fissare gli stipendii militari, quando non lo avesse già fatto il califo;

Vegliare all'amministrazione della giustizia ed eleggere i câdi e gli hâkem, magistrati simili al câdi nelle città minori;

Riscuotere tutte le entrate pubbliche, pagar chi di dritto su quelle, ed eleggerne gli amministratori;

Difendere la religione e la società;

Applicare le pene ad alcuni misfatti, nei limiti che appresso si descriveranno;

Presedere alle preghiere pubbliche, in persona o per delegati;

Avviare e sovvenire i pellegrini della Mecca;

E, se la provincia stesse in su i confini, far la guerra ai vicini infedeli, scompartire il bottino ai combattenti e serbarne la quinta a chi appartenesse.5

Il popolo, dunque, di una parte del territorio musulmano costituita in provincia e governata da un emiro, non riconosceva il califo nè come legislatore nè com'esecutor della legge; non vedeva altra autorità che dello emiro; e costui, alla sua volta, non era tenuto ubbidire che alla legge ed alla propria coscienza; nè dovea rispettare il fatto del principe, fuorchè nel caso degli stipendii militari già determinati da esso. Il principe eleggeva e rimovea d'oficio l'emiro, come il câdi, senza poter dettare all'uno i provvedimenti, nè all'altro i giudizii; talchè tutta la amministrazione civile, militare, ecclesiastica e giudiziale si conducea come in oggi quella sola della giustizia negli Stati di Europa che abbiano magistrati amovibili ad arbitrio. Bene o male, era conseguenza logica della teocrazia. Se avvenia che il califo sforzasse lo emiro ad alcun provvedimento con minaccia di deposizione, ciò non costituiva norma d'ordine pubblico; era abuso di chi comandava e viltà di chi obbediva. Similmente il califo celava, quasi fosse colpa, la vigilanza sua sopra lo emiro, affidandola al direttor della posta.6 Alla effettiva autorità rispondeano le apparenze, e in particolare la cerimonia della inaugurazione, nella quale si prestava giuramento all'emiro non altrimenti che al califo.7 La moneta, nei primi due secoli dell'islamismo, si coniava spesso col solo nome dell'emiro, per esempio di Heggiâg-ibn-Iûsuf in Irak, di Mûsa-ibn-Noseir in Affrica e Spagna, e di Ibrahim-ibn-Aghlab in Affrica.8 Sì larga essendo la potestà legale del governator di provincia e impossibile di tarparla nei paesi lontani dalla metropoli, e stanziando in quelli la nobiltà armata, ognun vede con che agevolezza le province si poteano spiccar dall'impero, sol che le milizie parteggiassero per l'emiro; nel qual caso tornava inefficace la sola ragione lasciata al califo, cioè dargli lo scambio. Così nacquero le dinastie dei Taheriti in Persia, degli Aghlabiti in Affrica, dei Tolûnidi in Egitto e non poche altre. Cotesti novelli principi alla lor volta, se mandavano emiri nelle province conquistate, si trovavano rispetto a quelli nelle medesime condizioni e peggiori, che i califi verso di loro; non avendo la dignità del pontificato, nè distinguendosi pur nel titolo dai governatori delle proprie colonie.

Le esposte norme di dritto pubblico si osservarono in Sicilia, infino ai tempi del tiranno Ibrahim-ibn-Ahmed, e se alcuno le trasgredì, furono i coloni più tosto che il principe. Gli emiri dell'isola facean da sè paci e accordi e scompartivano il bottino, a quanto si può spigolare tra gli aridi annali musulmani; nè si trovan vestigie di comando esercitato in Sicilia dai principi d'Affrica. Il titolo dell'oficio or si legge emîr, or wâli, e, nei primordii della colonia, sâheb; la qual voce par che denotasse il fatto d'una insolita autorità, e quasi independente, come dicemmo nel secondo Libro.9 Men precisi indizii troviamo nelle monete. Tra le poche che ce ne avanzano degli Aghlabiti, due di argento portano il nome dello emiro siciliano insieme e del principe aghlabita, date di Sicilia il dugentoquattordici e il dugentoventi. Poi ne occorre una anche d'argento, del dugento trenta, ove leggonsi i simboli religiosi, il motto di casa d'Aghlab e la data di Palermo, senza nome nè dell'emiro nè del principe. In ultimo, un quarteruolo d'oro del dugentotrentatrè senza il nome della Sicilia nè del principe, ha ben quel dello emiro con la formola religiosa e il motto aghlabita. Di lì alla fine della dinastia, qualche moneta che si crede siciliana dalla fattura, senza che vi si legga Sicilia nè Palermo, offre il sol nome del principe Affricano.10 Da ciò si può conchiudere di certo che i primi emiri coniassero moneta; ma non che i successori non ne coniassero. D'altronde lo esercizio di tal dritto, che sarebbe assai significativo trattandosi di reami cristiani, poco monta negli Stati musulmani dei primi cinque secoli dell'egira, quando i califi lasciavan correre nelle monete, come dicemmo, il nome degli emiri di provincia; e i veri principi che sottentrarono ai califi ne lasciaron correre il nome; sì che passò in proverbio “è rimasa al tale la Khotba e la zecca” per significare un titolo senza potestà.11

Oltre la piena autorità esercitata dagli emiri di Sicilia, è da notar che sovente i coloni non aspettaron licenza dall'Affrica per rifar l'emiro, quando fosse venuto a morte, e sovente anco scacciarono gli eletti o confermati dal principe;12 appunto com'era avvenuto in Spagna avanti il califato di Cordova, e in Affrica avanti gli Aghlabiti. A così fatta usurpazione li spingea l'assioma che lo emiro rappresentasse non il principe, ma il popolo musulmano; e altresì la dubbia sovranità degli Aghlabiti, e la consuetudine allo esercizio di un dritto anteriore all'islamismo e non abrogato: cioè che tutta associazione di Arabi, grande o picciola, tribù o circolo, sempre scegliesse il proprio capo.

Le altre parti del civile ordinamento non occorre descrivere minutamente; sendo notissime, nè molto diverse da paese a paese. Con l'emiro pochi magistrati eran preposti alla esecuzione della legge. Cominciando dall'amministrazione della giustizia, si vedrà questa intralciata e sovente arbitraria. Decidea sempre un sol giudice; prendendo avviso legale da' muftî, assessori come noi diremmo. V'era un sol grado di giurisdizione; e quattro maniere di giudici con mal definita competenza. Primo giudice criminale il principe o l'emiro,13 che poteva applicar le pene scritte testualmente nel Corano e non altre; ma al contrario, nella istruzione del processo, gli era lecito lo arbitrio che si negava al câdi. Nei misfatti di dritto divino14 l'emiro decideva o delegava la causa; quei di dritto umano15 eran conosciuti da lui o dal câdi, a chi si rivolgessero gli offesi.16 L'emiro poteva alzar poi un tribunale straordinario chiamato dei mezâlim o diremmo noi de' soprusi, ov'ei sedea coi câdi, hâkim, giuristi, segretarii, testimonii e guardie; e sì decidea, con procedura eccezionale, su i richiami per casi qualunque, criminali, amministrativi e anche civili, quando la potenza dell'accusato avesse tolto all'offeso d'ottenere giustizia ne' modi soliti.17 Independente dallo emiro, il câdi nelle città maggiori e lo hâkim nelle altre, esercitava quella tutela delle persone incapaci e opere pie che appo noi va attribuita al pubblico ministero; e inoltre giudicava tutte cause civili e le criminali che richiedessero interpretazione di legge o fossero delegate dall'emiro; fuorchè le cause civili e criminali di minor momento, alle quali era preposto il mohtesib.18 I parenti del profeta aveano magistrato speciale.19 Infine il mohtesib esercitava la giurisdizione meramente esecutiva nelle cose civili, e nelle criminali quella che potremmo chiamare correzionale, se esattamente rispondesse alla definizione dei nostri codici; e al medesimo tempo era oficiale di polizia urbana ed ecclesiastica; vegliava ai mercati; alla giustezza dei pesi e delle misure; allo esercizio delle arti liberali o arti meccaniche o commercii, sì che non nocessero ai cittadini.20

Dopo ciò, poco rimane a dire dell'amministrazione civile: della quale dapprima ebbe carico il mohtesib; ma l'oficio in alcuni Stati fu diviso, con diversi nomi; e rimase quel di mohtesib al preposto dei mercati.21 La sicurezza pubblica, o sicurezza del despotismo, fu affidata, nelle capitali, a un prefetto chiamato per lo più sâheb-es-sciorta,22 del quale v'ha ricordo negli annali della Sicilia musulmana;23 e il nome rimase per lo meno infino al decimoterzo secolo, quando i capitoli del Regno di Sicilia chiamano Surta le pattuglie di polizia.24 Il mohtesib, o come che si addimandasse, partecipava alle cure edilizie insieme col magistrato municipale propriamente detto, com'oggi l'intendiamo.

Scarsi quanto siano i ricordi che ci avanzan di cotesta parte di civile reggimento negli Stati musulmani del medio evo, pur non cade in dubbio la esistenza dei corpi municipali. Generalmente si appellavano gemâ', che suona adunanza; come sappiamo del Kairewân sotto gli Aghlabiti;25 di tutte le città d'Affrica nei primordii della dinastia fatemita26; del califato abbassida nel decimo secolo,27 e fino ai nostri giorni delle cittadi e tribù dell'Affrica settentrionale.28 Questo ordine, non istituito da legge scritta, era appunto novella forma del gran consiglio di tribù e di circolo, di che parlammo nelle istituzioni aborigene degli Arabi: e in vero non si potrebbe comprendere che i nomadi, fatti cittadini, avessero disusato quell'ordinamento, quando il novello lor modo di vivere lo rendea sì necessario, se non per trattare le cose politiche, certo per provvedere, con mezzi e volontà comuni, ai bisogni particolari della città. La gemâ' nelle popolazioni arabiche par sia stata composta dei capi di famiglie nobili, dei dotti, facoltosi e capi delle corporazioni di arti, le quali assimilavansi a famiglie e costituivano società di assicurazione reciproca nei casi penali: perciò questo corpo municipale somigliava in parte alla curia romana.29 Non sappiamo se la sciûra, di che si fa menzione negli annali della Spagna musulmana,30 sia la gemâ' sotto altro nome, ovvero una deputazione della gemâ', un comitato esecutivo, diremmo oggi, il quale nei tempi ordinarii amministrasse i negozii del municipio deliberati dalla gemâ'; ma certo è che nei tempi torbidi reggeva le faccende politiche. Nei tempi ordinarii la gemâ' era richiesta, in difetto dell'erario, di provvedere, per contribuzioni volontarie di danaro o d'opera, alla costruzione o restaurazione degli acquedotti, delle mura, delle moschee cattedrali e al sovvenimento dei viandanti poveri. La richiedeva il mohtesib; poteva obbligarla il solo principe, e nel sol caso che la città fosse piazza di confini, onde, cadute le mura o dispersa la popolazione, ne sarebbe tornato pericolo a tutto il reame. La obbligazione, sempre era collettiva, non individuale: dal che ognun vede essere stata la gemâ' corpo morale, e vero municipio. Alla ristorazione delle moschee minori provvedeano quei circoli o quartieri che le possedessero; e trascurandosi da loro cotesto dovere, il mohtesib era tenuto a farne memoria.31 Ciò conferma il fatto che oltre il magistrato municipale della città ve n'era altri di quartiere o contrada;32 istituzione necessaria nelle città musulmane, le quali, al par che le nostre del medio evo, eran divise in quartieri, abitati per lo più da nazioni o arti diverse.

Cotesti ordini dall'Affrica passarono senza dubbio nella colonia siciliana; onde v'ha memoria della gemâ' di Palermo, costituita come le altre a modo aristocratico; e pronta a trapassare alla usurpazione dell'autorità politica.33 La riputazione dei giuristi che notai trattando dell'Affrica, va supposta necessariamente in Palermo, ove fiorirono nei principii del decimo secolo gli studii di dritto, secondo la scuola di Malek.34 Contuttociò non apparisce in Sicilia l'umor di parti di cittadini e nobiltà militare, ond'erasi agitata l'Affrica nei principii del nono secolo. La concordia durava per esser fresco il conquisto; e perchè nobili e cittadini di schiatte orientali stanziavano la più parte in Palermo, uniti da interessi comuni, dalla gelosia contro il governo d'Affrica, e dalla brama di sopraffare i Berberi lor compagni nell'isola.

Pria di passare all'azienda son da esaminare i due ordinamenti economici della colonia dai quali dipendea principalmente la entrata e la spesa pubblica; cioè, il primo, la costituzione della proprietà territoriale; il secondo, i ruoli militari. Molto si è disputato tra i dotti europei sul dritto di proprietà nei paesi musulmani; e manca nondimeno una verace e nitida esposizione di tal materia; ond'è forza ch'io mi provi ad abbozzarla. Premetto essere erronea la generalità, che si è troppo ripetuta e renderebbe superfluo ogni esame; cioè che tutti i terreni appartengano in proprietà a Dio, e per lui al pontefice principe.35 Gli eruditi che trovarono tal paradosso, tolsero in iscambio di dichiarazione di dritto le frasi poetiche o teologiche, come voglia dirsi, frequentissime nel Corano: che Iddio è padrone del Cielo e della Terra, padrone dei Mondi, e via discorrendo. Al certo i Musulmani, ammesso un creatore, lo doveano tener signore di sue proprie fatture; ma pensavano ch'egli avesse lasciato il terreno, non altrimenti che l'acqua, l'aria, il fuoco, la luce, a utilità universale delle creature; non donatolo in particolare a Maometto, e molto manco ai pontefici che gli dovean succedere.

Tanto egli è vero non aver mai il Profeta presunto sì strano dritto, che, secondo una tradizione sua, l'erba, unico prodotto del suolo nella maggior parte dell'Arabia, si tenne sì come l'acqua e il fuoco proprietà comune di tutti gli uomini.36 Tali anco furono risguardati certi minerali agevoli a raccogliere, come sale, antimonio, nafta, antracite.37

Dal dritto nomade volgendoci a quello delle popolazioni stanziali, è manifesto che il Corano e la Sunna riconoscano la piena proprietà delle terre coltivate, al medesimo titolo che la proprietà mobile. L'una e l'altra maniera di facoltà va soggetta ad unica tassa: dieci per cento su i prodotti del suolo, e due e mezzo su la quantità degli armenti, moneta e altri beni mobili; la quale gravezza, ragionandosi nel primo caso su la rendita e nel secondo sul capitale, viene a ragguaglio, o torna più lieve su le terre che su gli altri capitali.38 Maometto, imitando così le decime giudaiche, ne mutò lo investimento; e con sublime idea chiamò questa tassa sedekât o vogliam dire offerte di schietto animo, e zekât39 che suona purificazione: purificazione, dir volle, della colpa che ha il ricco lasciando morir di fame i poveri e mancar le entrate allo Stato. In vero tassa di poveri è questa, non men che pubblica contribuzione; andando tripartita per legge tra lo erario, i parenti del Profeta e i bisognosi, fossero orfanelli, viandanti, o altri.40 Le proprietà esistenti, rispettate così dallo islamismo, si trasmetteano, al par che i beni mobili, per vendita, donazione o successione.

Quanto ai nuovi acquisti, Maometto non parlò che del legittimo per eccellenza: dichiarò che chiunque renda alla vita una terra morta, così esprimeva il dissodare un suolo inculto o fabbricarvi sopra, ne divenga padrone assoluto; sì che nè il principe nè altri possa togliergli il podere, finch'ei lo coltivi.41 Nei tempi appresso restaron dubbii, secondo le varie scuole, i limiti che potesse porre il principe a tal dritto di primo occupante; ma la sostanza del dritto non fu mai disputata; anzi si accordò la terra intorno il pozzo, a chi primo lo avesse scavato in terren deserto.42

Su le proprietà stabili rapite ai vinti, Maometto non fece provvedimento generale, perchè rado occorse ai tempi suoi; nè parlarne troppo ei potea, proponendosi di conciliare e amalgamare la nazione. Cominciati i conquisti fuori d'Arabia, Omar applicò al caso qualche esempio del Profeta, e l'ordine posto dal Corano al partaggio della preda; onde quattro quinte andavano divise ai combattenti e una quinta serbata a utilità pubblica, e sussidii a varie classi di persone.43 Per tal modo furon divise alcune terre ai combattenti.44 Ma, in quell'età eroica, gli Arabi si tediavan di così fatta ricchezza. Tra il genio di correre a cavallo, combattendo, rubando e gridando Akbar-Allah; e tra abnegazione e ignoranza, alcuni giund rinunziarono alla repubblica la parte loro dei terreni; talchè, nella fertile provincia del Sewâd, Omar poneva in demanio tutti i poderi della dinastia regia di Persia, e dei privati che fossero morti o fuggiti.45 Tal nuova usanza invalse in appresso; anche non volendolo le milizie, nell'animo delle quali i sentimenti poetici sempre più calavano alla prosa. Come i combattenti, oltre la quota del bottino, godeano stipendio su le entrate pubbliche; e come i conquisti erano da attribuirsi alla potenza comune dei Musulmani, anzi che alle armi di tale o tal altro esercito, così parve giusto, che i frutti perenni della vittoria si godessero dallo Stato: e indi più di raro si effettuò il partaggio dei quattro quinti delle terre.46

A ciò condusse anco il fatto che i paesi non si pigliavano quasi mai con la spada alla mano; ma per dedizione degli abitatori, assoluta o a patti: avvenendo che, dopo alcuna vittoria, intere province si sottomettessero nell'uno o nell'altro modo; ovvero che gli abitatori si facessero musulmani prima dell'occupazione. Or, a mente del Corano, il principe disponeva ad arbitrio suo delle persone e roba degli Infedeli arresi a discrezione;47 in caso di accordo i patti eran legge; e in caso di conversione le terre, secondo alcuni giuristi, rimaneano in libera proprietà ai possessori attuali; secondo altri, il principe scegliea tra questo partito e il sottometterle a tributo.48 I principi, ad esempio di Omar, provvidero o stipolarono in tre diversi modi, intorno la proprietà territoriale degli Infedeli vinti. I demanii del governo scacciato e i poderi caduti nel fisco per morte, schiavitù o fuga dei possessori, divennero proprietà perpetua e inalienabile della repubblica musulmana; e teneansi in economia, o si davano in enfiteusi, per annua rendita, kharâg, come dissero vagamente gli Arabi, cioè quel ch'esce, quel che si cava dal podere.49 Le altre terre lasciaronsi ai possessori infedeli, dove in piena proprietà, e però con dritto di alienare, ipotecare e disporre per testamento; e dove in dominio utile, ammettendo soltanto, com'e' pare, le successioni; in ambo i casi a condizione di pagare un tributo, che fu detto similmente kharâg. Questo, su le terre di piena proprietà, tornava a tassa fondiaria, e cessava per conversione del possessore, o passaggio del podere in man di Musulmani; e su le terre di dominio utile era una maniera di censo, e durava in perpetuo.50 La legge riconoscea, dunque: proprietà libera di Musulmani per possesso anteriore alla conversione, per dissodamento o fabbrica, e per partaggio al conquisto; proprietà piena di Infedeli, soggetta a kharâg eventuale; proprietà vincolata di Musulmani e Infedeli, soggetta a kharâg perpetuo; e finalmente enfiteusi di fondi demaniali. Altra origine di possessione territoriale non v'era. Il principe potea scompartire ai combattenti e abilitare chiunque al dissodamento; non mai concedere terreni gratuitamente; non essendo suoi proprii, ma della repubblica o dello esercito vincitore.51

Questo fu il dritto generale infino al decimo secolo dell'era cristiana. Nel fatto, erano già nati parecchi abusi in questa e quell'altra provincia: e dove si vedeano proprietà demaniali usurpate da privati,52 dove, al contrario, par che i governi si sforzassero a confondere il kharâg eventuale e il perpetuo; e ad aggravare, come se fossero demaniali, i poderi tributarii della prima o seconda delle classi dette di sopra: e non è dubbio che gli abusi crebbero col tempo; sopra tutto dall'undecimo secolo in poi, quando la schiatta turca dominò successivamente la più parte degli Stati musulmani, e vi istituì veri beneficii militari. Dopo dodici secoli, il viluppo cagionato da coteste vicende nella ragione delle proprietà, è stato assai difficile a penetrare; e si è corso rischio di scambiare il dritto con lo abuso, la eccezione con la regola, la ragion d'un paese con la ragione d'un altro: tanto più che la voce kharâg ha i varii significati che accennammo, e inoltre quello di censo dell'acqua dei canali mantenuti dallo Stato, con che si inaffiassero terre decimali, ossia di libera proprietà musulmana.53 E indi è che i trattati usciti fin qui su tal materia, lasciano tanto a desiderare.54 Quanto a noi, ci basta saper le teorie ammesse da Mawerdi, un secolo e poco più, dopo il conquisto di Sicilia: e avremo compiuto il nostro debito dimostrandone coi fatti la osservanza, se non nella colonia siciliana, almeno in tempi vicini e paesi analoghi.

Nella quale investigazione occorre che al primo ordinamento della colonia d'Affrica (698) furono assoggettati al kharâg i Berberi non musulmani e gli abitatori cristiani di sangue fenicio, pelasgico o germanico,55 e ne andarono esenti i Berberi musulmani; i quali sostennero tal franchigia con le armi (720 a 740), contro governatori troppo fiscali.56 Da un'altra mano sappiamo che il governo dei califi, dando sesto alla Spagna nei principii del conquisto (720), divise parte delle terre ai soldati; parte ne serbò in demanio; e parte lascionne agli antichi abitatori, sotto tributo:57 nè è verosimile, anzi non è possibile, che siasi fatto altrimenti nell'Affrica propria, ond'eran mossi i conquistatori della Spagna, ed ove la colonia arabica tollerava sì poco il comando, non che i soprusi, dei califi. Ci accusa libera proprietà in Affrica il fatto che Ibrahim-ibn-Aghlab, emiro, comperava dai Beni-Tâlût (801) il terreno per fabbricare la cittadella d'Abbâsîa.58 Dei poderi soggetti al kharâg non è mestieri allegar prove. Dei poderi demaniali, dhiâ, come chiamavanli, si fa menzione più volte negli annali d'Affrica.59

Ove si considerino i modi e il lungo spazio di tempo in che i Musulmani compieano il conquisto della Sicilia, non si metterà in forse che nascesservi tutte le maniere di proprietà discorse di sopra. Superfluo sarebbe a dire dei beni demaniali,60 e di quei rimasi ai Cristiani.61 Quanto alle possessioni dei Musulmani, poichè se ne conoscon tante dopo il conquisto normanno,62 non è mestieri, provare che esistessero innanzi; ma sì indagare se al tempo della dominazione musulmana ne fossero state delle decimali e delle tributarie; cioè proprietà libere o vincolate. Su di ciò non troviamo attestati positivi. Ma è verosimile, che non mancassero le terre decimali, acquistate sia per dissodamento, sia per partaggio. Le prime debbon supporsi rade e di poca estensione. Il partaggio fu al certo di maggiore importanza. Quantunque in Affrica fosse cominciata a seguirsi nel nono secolo la scuola di Malek, la quale attribuisce allo Stato le terre prese per forza d'armi,63 pur non erano obbligatorie così fatte teorie, nè la scuola era riconosciuta da tutti i giuristi; e inoltre i principi aghlabiti, infino ad Ibrahim-ibn-Ahmed, poca o niuna autorità esercitarono su le milizie di Sicilia, le quali certamente amavano meglio il partaggio. Indi è da conchiudere che gli emiri pigliassero in demanio quando poteano, e, quando no, scompartissero i quattro quinti delle terre. Così credo si praticò alla resa di Palermo; il cui territorio, e forse di gran parte della provincia, fu tolto ai naturali, per esser tutti o fuggiti o fatti schiavi.64 E veramente a partaggio accennano le discordie che immediatamente seguirono, composte a mala pena dagli Aghlabiti.65 La resa a discrezione o presura per forza d'armi, si rinnovò poscia in varii luoghi, onde dovea portare il medesimo effetto. Le possessioni decimali poteano anco nascer da quelle lasciate per avventura in piena proprietà a Cristiani i cui figliuoli avessero professato poi l'islamismo; chè moltissimi il fecero nel nono secolo in Val di Mazara, e nel seguente in Val di Noto e parte del Val Demone. Nondimeno, com'è incerta la stipolazione della piena proprietà, e come l'interesse del governo e degli antichi Musulmani si opponeva a lasciar godere la franchigia ai novelli convertiti, così non sapremmo supporre frequente un tal caso. Un cenno che ne danno le cronache nei principii dell'undecimo secolo, e che si riferirà a suo luogo, ne fa certi che i Musulmani dettivi Siciliani, fossero progenie degli antichi abitatori, ma non che il kharâg posto sopra di loro lo fosse stato allora per la prima volta: e però questo fatto non può dare argomento dell'indole della proprietà, se libera o vincolata.66

In ogni modo il conquisto musulmano cagionò profondo rivolgimento nella costituzione e distribuzione della proprietà territoriale in Sicilia. I poderi dei Musulmani, originati da dissodamento o partaggio, doveano esser molti e non vasti; e a suddividerli conducea la legge delle successioni, la quale permette i legati infino a un terzo dell'asse ereditario, accorda parti uguali ai figli e metà di parti alle figliuole, e chiama all'eredità gli ascendenti, anche sendovi discendenti, e in mancanza degli uni e degli altri ammette i collaterali.67 Spicciolavansi altresì le terre del demanio, affittate o censite per compartimenti.68 Conferman la suddivisione della proprietà i moltissimi nomi arabici che rimaneano ai poderi nel duodecimo secolo, soprattutto in Val di Mazara, e ve ne rimangono tuttavia, i quali nacquero al certo dal detto rimescolamento; poichè le denominazioni topografiche son tenacissime, le antiche si smetton di rado per mutazione del possessore, le nuove nascon quasi sempre da suddivisione o aggregamento dei poderi. Così il conquisto musulmano guarì la piaga dei latifondi, la quale avea consumato la Sicilia fino al secol nono, e riapparve con la dominazione cristiana nel duodecimo.

Più vasto frutto della vittoria, più divisibile, e più congeniale alla maggior parte dei primi coloni di Sicilia, era lo stipendio militare. Godealo, in tutti gli Stati musulmani, il giund, ordine militare propriamente detto; del quale farem parola, lasciando indietro le altre maniere di combattenti; cioè gli schiavi e liberti che alcuna volta si adoperavano come stanziali, e le plebi, le quali traeano volontariamente alla guerra sacra, partecipavano al bottino, e, finita la impresa, se ne tornavano a vivere di limosine o dure fatiche. Nel giund si scrissero un tempo tutti i Musulmani; poi, a misura che l'impero si allargò, i ruoli si ristrinsero, com'abbiamo accennato nel primo Libro. Quivi anco abbiam divisato le norme dei divani di Omar; le quali durarono e si modificarono al par di tante altre primitive istituzioni dell'islamismo. Nel nono secolo, gli Arabi prendean luogo tuttavia nei ruoli sopra le schiatte straniere; e queste tra loro secondo l'anteriorità della conversione: suddivisi gli Arabi, al par che gli stranieri, per tribù e parentele; le quali prendean grado secondo la consanguineità col principe; gli individui secondo la età. Ma ormai non entrava nel giund chiunque il chiedesse, solo i figliuoli di militari, quando fossero adulti, validi, buoni alle armi e senz'altro mestiere; di che giudicava il principe, e potea alsì ammettere uomini nuovi. Variava il soldo a giudizio anco del principe o dell'emiro, secondo i bisogni, che è a dire in ragion del numero dei figliuoli e degli schiavi, la quantità dei cavalli mantenuti e i prezzi delle vittuaglie in ciascun paese; ma in ambo i casi detti era limitato l'arbitrio dalla consuetudine universale e dalla potenza delle famiglie componenti il grosso delle milizie. Discendean esse in parte dall'antica nobiltà arabica; orgogliose di lor tradizioni, clientele, pratica e prontezza al combattere.69 Indi si vede che il giund era tuttavia, come dissi nel primo Libro, nobiltà armata, ordine aristocratico, temperato alquanto dalla monarchia.

Agli stipendii suoi era specialmente destinato il fei; cioè prestazioni permanenti degli Infedeli, fossero tributi collettivi delle popolazioni assicurate, o tributi individuali delle popolazioni soggette, chiamati gezîa, kharâg o decima delle merci, comprendendosi sotto la denominazione di kharâg il ritratto dei beni demaniali.70 Nel primo secolo dell'egira, epoca di conquisti e franchige, gli Arabi avean fatto sì rigorosamente osservare lo investimento del fei, che il califo non ne metteva ad entrata altro che i sopravanzi; nè era lecito agli oficiali del tesoro d'incassare materialmente la moneta, se i notabili militari e civili che la recavano dalle province, non giurassero essere stati pria soddisfatti coloro che avean ragione su quelle entrate, specialmente le milizie.71 Cresciute poscia nel principato le forze e le brame, e abbassate le milizie per la istituzione degli stanziali, tanto pure avanzò delle costumanze antiche che il fondo degli stipendii non si menomò.72 Si pagavano oramai in molte province, se non in tutte, per delegazione sul kharâg di un dato podere o territorio, secondo la somma registrata nel catasto, che s'agguagliasse a quella dello stipendio registrato nel ruolo militare. La delegazione, oltre il kharâg, si facea sopra altre entrate di fei. Chiamavasi iktâ'; taglio, come suona in lingua nostra.73 Portava al governo risparmio delle spese e fatiche della riscossione; ma aggravava i contribuenti; corrompea le stesse milizie, mutate in torme di gabellieri e concussionarii privilegiati; e tornava alla fin fine a rovina dello Stato, per le infiacchite forze nazionali, le entrate distratte, i popoli spolpati, e gli sciolti legami tra le milizie e la pubblica autorità. Tanto più che alle milizie l'iktâ' soleasi concedere a vita, e talvolta con sostituzione dei figliuoli; quantunque i giuristi dichiarassero nullo tal modo.74 Sospetto che le concessioni per ordinario fossero state collettive in favore di un giund: naturalissimo e pessimo espediente. Che che ne sia, i beneficii militari, nati nella precoce decadenza della società arabica, aiutarono, con gli altri vizii, alla rovina di sua dominazione. La istituzione degli emiri di provincia primeggiò, come dicemmo, tra le cause che smembravano l'impero in reami: gli iktâ' cooperarono a rinnalzare l'abbassata aristocrazia e spingerla all'anarchia feudale; poichè le milizie divennero come forza privata dei capi loro; onde avvenne che alcuno occupasse il principato, o, peggio, che molti sel contendessero. Così fu in Spagna; così in Sicilia nello undecimo secolo.

1.Veggasi il Libro I, cap. III, VI.
2.Oltre il Corano e la Sunna, ossia il supposto precetto divino e lo esempio del Profeta, la legge si fondava sullo igtihâd, che vuol dire litteralmente “sforzo” degli interpreti ed esecutori ad applicare lo statuto ai casi non provveduti espressamente.
3.Mawerdi, Ahkâm-Sultanîa, lib. III, edizione di Enger, p. 51.
4.Mawerdi, op. cit., lib. I, p. 23, enumera così i dritti dello imâm, ossia califo, pontefice e principe: 1º Conservar la fede secondo i dommi cardinali e le interpretazioni concordi degli imâm precedenti, e ricondurre all'ortodossia i novatori, con la ragione o con la forza; 2º Far eseguire le leggi civili e criminali; 3º Vegliare alla sicurezza interna; 4º Fare osservare i precetti religiosi; 5º Difendere il territorio; 6º Portar guerra agli Infedeli; 7º Riscuotere le legittime entrate pubbliche; 8º Pagare gli stipendii e spese pubbliche; 9º Adoperare capaci e fidati ministri; 10º Trattar dassè le faccende più rilevanti. Tolti questi due ultimi paragrafi che contengono consigli di condotta, non ordinamenti di diritto pubblico, gli altri doveri dell'imâm non differiscono da quei dello emiro, che nella potestà d'interpretare i dommi.
5.Mawerdi, op. cit., lib. III, p. 47, 48. Questo autore aggiunge che l'uficio di emiro poteva essere generale ovvero speciale; sendo lecito destinare un emiro alle cose di guerra e di polizia, come noi diremmo, e un altro all'azienda e giurisdizione; op. cit., p. 51. Ma tal caso sembra avvenuto assai di rado. Mawerdi stesso, p. 54, dice che nelle province conquistate di recente l'uficio di emir, di dritto, diveniva generale; nè si potea diminuirne il territorio, nè l'autorità. Le ragioni che ne allega Mawerdi son fondate su l'assioma, che il ben della religione e della repubblica musulmana va anteposto al capriccio del califo.
6.L'oficio della posta si chiamava appo gli Arabi berîd, trascrizione della voce latina veredus. Par che i Sassanidi abbian tenuto la stessa pratica in fatto di alta polizia; come l'accennai nella versione del Solwân d'Ibn-Zafer, nota 24 al cap. V, p. 313, 314.
7.Il Baiân, tomo I, p. 75, e Nowâiri, Storia d'Affrica, versione francese di M. De Slane, in appendice a Ibn-Khaldûn, Histoire des Berbères, tomo I, p. 588, fanno menzione del giuramento (biâ') prestato al nuovo emir di Affrica, Nasr-ibn-Habib (791).
8.Ibrahim non era al certo independente in dritto più che gli altri emiri di provincia. Per le monete di Heggiâg non occorre citazione. Su quelle di Mûsa, va ricordato che la leggenda talvolta fu latina, come si scorge dalle lettere di M. De Saulcy, Journal Asiatique, série III, tomo VII, p. 500, 540 (1839), e tomo X, p. 389, seg. (1840).
9.Capitolo V, p. 296.
10.La numismatica arabo-sicula finadesso può dare scarso aiuto alla Storia, sendo pubblicate pochissime monete, e la importante collezione di Airoldi non per anco studiata. A ciò si aggiunga, che rimangono poche speranze per l'epoca aghlabita, perchè gran copia di monete andò al crogiuolo per la gelosia dinastica, l'avarizia e il genio burocratico dei Fatemiti. Delle monete aghlabite di Sicilia alcune sono state pubblicate da Tychsen, Adler, Castiglioni; alcune dal Mortillaro, il quale compilò, utile lavoro, una lista di tutte le monete arabo-sicule, conosciute da lui. Le quattro che io ho accennato nel testo, si trovano le prime in quella lista (Mortillaro, Opere, tomo III, p. 343, seg.); ed io ne ho dato forse più corretti ragguagli nel Libro II della presente storia, cap. III, p. 283, cap. V, p. 296, e cap. VI, p. 320, del primo volume. Le altre monete aghlabite di Sicilia son registrate dal Mortillaro dal nº 5 al 12.
11.Fakhr-ed-dîn, presso Sacy, Chrestomathie Arabe, tomo I, p. 84. Non ho bisogno di avvertire che la Khotba sia la preghiera pubblica, in cui si ricorda il nome del principe e pontefice.
12.Veggasi il Libro II, cap. III, V, VI, VII, IX, X.
13.Mawerdi, op. cit., lib. III, p. 51, 52, 53; lib. XIX, p. 375, seg.
14.Come apostasia, empietà, stupro, ubbriachezza ec.
15.Come omicidii e ferite, furti, calunnie.
16.Mawerdi, op. cit., lib. III, p. 48, 51, 52, 53; lib. XIX, p. 375, seg.
17.Mawerdi, op. cit., lib. VII, p. 128, seg. Veggasi anche Sacy, Chrestomathie Arabe, tomo I, p. 132, seg. Talvolta il principe delegava alcuno allo esercizio di questa somma giurisdizione. Così abbiam ricordi di un wâli-l-mezâlim in Affrica sotto gli Aghlabiti, che poi fu câdi in Palermo.
18.Mawerdi, op. cit., lib, III, p. 48, 51, 52, 53; lib. VI, p. 107, seg.; e lib. XX, p. 405 a 408. Si avverta che la giurisdizione non restò divisa nè in tutti i paesi nè in tutti i tempi nel modo che porta il Mawerdi. Io ho voluto seguire a preferenza questo scrittore, perchè è contemporaneo alla dominazione musulmana in Sicilia, e ci mostra l'ordinamento normale d'allora, meglio che nol farebbero i trattati relativi all'impero ottomano, all'Affrica ec., al giorno d'oggi.
19.Mawerdi, op. cit., lib. VIII, p. 164, seg.
20.Mawerdi, op. cit., lib. XX, p. 404, seg. Veggasi ancora presso Sacy, Chrestomathie Arabe, tomo I, p. 468 a 470, uno squarcio dei Prolegomeni di Ibn-Khaldûn, il quale in parte copia litteralmente Mawerdi, e in parte aggiugne fatti novelli.
21.Makkari, presso Gayangos, The Mohammedan Dynasties in Spain, tomo I, p. 105; Lane, Modern Egyptians, tomo I, p. 166.
22.Ibn-Khaldûn, Prolegomeni, presso Gayangos, op. cit., tomo I, p. XXXII; e nello stesso volume, Makkari, p. 104, e nota a p. 398; Sacy, Chrestomathie Arabe, tomo II, p. 184. Al Cairo fu detto wâli-l-beled, prefetto della città; in Spagna, sâheb-el-medîna, preposto della città, sâheb-el-leil, preposto della notte, e sâheb-es-sciorta. Gli Omeîadi aveano la grande e picciola sciorta, come noi diremmo alta e bassa polizia.
23.Ibn-Khallikân, Wafiat-el-'Aiân, Vita di Abu-Mohammed-Iahia-ibn-Akthem, fa menzione del sâheb-es-sciorta di Palermo sotto il principe kelbita Thikt-ed-daula. MS. di Parigi, Suppl. Arabe, 502, fog. 326 verso; e 504, fog. 234 recto.
24.Capitolo LVI di Giacomo, e XVII di Federigo di Aragona; Diploma di Carlo d'Angiò del 24 ottobre del 1269, nella Biblioteca Comunale di Palermo, MS. Q. q. G. 2, pei Magistri sorterii di Palermo. Dalle annotazioni di monsignor Testa ai detti luoghi dei Capitoli del Regno, si vede usata infino ai principii del XVIII secolo in dialetto siciliano la voce sciorta, che latinamente scriveano sorta, surta, xurta, ec.
25.Veggansi il Lib. I, cap. VI, p. 133, seg., e p. 148; e il Lib. II, cap. II, p. 259.
26.Il Mehdi usava far leggere i suoi rescritti e avvisi di vittorie nella gemâ' di ciascuna città. Baiân, testo, tomo I, anni 296 a 300.
27.Veggasi Mawerdi, Ahkâm-Sultanîa, lib. XX, p. 411 a 414.
28.Daumas, Le Sahara Algérien, p. 72, 290, 293; e il medesimo, Mœurs et Coutumes de l'Algérie, p. 10.
29.Ricordinsi i wagih, sceikh e fakîh del Kairewân, di cui si fa parola nel Libro I, cap. IV, p. 148. Mawerdi, l. c., adopera il nome generico di dsui-l-mekena, ossia “notabili, o capaci;” i quali par non fossero i soli possessori e capitalisti, poichè si dice che possano contribuire alle opere pubbliche, sia con danaro, sia con lavoro. Ei nota essere così fatto obbligo non individuale ma dell'universale, ossia gemâ' dei cittadini notabili. Lo stesso autore adopera la voce dsui-l-mekena per denotare quella classe di persone alle quali furon date in enfiteusi dal califo Othmân le terre demaniali del Sewâd, lib. XVII, p. 335.
30.Ibn-Khallikân, Wafiât-el-'Aiân, nella vita di Ibn-Zohr (Avenzoar) morto a Cordova il 1130, dice che l'avolo di costui avea tenuto alto grado nella sciûra. Veggasi la versione inglese di M. De Slane, tomo III, p. 139, ed a p. 140 la nota 12, ove questo erudito orientalista fa considerare che in Spagna e nell'Affrica settentrionale ogni città aveva il counsel or committee che aiutasse il governatore (e questa non parmi espressione esatta) nello esercizio del suo oficio, e si componea dei capi dei varii quartieri, del câdi, e delle antiche e influenti famiglie del luogo. Nel tomo II, p. 501 della stessa versione, si parla d'un Consiglio simile a Murcia.
  A Tripoli fin oltre la metà del XII secolo v'ebbe un “Consiglio dei Dieci” che cessò al conquisto degli Almohadi; come l'afferma Tigiani, Rehela, versione francese di M. Rousseau, p. 186, 187. (Journal Asiatique, février-mars 1853, p. 135, 136.)
  Negli Stati ove è prevalso più il dispotismo, è rimase in vece della gemâ' un sol oficiale municipale, detto sceikh-el-beled, “l'anziano del paese,” mezzo tra eletto ed ereditario; come si ritrae per l'Affrica settentrionale da M. Worms, Recherches sur la propriètè territoriale dans les pays musulmans, p. 373, 427; e per l'Egitto, dal Lane, Modern Egyptians, tomo I, p. 171.
31.Mawerdi, op. cit., lib. XX, p. 411, a 414.
32.Lane, Modern Egyptians, tomo I, p. 170.
33.Ibn-el-Athîr, anno 336, MS. B, p. 261; MS. C, tomo IV, fog. 350 verso, dice dei Beni Tabari, ch'erano degli 'aiân, ossia caporioni della gemâ' in Palermo.
34.Riadh-en-Nofûs, MS., fog. 79 recto, nella vita di Lokmân-ibn-Iûsuf
35.Una quarantina d'anni fa, sostenne quest'assioma il barone De Hammer, oggi consigliere aulico dell'impero austriaco. M. De Sacy lo confutò, prima nel Journal des Savants del 1818, poi nella terza delle sue Memorie su la proprietà in Egitto, Mémoires de l'Académie des Inscriptions, tomo VII, p. 55, 56. Il Martorana, Notizie storiche dei Saraceni Siciliani, tomo II, p. 129 e 248, amò meglio seguire il consigliere aulico, che il dotto professor di Parigi. Il signor Benedetto Castiglia, in uno articolo di giornale che sopra ho avuto occasione di lodare, La Ruota, Palermo, 30 agosto 1842, si appigliò a questo paradosso, e scrivendo in fretta lo attribuì a M. De Sacy. A così fatta teoria rimangono ormai pochi partigiani. La rigetta espressamente M. Worms nella detta opera, Recherches sur la constitution de la propriètè territoriale dans les pays musulmans. Nè so come M. Du Caurroi riparli di Messer Domeneddio proprietario universale, Journal Asiatique, IVe série, tomo XII, p. 13 (1848), senza allegar nuove autorità.
36.Mawerdi, Ahkâm-Sultanîa, lib. XVI, p. 325; Hedaya, libro LXV, tomo IV, p. 140.
37.Mawerdi, op. cit., lib. XVII, p. 341. Traduco “antracite” la voce kâr, che secondo i dizionarii significa “pece liquida.”
38.Il 10 per cento su la raccolta annuale dei grani, frutta, miele ec., si ragguaglia al 2 12 per 100 su gli armenti, danaro, merci, masserizie ec., supponendo che coteste maniere di capitali rendessero il 25 per 100. Non arrivando a sì alto segno il fruttato dei capitali mobili, essi vengono a pagare più che i capitali fissi delle terre. Avvertasi che il 10 si ragiona su i prodotti del suolo bagnato da pioggie periodiche o acque sgorganti. Le terre inaffiate con macchine idrauliche, richiedendo maggiore spesa di cultura, son tassate al 5. Al contrario, quelle irrigate con acqua di canali che mantiene lo Stato, pagano il 20; nel qual caso il doppio dazio va per censo dell'acqua.
39.Seguo l'uso generale nella trascrizione di questa, voce, la quale secondo il modo tenuto nel resto del mio lavoro andrebbe scritta zekâ.
40.La zekât è dovuta dai soli Musulmani adulti, sani di mente e liberi, che posseggano oltre un certo valore fissato dalla legge. Si chiama anche decima. Il ritratto è stato sovente distolto dalla sua destinazione legale; usurpandolo i governi, che poi si sgravavano la coscienza in opere di pietà o di carità. Veggansi a tal proposito: Mawerdi, Ahkâm-Sultanîa, lib. XI, p. 195, seg., e lib. XVIII, p. 366, seg.: questo dottore sciafeita riferisce il dritto come si tenea nella propria scuola, cita le opinioni delle altre e i fatti fino al tempo e paese suo, cioè tra il X e l'XI secolo, a Bagdad; Hedaya, lib. I, versione inglese, tomo I, p. 1, seg., che mostra il dritto osservato in India nel XVIII secolo secondo la scuola di Abu-Hanîfa; D'Ohsson, Tableau général de l'Empire Ottoman, tomo II, p. 403, e tomo V, p. 15, seg., che riferisce anco il dritto hanefita, osservato alla stessa epoca in Turchia; Khalîl-ibn-Ishâk, Précis de jurisprudence musulmane, traduit par M. Perron, cap. III, tomo I, p. 328, seg. Quest'autore, di scuola malekita, visse nel XV secolo. Il suo compendio, brevissimo e oscurissimo, fa legge in Affrica. Veggasi anche Burckhardt, Voyage en Arabie (versione francese), tomo II, p. 294, che descrive la pratica dei Wababiti, puritani dell'islamismo ai tempi nostri. Le varie scuole ed epoche fan poca differenza nell'applicazione degli statuti su la zekât.
41.Mishkat-ul-Masabih, lib. XII, cap. XI, tomo II, p. 45, seg. Data la tradizione del Profeta, tralascio di citare i trattatisti, alcuni dei quali, a dir di Mawerdi, op. cit., lib. XVII, p. 330, credettero necessaria la licenza del principe a confermare il dritto di primo occupante. Ognun vede che ciò non torna ad esercizio di un supremo dritto di proprietà, ma a necessaria misura di ordine pubblico, per evitare che due o più persone si contendessero un podere. È fondato su la medesima ragione il divieto di occupare il suolo bisognevole a pascolo comune, strade, mercati ec., di che tratta il Mawerdi, lib. XVI, p. 322, seg.
42.Hedaya, lib. XLV, tomo IV, p. 132.
43.Nella sura VIII, verso 42, è detto appartenere la quinta a Dio, e per lui al Profeta, ai parenti di costui, agli orfanelli, agli indigenti e ai viandanti. La morte di Maometto diè luogo a cavillare su questa legge. Dei dottori, chi ha pensato doversi investire tutta la quinta in utilità pubblica; chi poterne disporre il principe; chi doversi esclusivamente serbare ai parenti del Profeta, orfanelli ec. Veggasi Beidhawi, comento al citato verso del Corano, edizione di M. Fleischer, tomo I, p. 367 e 368; Mawerdi, op. cit., lib. XII, p. 239 a 242. Koduri vuol che la quinta si divida in tre parti uguali agli orfanelli, poveri, e viandanti; sostenendo che la quota del Profeta si fosse estinta alla sua morte; presso Rosenmuller, Analecta Arabica, § 34.
44.Questo importante fatto è riferito da Mawerdi, op. cit., lib. XVII, p. 334, seg. Avanti la edizione di M. Enger del 1853, che noi citiamo, questo squarcio era stato pubblicato con una versione francese da M. Worms, Recherches sur la constitution de la propriété, etc., p. 188, 189, e 202, seg. Ma M. Worms non ebbe alle mani che un sol MS. del Mawerdi; non si servì delle varianti di quello che possiede la Biblioteca di Parigi; e d'altronde non colse sempre il segno nella versione.
45.Mawerdi, l. c.
46.Il dritto era, secondo Sciafei, che le terre prese con le armi si dividessero al par che il bottino, a meno di cessione volontaria dei combattenti. Malek le dicea proprietà perpetua della repubblica. Abu-Hanîfa rimetteva al principe di scompartirle tra i combattenti, lasciarle agli Infedeli, con obbligo di pagare il kharâg, ovvero dichiararle proprietà della repubblica, come gli paresse. Così riferisce Mawerdi, lib. XII, p. 237, seg.; e lib. XIII, p. 254, seg. (anche presso Worms, op. cit., p. 100, seg.; 103, seg.; 107, seg.). Ma i giureconsulti vissero quando i conquisti eran cessati; onde la opinione loro non servì che a lodare o biasimare i fatti compiuti.
47.Sura, LIX, versi 6, 7, 8.
48.Mawerdi, op. cit., lib. XIII, p. 254; e presso Worms, op. cit., p. 107 e 110. La prima era opinione di Sciafei; la seconda di Abu-Hanîfa. L'Hedaya, quantunque compilazione hanefita, si appiglia nel presente caso all'opinione di Sciafei, lib. IX, cap. VII, tomo II, p. 205. Koduri, autore del decimo secolo, sostiene la prima opinione, presso Rosenmuller, Analecta Arabica, § 12.
49.Mawerdi, op. cit., lib. XVII, p. 334, 335; e presso Worms, op. cit., p. 189, e 204. Si vegga anche Koduri, presso Sacy, Mémoires de l'Académie des Inscriptions, tomo V, p. 10.
50.Mawerdi, op. cit., lib. XII, p. 237; lib. XIII, p. 253; e lib. XIV, p. 299; i quali squarci si veggano anche presso Worms, op. cit., p. 100, 103, 108, 111; Koduri, presso Sacy, Mémoires de l'Académie des Inscriptions, tomo V, p. 11. Si riscontri col lib. II, cap. XII della presente storia.
51.Mawerdi, op. cit., lib. XVII, p. 330, seg.; e presso Worms, op. cit., p. 184, seg., e 196, seg.; alla cui versione van fatte molte correzioni. Ha errato il Martorana, Notizie storiche dei Saraceni Siciliani, tomo II, nota 247, p. 248, sostenendo che tutte le proprietà musulmane venissero da concessione del principe.
52.Mawerdi, op. cit., lib. XVII, p. 335; e presso Worms, op. cit., p. 189, e 205.
53.Questo ultimo fatto si ricava dall'Hedaya, lib. IX, cap. VII, tomo II, p. 205.
54.Prima di scrivere queste parole, io ho studiato le dissertazioni di M. De Sacy, Mémoires de l'Académie des Inscriptions, tomo I, V e VII; l'opera citata di M. Worms, e le compilazioni legali musulmane, come l'Hedaya, D'Ohsson, Khalîl-ibn-Ishak. Dell'opera di M. De Hammer, ne so quanto ne dicono M. Sacy e M. Worms.
  La conchiusione di M. Sacy, che le terre d'Egitto appartenessero sempre agli antichi possessori indigeni, e fossero state usurpate in vario modo dai principi e loro soldatesche, è giusta, a creder mio, ma non abbastanza provata, nè applicabile a tutti i paesi musulmani.
  Quanto a M. Worms, è da commendare il metodo, la sagacità, la erudizione; non la imparzialità sua. Ponendo un'arbitraria distinzione tra le terre da seminato e i giardini, o, com'ei dice, terre di grande culture e di petite culture, M. Worms pretende che le prime sian sempre appartenute allo Stato in tutti i paesi musulmani, fuorchè l'Arabia. Ed io credo ch'ei si apporrebbe al vero, se parlasse di una parte, anche della più parte, dei vasti poderi, ma che sbaglia sostenendo esser tale la condizione di tutte le terre da cereali; e doversi tener tali per presunzione legale, senz'altre prove. Così ei viene a negare i dritti certissimi: 1º di dissodamento; 2º di partaggio tra i soldati; 3º di proprietà di convertiti avanti il conquisto; e 4º di beni lasciati agli Infedeli in piena proprietà, e indi passati in man di Musulmani. Se non altro, il numero dei wakf, ossia lasciti pii, ch'è grandissimo in tutti i paesi musulmani, avrebbe dovuto avvertire M. Worms della esistenza di moltissime terre libere; non potendosi dai Musulmani fare wakf senza libera proprietà; nè supporre da Europei che tutte le proprietà private fosser divenute lasciti pii. Qui parlo dei wakf a moschee o altre opere; non di quello in favor della repubblica musulmana che costituisce il demanio pubblico.
55.Si confrontino: Ibn-abd-Hâkem, citato da M. De Slane, nell'Ibn-Khaldoun, Histoire des Berbères, tomo I, p. 312, nota 1; Ibn-Khaldûn stesso, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, traduzione di M. Des Vergers, p. 27; e il Baiân, tomo I, p. 23. Ho accennato questo fatto nel lib. I, cap. V, p. 121 del primo volume.
56.Si confrontino: Ibn-Khaldûn, Histoire de l'Afrique et de la Sicile, trad. di M. Des Vergers, p. 31, 34; il Baiân, tomo II, p. 38; e Nowaîri, Storia d'Affrica, in appendice a Ibn-Khaldoun, Histoire des Berbères, versione di M. De Slane, tomo I, p. 159. Ho ferma opinione che M. De Slane non s'apponga al vero, rendendo in questo luogo la voce Khammasa “fare schiavo il quinto della popolazione.” Si deve intendere più tosto “levare il quinto della rendita territoriale” ossia porre il kharâg; come lo mostra con varii esempii il professor Dozy, Glossaire al Baiân, tomo II, p. 16.
57.Isidoro De Beja, cap. XLVIII, su l'autorità del quale hanno registrato questo fatto M. Reinaud, Invasion des Sarrazins en France, p. 16; e il prof. Dozy, Glossaire al Baiân, tomo II, p. 16.
58.Baiân, tomo I, p. 84. A questo esempio si potrebbe aggiugner quello delle terre che pagavan decima, su le quali il secondo principe aghlabita, Abd-Allah-ibn-Ibrahim, comandò (812) che si levasse un tanto all'anno secondo la misura della superficie, e non più la decima in derrata. Ibrahim-ibn-Ahmed, che avea continuato o ripigliato tale abuso, il cessò l'anno 902. Baiân, tomo I, p. 87 e 125. Nowairi, in appendice a Ibn-Khaldoun, Histoire des Berbères, versione di M. De Slane, tomo I, p. 402. Or come decima in derrata significa ordinariamente zekât, così le terre che ne pagavano si dovrebbero credere libera proprietà de' Musulmani. Nondimeno si può dare che i cronisti abbian voluto significare la doppia decima, ossia kharâg, dovuta sopra terre tributarie, e che la ingiusta innovazione fosse stata soltanto nel modo della riscossione in danaro, e a misura di superficie. Mi induce a tal supposto l'enormezza che sarebbe stata a mutare la zekât in tassa fondiaria; e mi vi conferma la opinione di alcuni giuristi, riferita da Mawerdi, op. cit., lib. XVII, p. 335, cioè che il kharâg su le terre da seminato non potea passare il dieci per cento su la raccolta.
59.Baiân, tomo I, p. 125, 175, 184, 273, anni 289 (902), 303 (915), 305 (917), 405 (1014).
60.Il Martorana, Notizie storiche dei Saraceni Siciliani, tomo II, p. 130, e nota 254 a p. 252, afferma potersi provare la esistenza di così fatti poderi coi nomi di città e castella che rispondono a quelli di emiri siciliani. Ma gli esempii ch'ei ne dà son tutti fallaci; e non lo è meno il supposto che i poderi demaniali dovessero prendere il nome degli emiri. Nè anco posson servire di argomento i beni demaniali dei Normanni. Ma la legge, l'interesse dei governanti, e l'uso generale degli Stati musulmani, danno tal presunzione che val meglio di ogni prova.
61.Veggasi il Libro II, cap. XII, p. 474 del primo volume.
62.Lasciando da parte i molti diplomi del XII secolo che lo attestano, basti allegare le Consuetudini di Palermo, cap. XXXVI, e gli Statuti di Catania contenuti in un diploma del 1668 presso De Grossis, Catena sacra, p. 88, 89, citato dal Di Gregorio, Considerazioni, nota 21, cap. IV del lib. I.
63.Veggasi in questo capitolo la nota 2 a p. 17.
64.Ad postremum, capientes panormitanam provinciam, cunctos ejus habitatores captivitati dederunt. Johannes Diaconus, Chronicon Episcoporum Neapolitanæ Ecclesiæ, presso Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, tomo I, parte 2ª, p. 313.
65.Veggasi il Libro II, cap. V, della presente storia, vol. I, pag. 294.
66.Veggasi il Libro IV, cap. VIII sul kharâg aggravato nel 1019, e il cap. IX su le possessioni dei Musulmani d'origine siciliana e d'origine affricana.
67.Hedaya, lib. XXXIX, e LII, tomo IV, p. 1, seg.; 466, seg.; D'Ohsson, Tableau général de l'Empire Ottoman, tomo V, lib. IV, V, p. 275, seg.
68.Si chiamavano in generale dhiâ', come notammo di sopra, e in Sicilia e Affrica anche ribâ'.
69.Mawerdi, op. cit., lib. XVIII, p. 351, seg. e 355, là dove è detto che senza ricusa di combattere o altra causa legittima non si potea togliere lo stipendio, “sendo il giund esercito del popolo musulmano.” Si confronti col lib. III, p. 50, onde si scorge che lo emir di provincia potea, senza permesso del califo, accordare lo stipendio ai figliuoli di militari pervenuti ad età da portar arme.
70.Mawerdi, op. cit., lib. XII, p. 218, seg.
71.Akhbâr-Megmûa'-fi-iftitâh-el-Andalos, MS. della Biblioteca imperiale di Parigi, Ancien Fonds, 706, fog. 99 recto. In questa importante cronica del X secolo si legge: “Quando recavansi ai califi le entrate (gebâiât) delle città e province, ciascuna somma era accompagnata da dieci personaggi dei notabili del paese e del giund; nè si incassava nel tesoro (beit-el-mâl) una sola moneta d'oro o argento, se costoro non giurassero prima per quel Dio ch'è unico al mondo, essersi levato il denaro secondo il dritto, ed essere sopravanzo degli stipendii dei soldati e famiglie loro nel paese, ciascun dei quali fosse stato soddisfatto di quanto per diritto gli apparteneva. Or avvenne che si recò al califo il kharâg d'Affrica, la quale di quel tempo non si tenea come provincia di frontiera; e il denaro era veramente avanzo, sendosi pria soddisfatti gli stipendii del giund e le prestazioni dovute all'altra gente. Arrivate con cotesto danaro otto persone in presenza del califo, ch'era di quel tempo Solimano (715-717), furono richiesti di giurare; e in fatto fecero sacramento ec.” Questo fatto dell'VIII secolo risponde perfettamente alla massima di Mawerdi, op. cit., lib. III, p. 50, che l'emir di provincia mandi all'imâm gli avanzi del fei, “quando ve ne abbia, pagati tutti gli stipendii.”
72.Secondo Mawerdi, l. c., mancando il danaro del fei in una provincia, dovea supplire il tesoro del califo. Negli annali dal terzo al quinto secolo dell'egira credo non si trovi un solo esempio di stipendii menomati.
73.Mawerdi, op. cit., lib. XVII, p. 337 a 341, enumera i varii casi e i varii pareri dei giuristi, relativamente all'iktâ'. Non si tenea lecito trattandosi di kharâg eventuale, cioè dovuto da Infedeli che avessero pieno diritto di proprietà, e però andassero sciolti dal tributo come dalla gezîa, facendosi musulmani. Il kharâg perpetuo, se dovuto in danaro e non variabile secondo il raccolto, si potea concedere. Pare che gli iktâ' si fossero anco tentati sopra le decime legali, ossia zekât; poichè i giuristi si sforzavano a dimostrarne la nullità. Questo luogo di Mawerdi è stato tradotto da M. Worms, Recherches sur la propriété etc., p. 206, seg.; la cui interpretazione non sempre mi pare esatta.
74.Mawerdi, l. c., della edizione di Enger, e p. 207, seg., della versione del Worms, enumera gli uficii pei quali si tenea permesso lo iktâ' e le condizioni necessarie nei varii casi. La regola generale che se ne cava, messi da canto i dispareri dei giuristi su i punti secondarii, è: 1º di escludere le concessioni oltre una vita d'uomo; 2º permettere le vitalizie ai soli militari; 3º permettere le delegazioni per parecchi anni agli impiegati permanenti, come muedsin e imâm delle moschee; e 4º limitarle a un anno pei non permanenti, come câdi, hâkim, segretarii e impiegati d'azienda.
Возрастное ограничение:
12+
Дата выхода на Литрес:
28 мая 2017
Объем:
692 стр. 4 иллюстрации
Правообладатель:
Public Domain

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