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Читать книгу: «Storia dei musulmani di Sicilia, vol. I», страница 7

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CAPITOLO III

Mentre San Gregorio gittava le prime fondamenta della potenza temporale dei papi, un giovane pien di virtù meditava in Arabia su i principii d'una novella religione. La gente ond'ei nacque era in via d'uscire dalla barbarie. Aveva avuto, per vero, l'Arabia, in tempi remotissimi, un periodo di potenza e anco d'incivilimento. Questi s'erano sviluppati, a dispetto della natura, tra un clima ardente e un suolo penuriosissimo d'acque, sì che v'era impossibile ogni agricoltura, fuorchè in qualche lista di terreno; impossibile il soggiorno di grosse e raccolte popolazioni; negato alla più parte degli abitatori tutt'altra vita che la nomade. Donde non è maraviglia se la potenza politica si dileguasse dall'Arabia forse in tempo assai breve, come poi avvenne a quella fondata da Maometto. Dello incivilimento rimase qualche avanzo, nelle sue sedi principali: a settentrione cioè e tra ponente e mezzogiorno, ov'è più fecondo il terreno e l'Oceano tempera l'aere e agevola il commercio. Scomparvero fin anco quegli antichi popoli; dei quali altri emigrò come i Fenicii, altri decadde e menomò, altri, sterminato per violenta catastrofe, lasciò vaghe rimembranze di umana superbia, di abominazioni, di provocata vendetta del cielo.

Così durante il corso delle due civiltà greca e romana, e infino al settimo secolo dell'era volgare, l'Arabia fu poco tenuta in conto tra le nazioni. In questo periodo veggiamo nella penisola due schiatte principali. La più antica, detta di Kahtân dal vero o supposto progenitore, forse il Iectan della Bibbia, occupava le parti meridionali, ossia l'Arabia Felice degli antichi e principalmente l'angolo tra ponente e mezzodì, il Iemen, come il chiamano gli Arabi. Era schiatta mista, parlante due lingue, l'una delle quali analoga all'arabo, e l'altra no; divisa tra la vita nomade e la vita stabile: e le popolazioni stabili, dove date all'agricoltura, dove raccolte in cittadi e intese al commercio, alla navigazione, ad industrie cittadinesche; la parte più opulenta della nazione per molti secoli soggetta dove a piccioli principi, dove ad unica monarchia, in ultimo a due successive dominazioni straniere. Varie tribù erranti di cotesta schiatta, dopo soggiorno più o men durevole nell'Arabia di mezzo, come se lor indole le sforzasse ad accostarsi alla civiltà, se ne andarono verso il settentrione. Quivi fondarono due Stati: l'uno in Mesopotamia che si addimandò il reame di Hira, prima tributario, poi provincia della Persia; l'altro presso la Siria. E questo ebbe per sede Palmira; si illustrò coi nomi di Odenato e Zenobia; e, distrutta Palmira, le tribù, senza soggiornare altrimenti in grosse città, furono note sotto la appellazione di Ghassanidi: comandate alsì da un principe; soggette sempre all'impero romano, il quale occupò anche qualche città della Arabia settentrionale, Petrea, come la dissero i dominatori. L'altra gente prese il nome da Adnân, tenuto discendente di Ismaele. Più compatta della prole di Kahtân, parlava unica lingua; tenea l'ingrato e vastissimo terreno delle regioni centrali. Pastori nomadi o mercatanti di carovana, gli Ismaeliti non ubbidirono a principi; vissero nella rozza franchigia della tribù, anche que' ch'ebbero stanza ferma là dove il luogo ne concedea. Gli stranieri non s'invogliarono giammai di soggiogarli; nè essi l'avrebbero sofferto, se non che alcuna tribù riconobbe, di nome e per poco, i monarchi del Iemen, o i Persiani.

Considerati così gli abitatori dell'Arabia secondo il legnaggio, i due tronchi parranno dissimilissimi l'uno dall'altro; si comprenderà perchè si oltraggiassero a vicenda; perchè la nimistà della schiatta durasse fin sotto la potente unità dell'islamismo, fino alle remote spiagge dell'Atlantico, ove le portò insieme la vittoria. Ma se si riguardi ai costumi piuttosto che al sangue, si troveranno da una banda i soli cittadini e agricoltori del Iemen, dall'altra il rimanente di Kahtân e tutta Adnân; il grosso della nazione arabica, non ostante l'antagonismo di schiatta, comparirà ridotto ad unica stampa dalla vita nomade. La qual condizione sociale, immutabile come i deserti ove errano le tribù, è notissima per tanti ricordi univoci, da Giobbe infino ai viaggiatori d'oggidì: libri sacri, poesie, istorie, romanzi, osservazioni di dotti europei. E vuolsi da noi studiare, perchè, conoscendo gli ordini delle tribù, si spiegheranno agevolmente le vicende della nazione arabica in tutti i tempi e in tutti i luoghi.

La tribù nomade, o, come dicon essi, beduina, che suonerebbe appo noi campagnuola, è saldo corpo politico senz'altri legami che del sangue, senz'altra sanzione penale che la vergogna e il timore dell'altrui vendetta e rapacità. Quivi l'unità elementare delle società non è l'individuo, ma sì la famiglia; nè risiede vera autorità che nel capo della famiglia. Ei comanda assoluto ai figliuoli e a lor prole; agli schiavi fatti in guerra o comperati; ai liberti che rimangono in clientela; agli affidati, uomini stranieri e liberi venuti a porsi sotto la sua protezione: ei li nutrisce, li difende dall'altrui violenza, e, quando ne recassero ad altrui, ripara il torto o affronta la vendetta. Nel numero e zelo de' suoi sta la forza del capo; la ricchezza nei servigii loro, negli utensili e negli armenti: nè è mestieri autorità di legge a mantenere insieme tal corpo.

Fuori dalla famiglia cominciano le associazioni: volontarie al tutto; ma seguon anco la parentela. Così varie famiglie fanno un circolo, come lo chiamano gli Arabi dall'uso di piantare in cerchio lor tende; al quale è preposto uno sceikh, o diremmo noi anziano, più tosto che eletto, designato senza forme di squittinio dalla riputazione della persona e importanza della famiglia; talchè l'ufizio spesso diviene ereditario per molte generazioni. È capo fittizio della parentela: magistrato senza impero sopra i privati; senz'arbitrio nelle cose comuni del circolo, nelle quali dee seguire il voto dei padri di famiglia. Infine lo sceikh rappresenta, come oggi direbbesi, il proprio circolo nella tribù. La quale unisce insieme varie parentele di un medesimo legnaggio; ordinata alla sua volta come il circolo, guidata da un capo, che vien su tra accordo e necessità come quello del circolo, e regge le faccende comuni della tribù: mutare il campo, far guerre o leghe; sempre con l'assentimento degli sceikhi, fors'anco di altri potenti capi di famiglia. Suole altresì capitanare gli armati della tribù nelle scorrerie e zuffe; ma talvolta, e più spesso oggi che nei tempi andati, il condottiero è scelto a posta.

Tale è loro gerarchia, politica insieme e militare, chè mal si distingue appo i Beduini. Ordini civili, che meritino il nome, non ve n'ha. La forza mantiene la roba quando non vi basti il credito della famiglia; e se la forza non può, il furto divien legittimo acquisto. Un po' più efficace la guarentigia delle persone; perchè il circolo e la tribù vi si sentono tenuti in onore, e più volentieri pigliano le armi a vendicare il sangue, o contribuiscono con le facoltà a pagare il prezzo di quello ch'abbia sparso alcun de' loro. Il quale compenso, assurdo e iniquo in una civiltà, umano nella barbarie, è in uso da antichissimi tempi in Arabia, come nel medio evo in Europa, ove il portarono i nomadi del Settentrione; ma gli Arabi, men pazienti di freno che non sieno mai stati i popoli germanici, non soleano accettare il prezzo del sangue se non che esausti dopo lunga vicenda di omicidii. Le multe per omicidio, troppo gravi ad una sola famiglia, troppo fastidiose a tutta la tribù, si soglion fornire dal circolo; il quale indi si direbbe società di assicurazione scambievole nei misfatti: e può cacciar via gli uomini rotti; ond'essi rimangono senza mallevadore nè protettore, veri sbanditi.

Sembra ancora che tra la famiglia e la tribù talvolta si trovino parecchi gradi d'associazione intermediaria, per cagion della disuguaglianza grandissima che v'ha nel numero degli uomini delle tribù: chè se ne conta di poche centinaia, ovvero di migliaia, quasi popolazione d'una provincia. Il corpo politico indipendente che noi diciamo tribù, o, per prendere una similitudine molto ovvia, il ramo staccato dall'albero, si appella in arabico con nomi diversi,138 secondo che si discosti più o meno dal tronco l'inforcatura ov'è tagliato il ramo: poichè ogni frazione di tribù consanguinea si accompagna alle altre o se ne spicca a suo piacimento nei liberi campi del deserto.

Non è mestieri aggiugnere qual divario corra tra le famiglie in punto di ricchezza; consistendo questa in proprietà mobili, e di più mal difese contro gli uomini e peggio contro i fenomeni della natura. La disuguaglianza del numero di uomini, avere, valore e riputazione delle famiglie in una nazione che sta sempre in su la guerra e osserva con tanta religione i legami del sangue, porta necessariamente la nobiltà ereditaria. V'ha inoltre la riputazione di nobiltà di una tribù, o circolo sopra gli altri, poichè tra loro quella che noi diremmo cittadinanza si confonde con la parentela. La forma di governo della tribù torna all'aristocrazia, ma larga; temperandola il nome comune, la familiarità patriarcale, il bisogno continuo che i grandi hanno della gente minuta, la agevolezza di sottrarsi a un governo troppo duro, la semplicità e rozzezza dell'ordinamento sociale. Perciò di rado si vede degenerare in oligarchia e quasi mai in principato.

Gli ordini della tribù nomade informano le popolazioni stanziali, nate quasi tutte da quella, poste in mezzo ai Beduini, costrette a comporre con essi per danaro o sopportare le scorrerie, e avvezze a chiamare in lor divisioni quegli agguerriti vicini. Le abitazioni fisse dell'Arabia centrale sono stanze di commercio o ville di agricoltori; concorronvi uomini di altre schiatte arabiche, concorronvi stranieri, e il reggimento talvolta si riduce nelle mani di pochi e anco vi prevale un solo: effetto necessario della proprietà più certa, delle plebi vili e mescolate, della fatalità della umana natura che si stempera quando sta in riposo. Nondimeno sendo le armi in mano delle tribù libere, la servitù non può allignare troppo tra i cittadini.

Per le medesime cagioni le fattezze e costumi, ancorchè diversi, pur in molti punti si rassomigliano. I figli del deserto hanno alta statura, corpi robusti, asciutti, puri lineamenti della schiatta caucasica in volto, barba non troppo folta, bellissimi denti, sguardo sicuro, penetrante; avviluppati la persona in ampie vestimenta, coperti la testa e il collo con bizzarra foggia di cuffia,139 chè da loro par ne venga tal voce; vanno alteri al portamento, maneggian destri le armi, padroneggiano i cavalli, animale amico loro più che servo; traggono vanto dalla rapina; impetuosi nell'ira, tenaci nell'odio, ospitalissimi, leali alle promesse; ardenti nell'amore che merita il nome; son contenti per lo più d'una sola moglie, la comprano, la ripudiano, ma li ritiene di maltrattarla troppo il rispetto della parentela di lei; nè tengon chiuse le donne, nè appo loro la gelosia vieta le oneste brigate con donzelle, nè i teneri canti e i balli. Tra la libertà della parola, l'uso alla guerra e la compagnia del sesso più delicato, si comprende perchè i Beduini sentano sì altamente in poesia. La gente delle città, meno schietta di sangue, anco per cagion dei figliuoli che han da schiave negre, men forte, usa turbanti e fogge di vestire più spedite e di pregio, e con ciò non pare svelta nè elegante al par de' Beduini; unisce le passioni violente con la frode; le tenere non conosce, ma la libidine; usa poligamia, divorzii, concubine; sprezza e tiranneggia le femine, quando il può senza pericolo; sempre le allontana da' ritrovi; cerca in vece gli stravizzi: in ogni cosa mostra il predominio dei piaceri materiali sopra quei dell'animo. Tali i cittadini i cui costumi più discordino dai nomadi. Ma v'ha gradazioni tra gli uni e gli altri. Le popolazioni mercatantesche, stando sempre in cammino, partecipano del valore e sobrietà dei Beduini. Similmente le famiglie nobili delle città amano a imitare i guerrieri della nazione; e alcune usano mandare a balia i figliuoli appo le tribù del deserto, nelle quali sono educati fino all'adolescenza. Son poi virtù comuni a tutta la schiatta arabica la liberalità, l'ospitalità, il coraggio, l'audacia delle intraprese, la perseveranza; vizii comuni la superstizione, la rapacità, la vendetta, la crudeltà; tutti han pronto ingegno, arguto parlare, inclinazione alla eloquenza ed alla versificazione.

Riducendoci adesso al secolo che corse avanti la nascita di Maometto, si ponga mente a ciò, che la popolazione stanziale era meno frequente nell'Arabia di mezzo e men corrotta forse che in oggi; che la popolazione nomade vivea a un di presso nelle medesime condizioni presenti; e ch'entrambe riscoteansi insieme per quell'influsso che par sorga di epoca in epoca a rinnovare le nazioni. Lo suol rivelare al mondo il canto dei sommi poeti. Lo ravvisa la storia, nell'alacrità e brio universale d'una generazione innamorata d'ogni forma del bello; aspirante alle vie del sublime vere o false che fossero; arrivata a squarciare qua e là la ruvida scorza della barbarie che pur le resta addosso. La storia poi facendosi a spiegar così fatto commovimento non può trovar cagioni che appieno le soddisfacciano, e se ne sbriga con parole: ora il moderno gergo di avvenimenti provvidenziali e uomini provvidenziali, or la metafora della vita umana applicata bene o male allo sviluppo dei popoli.

Varii fatti par ch'abbian portato tal periodo in Arabia. Prima operò lentamente la industria dei mercatanti, i quali soleano trasportare le derrate dell'Affrica meridionale alle ricche contrade bagnate dallo Eufrate e dal Tigri, o quelle dell'India alla Siria; in guisa che lor carovane tagliassero in croce la penisola arabica da ponente a levante e dal mare di mezzogiorno a' confini del deserto a settentrione. Andavano, com'eravi men penuria d'acqua, lungo le due catene di montagne, l'una parallela al Mare Rosso, l'altra perpendicolare che si spicca dalla prima nell'Hegiaz, provincia ove sursero la Mecca e Medina. Verso il sesto secolo, sia per la decadenza dell'impero romano, e però della navigazione nel Mare Rosso ch'era stata aumentata dai Romani, sia per le vicende delle guerre che difficultassero i traffichi in su l'Eufrate, il commercio dell'India trovò più agevole che la via dei due golfi il lungo e faticoso tragitto dell'Arabia. Si accrebbero indi i guadagni dei mercatanti dello Hegiaz, le comunicazioni con popoli più inciviliti, la popolazione e attività del paese. Da un'altra mano gli Stati arabi d'Hira e di Ghassan, intimamente uniti l'uno alla Persia, l'altro a Costantinopoli, apprendeano molte parti di civiltà; e se ne spargea qualche barlume nelle tribù dell'Arabia centrale, comunicanti con Hira e Ghassan, e anco a dirittura coi due imperii, mescolandosi talvolta nelle continue guerre di quelli. A mezzo il sesto secolo accelerossi tal movimento per le relazioni di Giustiniano con l'Abissinia, i conquisti di Cosroe Nuscirewan, e la venuta degli Abissinii nel Iemen: poi il maraviglioso progredimento materiale dello impero persiano, l'occupazione del Iemen, resero popolare in tutta l'Arabia il nome dei Sassanidi e l'ammirazione di loro possanza e civiltà. Ma da tempo più lontano varie colonie ebree avean cominciato a venire in Arabia or fuggendo la dominazione straniera, destino implacabile di lor sangue, or attirate da quel fino lor sentimento dell'utilità commerciale. Gli Ebrei recavan seco loro il genio dell'industria, i ricordi d'un antico incivilimento e le teorie d'una religione spirituale; e, contro lor costume, davan opera a far proseliti per mettere radice nel paese. Notabili anco furono i progredimenti del cristianesimo. Non portava colonie, se non che qualche mano di ostinati spinti dalle chiese ortodosse a cercare asilo in estranei paesi. Ma scuoteano gli animi fortemente quel focoso zelo dei missionarii, quei principii sì efficaci a dissodare ogni terreno inculto, e la virtù della parola di che son lodati parecchi Arabi cristiani; sopra ogni altro il vescovo Kos, vivuto alla fine del sesto secolo e passato in proverbio come il più eloquente oratore della nazione. Il cristianesimo si sparse molto più nella schiatta di Kahtân e nelle due estremità della penisola, che nel centro e presso la schiatta di Adnân.

Per tal modo nascea tra la rude aristocrazia degli Arabi una età eroica che non impropriamente si è detta di cavalleria. Cominciano ad apparire atti di magnanimità nella guerra; alcune tribù si danno giorno e luogo al combattere; cavalieri escon dalle file a singolar tenzone: nella rotta, nelle più crude nimistà, offron asilo inviolato ai vinti le tende degli stessi vincitori; spesso in vece di mettere a morte il nemico abbattuto, i forti gli tosano i capelli della fronte e lo mandan via; le compensazioni degli omicidii, dopo provato il valore, più volentieri s'accettano; è consentita una tregua di Dio in certi tempi dell'anno. E allora le tribù nemiche seggono insieme al ritrovo di Okâz e altri di minor fama, fiere annuali insieme e accademie di poesia; quivi alcuna volta i guerrieri depongono le armi presso un capo, perchè lor indole impetuosa abbia meno incitamento alle risse; e quegli, vedendo non poter evitare la rissa, la prima cosa si affretta a rendere le armi ai nemici della propria tribù. Altrove quattro valorosi fanno tra loro un giuramento di difendere gli oppressi dall'altrui violenza, senza guardare a persona; e chiamasi dai nomi loro la lega dei Fodhûl: egregio esempio imitato poscia alla Mecca. Così la forza cominciò a parteggiare pel dritto. E, maggiore progredimento, si rinunziò tal volta all'uso della forza: famiglie rivaleggianti nel principato delle tribù, anzichè correre alle armi, venivano sostenendo lor nobiltà con dicerie e versi; rimetteano il giudizio ad arbitri stranieri, come nelle corti d'amore del medio evo.

Indi si vede che insieme coi costumi più generosi apparivano gli albori della cultura intellettuale. Fa ritorno nell'Arabia centrale la scrittura, che ormai vi si tenea com'arte ignota; ma pochissimi l'apprendono; difficilmente si pratica su foglie di palma, liste di cuoio, ed ossa scapolari de' montoni; si adopera a perpetuare qualche atto pubblico, non a conservare le produzioni dell'ingegno; le quali raccomandansi tuttavia alla memoria dei raccontatori, prodigiosamente rafforzata dall'esercizio, e che parve per lunghissimo tempo più comoda e sicura che le carte scritte. Avanti questa età gli studii degli Arabi, se studio può dirsi il brancolare di barbari ciechi dell'intelletto, non erano altro che le osservazioni degli astri applicate empiricamente alla meteorologia e i ricordi delle genealogie, e geste degli eroi. A poco a poco rischiarandosi ad una medesima luce tutte le regioni intellettuali, la saviezza pratica si affinò in filosofia morale; si cercò dietro le superstizioni qualche idea astratta, fallace forse ma grande; si meditò su le origini e arcane leggi del mondo; s'intese disputare di predestinazione, di libero arbitrio; sursero scettici che rideansi dei numi di lor tribù e della vita futura; si vide il poeta guerriero Imr-el-Kais gittare in faccia all'idolo di Tebala le frecce con che gli avean fatto tirare la sorte. Ed epicureggiavano più che niun altro i poeti: donde seguì un bizzarro contrasto con la letteratura contemporanea dei Greci e Latini, i quali, non sapendo ormai cavare una scintilla di genio da' loro tesori letterarii, dettavano ponderose omelie, o scipiti inni sacri; mentre gli Arabi ignari improvvisavano poesie spiranti la indifferenza filosofica di Lucrezio e il sentimento estetico di Omero e di Pindaro. Perchè prima degli altri esercizii dell'ingegno fiorì appo di loro, come necessariamente dovea, la poesia. Ai poeti classici dell'Arabia, nati in questo tempo, non s'agguagliò nessuno delle età precedenti nè delle seguenti; nè la eccellenza dei pochi imponea silenzio ai moltissimi mediocri. Per tutte le tende suonavano in versi i vanti, così chiamarono la poesia che noi diremmo eroica, vanti di nobil sangue, di valore, di liberalità; si celebravano la bellezza, gli amori, le guerre, le cacce, le corse dei cavalli; o la satira aguzzava il pungolo contro un uomo o una gente. E cento e cento lingue andavan ripetendo i versi del poeta ch'avea il grido: i grandi lo temeano sì da comperarne a caro prezzo il silenzio o la lode; la tribù facea pubbliche feste quando saliva in fama il suo cantore: alla accademia di Okâz il poema coronato, come noi lo diremmo, si trascrive a caratteri d'oro, e si sospende alle pareti del tempio.

Lo studio dell'eleganza nel dire, dalla poesia passò alla prosa; e lo promossero le tenzoni di nobiltà alle quali abbiamo accennato, e i sermoni degli Arabi cristiani; poichè il parlare in pubblico è la vera e unica scuola dell'eloquenza. Seguì ancora il perfezionamento della lingua e si sparse nell'universale un gusto per le bellezze della parola, non raffinato al certo come quello degli Ateniesi nel secolo di Demostene, ma forse non meno caldo e vivace. Così fatta disposizione estetica degli Arabi favorì assai l'apostolato di Maometto. Dagli esempii che ci avanzano, messo anche da parte il Corano, par che i pregii della eloquenza arabica in quel tempo fossero stati la purità della lingua, l'argutezza dei concetti, la vivacità delle imagini, il laconismo. E gli Arabi si vantarono sempre, tanto profonda era la loro ignoranza, di avanzare ogni altro popolo nell'arte della parola!

Tali principii ebbe il risorgimento della schiatta arabica nel secolo avanti Maometto. Al par che in tutte le età eroiche, la barbarie non avea per anco ceduto il campo. Stolide millanterie, brutali oltraggi provocano al sangue ad ogni piè sospinto; e il sangue chiama alla vendetta. Il gioco e il vino non fan rossore agli eroi. Appare stranissima intanto la contraddizione dei costumi nella condizione delle donne, le quali or disputano ai sommi la palma della poesia, reggono una casa col consiglio, e libere e adorate spirano sentimenti da romanzo; or son avvilite da patti di concubinaggio temporaneo, e talvolta venendo al mondo, si tengon peso della famiglia, pericolo dell'onore di quella, e i padri le seppelliscon vive. Allato a tanta abominazione, indovini e sibille; consultati dalle tribù nelle più gravi fortune; presi per arbitri dalle famiglie, anco quando ne va l'onore: l'universale crede al fascino, adopra sortilegii; chi spia il volo degli uccelli, chi legge l'avvenire intrecciando ramoscelli d'alberi, chi sorteggiando frecce senza punta. Donde a leggere i ricordi dell'Arabia in questo tempo si veggono confuse l'una con l'altra le fattezze dei periodi istorici analoghi che meglio conosciamo: dei tempi omerici, dei primi secoli di Roma e del medio evo. Alla cavalleria dell'Arabia non mancarono infine nè la moltiplicità dei protettori celesti, nè una città santa, nè il pellegrinaggio.

Le credenze religiose degli Arabi, ancorchè mal ferme, diverse d'origine, e niente connesse tra loro, davano appicco a un riformatore che imprendesse di ridurle ad unità. Primo avviamento a questo la idea d'un nume supremo; antichissima tradizione semitica, la quale appo gli Arabi mai non si dileguò, quantunque turbata dal politeismo. Credeano a una vasta popolazione d'esseri invisibili come i demonii degli antichi Greci, e chiamavanli Ginn che risponde alla nostra voce genii. Correa tra loro altresì una vaga speranza della immortalità dell'anima, non insegnata da metafisica nè da teologia, ma dalla superstizione, scuola senza dispute: e affermava che dal cerebro del trapassato escisse un gufo, il quale, sendo stata violenta la morte, non cessasse fino alla vendetta di mostrarsi ai parenti gridando: “ho sete, ho sete.” In altre pratiche superstiziose è agevole altresì di scoprire l'aspettativa della risurrezione.

Molti erano gli obietti del culto: idoli di pietra o di legno in sembianze umane, diversi nelle diverse genti; anco il sole, la luna, le costellazioni, simboleggiate da idoli o no; credute angioli, o com'essi diceano, le figliuole di Dio. Ma comechè amassero meglio praticare con cotesti iddii minori, visibili e palpabili, più pronti ad entrar nei particolari, ad ascoltare, a rispondere, ad aiutar l'uomo in ogni aspro caso della vita, pure la unità del culto e del Dio era serbata nella usanza antichissima che portava le tribù al pellegrinaggio della Caaba, la quadrata, come suona tal voce; la casa di Dio, come diceano gli Arabi anco avanti lo islamismo. Vaghe tradizioni ne riferivano la riedificazione ad Abramo e ad Ismaele; la prima fondazione a niuna mano mortale, poichè il rozzo tempio scese intero dal cielo. In prova se ne mostrava, e mostrasi tuttavia, un frammento: la pietra negra incastrata nell'angolo orientale del santuario; e nulla toglie che la tradizione riferisca il vero, e che la sacra pietra sia un pezzo di areolite o prodotto di eruzioni vulcaniche, sapendosi che ne siano avvenute in varii tempi alla Mecca. I mercatanti che fabbricavano questa città presso il tempio, coltivarono la proficua superstizione; istituirono sacerdoti, sagrifizii d'animali e riti di girare attorno la Caaba; e dettervi albergo a tutti gli idoli delle tribù, sì che divenne il panteon della nazione. E invano i cristiani abissinii, conquistatori del Iemen, faceano venire artefici di Costantinopoli, edificavano di marmi la splendida chiesa di Sana', mandavano la grida per invitar le tribù a quel nuovo pellegrinaggio; e fin moveano con un esercito per spiantare il rivale santuario della Mecca. Un miracolo lo salvò: fu esterminato lo esercito cristiano, forse dal vajolo e dalla rosolia che allor comparirono per la prima volta in Arabia. Il culto della Caaba divenne pertanto vero legame nazionale della schiatta arabica, e ne fe' come capitale la Mecca; i cui sacerdoti ordinarono un calendario con le stesse denominazioni di mesi che son rimaste in uso appo i Musulmani; regolarono la tregua annuale, primo passo all'unione della schiatta. E vicendevolmente si ripercossero in quel centro commerciale e religioso, le opinioni che germogliavano per tutta la penisola, recate da culti stranieri: il giudaismo, cioè, e il cristianesimo dei quali ho detto; e due di assai minor momento, cioè il magismo professato da qualche tribù del Golfo Persico, e il sabeismo, mistura d'una pretesa rivelazione e del culto de' corpi celesti, credenza antichissima che dura fin oggi, ma par non abbia giammai saputo accendere di zelo i settatori. Dond'egli avvenne che mentre l'universale degli uomini aspirava al perfezionamento morale e intellettuale appartenente ad età eroica, alcuni cittadini della Mecca lo cercarono a dirittura nella religione. Verso la fine del sesto secolo, un dì festivo in cui i Meccani tripudiavano intorno a loro idoli, quattro spiriti eletti si trassero in disparte; compiansero gli errori del volgo; diffidarono dei proprii ragionamenti, e si promessero di andare per estranei paesi in traccia della vera fede d'Abramo. Le non sospette tradizioni musulmane aggiungono che que' savii in lor viaggi profondamente studiassero la Bibbia, il Vangelo, il Talmud; conversassero coi dotti delle tradizioni giudaica e cristiana: e che al fine tre di loro si facessero cristiani; l'altro tornato in patria, perseguitato come novatore, spinto in esilio, perisse dopo parecchi anni, mentre ansioso correa di nuovo alla Mecca ad ascoltar la parola di Maometto.

Lo sviluppo di una nuova religione, apparecchiato da coteste condizioni di cose, fu favorito dalla forma del reggimento politico della Mecca. Questa città era stanza di parecchi rami della schiatta di Adnân; tra i quali a poco a poco prevalse la tribù dei Koreisciti, mercatanti, come si vuol che significhi il nome: e certo lo meritavano per essere, più che niuna altra gente, solerti e intraprendenti nei traffichi. Un Kossai, koreiscita, impadronitosi del sacerdozio della Caaba, chiamò alla Mecca altri rami di sua tribù; cacciò o assoggettò le vecchie genti, che di allora in poi veggiamo sempre confederate o clienti di case koreiscite; e sì ridusse la potestà politica in un consiglio degli anziani koreisciti detti Sâdât, ossiano i signori;140 aristocrazia, della quale ei si fe' capo, e come principe della città. Chiara mi sembra la distinzione del potere esecutivo e del legislativo nella rozza repubblica della Mecca; sottile forma di reggimento, che parrà stranissima in uno Stato ove non era potere giudiziario, nè magistrati civili o penali; ma le costumanze universali delle tribù spiegano cotesta anomalia. Alla morte di Kossai i discendenti di lui si contesero, e alfine si divisero l'autorità esecutiva; talchè rimaneano ereditarii in poche famiglie gli uficii pubblici: adunare il consiglio; dare i segni del comando ai capitani in caso di guerra; riscuotere una contribuzione per sussidio ai pellegrini poveri; soprantendere alla distribuzione delle acque; tener le chiavi del tempio; promulgare il calendario, cosa di grave momento, per cagion della tregua. Ma il reggimento non può dirsi oligarchia, poichè, se gli uficii eran pochi e sovente cumulati, il potere supremo risedea non in quelli ma nel consiglio. Durò tal ordine politico finchè l'islamismo non lo ridusse a municipalità. Negli ultimi anni intanto del sesto secolo, privati cittadini avean riparato al difetto delle leggi penali, nella stessa guisa che avvenne molti secoli appresso in Europa. Avendo un Koreiscita sfacciatamente preso la roba d'un mercatante straniero, parecchi generosi, e tra quelli si notava Maometto giovane di venticinque anni, s'adunarono a convito, si ingaggiarono a proteggere i deboli, cittadini o stranieri, liberi o schiavi, che ricevessero alcun torto alla Mecca da uomini di qual famiglia che si fosse. Chiamaronsi la lega dei Fodhûl, dal nome di quella più antica che ricordai di sopra: e giurarono il patto, invocando l'Iddio supremo, e libando in giro una coppa di acqua del sacro pozzo Zemzem. Questa era l'Arabia innanzi la predicazione di Maometto, ai tempi dell'ignoranza come opportunamente li nominarono i Musulmani.

138.Sce'b si chiama il tronco, come sarebbe Adnân; la prima diramazione si dice Kabîla; la seconda, I'mâra; la terza, Bain; la quarta, Fekhid; la quinta, A'scîra; la sesta, Fasîla: imperfette denominazioni e spesso confuse. Più comunemente la tribù vien detta Kabîla. Ho seguíto in tal distinzione l'antica e pregevole opera di Ibn-Abd-Rabbih (Kitâb-el-Ikd, Ms., tom. II, fol. 43 recto), che cita l'autorità di Ibn-Kelbi.
139.La Kufîa, Kefía o Keffieh, che si pronunzia in questi varii modi, è un fazzoletto quadro legato intorno al capo con doppii giri di una funicella di pelo, e scende al collo e alle spalle. Ordinariamente listato a verde e giallo, o tutto bianco. Il professore Dozy, Dictionnaire des noms des vêtements ec., p. 394, sostiene che la origine di questa voce sia italiana. Credo al contrario che gli Arabi l'abbian portato in Italia.
140.Sâdât è plurale di plurale, come lo chiamano i grammatici arabi, della voce notissima Sâid, signore. Con questo titolo significativo chiamansi i senatori della Mecca di quel tempo nelle antiche tradizioni che raccolse Ibn-Zafer nel libro intitolato Nogiabâ-'l-Ebnâ ossia dei “fanciulli egregii.” Se ne parla a proposito di un aneddoto di Maometto fanciullo di dodici anni, entrato per caso nella sala del consiglio, mentre vi si trattava un alto affare. Vedi il MS. di Parigi, Suppl. arabe 486, fol. 48 verso, e Supp. arabe 487… La presente citazione si riferisca al solo titolo che non credo sia dato da altro autore. La istituzione e autorità del consiglio è nota.
Возрастное ограничение:
12+
Дата выхода на Литрес:
28 сентября 2017
Объем:
701 стр. 2 иллюстрации
Правообладатель:
Public Domain

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