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Читать книгу: «In faccia al destino», страница 3

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Però la ragione mi diceva che la salvezza sarebbe nel dimenticar me stesso; e per dimenticarmi era necessario accrescere l'esercizio della volontà.

Come? Non in cose grandi o in cose gravi poteva più esercitarsi la volontà di un uomo annichilito. Mi ripetei che bisognava mi limitassi a piccoli desiderii, piccoli affetti, piccoli doveri.

Sì, anche doveri. L'amicizia me ne imponeva uno che cercai presentare alla mia coscienza come impellente. Guido e Marcella facevano all'amore e Claudio non ne sapeva nulla. Ed Eugenia sapeva, ma taceva e annuiva? Impossibile! Bugie; imbroglio! I due giovani avevano fiducia in me, ma io non dovevo prestarmi a ciò che un giorno mi costasse rimproveri; non dovevo tradir l'amicizia. Urgeva parlar a Guido, subito.

Gli parlai infatti, appena lo vidi.

Egli mi disse che sua madre voleva un gran bene a Marcella, perchè era una ragazza senza capricci; e ne aveva discorso lei stessa, alla signora Eugenia, delle intenzioni del figliolo.

– E Eugenia?

– Interrogò subito Marcella. – Sì che gli voglio bene, a Guido – (Il ragazzone contraffaceva, nella voce, anche l'innamorata). – Allora la signora chiamò me e mi fece una predica…

– Una predica? Eugenia?

– Un discorsetto: che senza il consenso di Moser non poteva permettermi d'essere assiduo; che, d'altra parte, finchè non fossi laureato, l'ingegnere s'opporrebbe… Capisce, lei, adesso, perchè abbiamo tanto giudizio? – conchiudeva Guido ingenuamente – Marcella io non la vedo che la sera…

– Di sera in casa…; di giorno alla finestra.

– Ahi! – Con una comica smorfia, che gli era abituale, egli significò il dispiacere d'essere stato scoperto.

Tuttavia, stando così le cose, io non avevo più nè diritti ne obblighi d'intromettermi. E Guido, in attesa della felicità, era felice. Laureatosi, eserciterebbe la professione per conservare il patrimonio; e ora studiava solo per superare gli esami. La ricchezza del padre; la fortuna di Moser; il carattere e le abitudini di sua madre; l'arrendevolezza di Eugenia, tutto era predisposto alla felicità di lui, tutto il mondo per lui. Che beatitudine!

Ma di nuovo che amarezza in me! O forse la contentezza altrui mi suscitava finalmente odio? Per fortuna non potevo odiar Mino, che mi assaliva con richieste di nuove favole. E Ortensia l'assecondava; come indovinasse che il proposito di adattarmi a loro mi farebbe bene.

Di su le ginocchia della sorella il fanciullo mi ascoltava ad occhi spalancati; entrambi mi ricompensavano di risate trionfali se attraverso i semplici intrichi portavo in salvo il debole dal forte, il topolino dal gatto, la pecora dal lupo, il bambino dall'orco.

Ma allorchè i miei ascoltatori ridevano più di cuore, io ricordavo Diderot:

«Amici! raccontiamo storielle! Finchè si dicon racconti non si pensa a nulla; il tempo passa e si compie la favola della vita senza accorgersene.»

Questo consigliava un uomo che aveva goduto il mondo con tumultuosa natura e ferrea fibra; che aveva negato Dio e proclamata la sovrana libertà della mente umana…

Ohi ma se tutte le gioie dell'amore, tutte le lusinghe dell'arte e del sapere, tutte le ebbrezze della gloria, tutte le frenesie di tutte le passioni, valgono in realtà meno che le favole della nostra fantasia, e lo scopo della vita è l'illusione, l'inganno, l'oblìo della vita, a che vivere?

… Appunto in quei giorni, ad accrescere la mia pena, un'anima semplice e umile presso a me benediceva la vita.

Per Eugenia era imminente il «gran giorno».

La sera prima di quello Ortensia mi chiamò.

– Venga con me!

– Dove?

– Dove? Dove? Venga con me: lo saprà. Avrà una bella improvvisata.

Mi fece andar da sua madre. La convalescente era ancora alzata nella poltrona, presso l'ampia finestra, e avevan spenta la lampada, poichè la luna, quasi piena a mezzo il cielo, bastava.

Eugenia sembrava una imagine di cera in un velo di luce bianca.

– Alzata? – io dissi entrando. – Non vi affaticherete troppo?

– Mi sento così bene – rispose. – Guardate che sera!..

– Una delizia! un incanto! Par di sognare! – esclamò Ortensia, entusiasta. – Io stasera sono felice.

Felice, venne ad appoggiare la sua guancia a quella della madre, come soleva.

– E Marcella? – chiese poscia la madre.

– Sono tutti nella terrazza.

– Va tu pure, se vuoi. Da me resta Sivori.

Quando Ortensia fu uscita, sedetti. A lungo tacemmo. Eugenia taceva forse perchè io ammirassi quello splendore; ed io tacevo indifferente. Finchè dissi:

– Dunque dimani vi avremo in giardino?

Allora la mia voce ruppe l'incantesimo di quella bianca luce che nel silenzio investiva la convalescente e ne rendeva bianco il pallido viso.

– Mi porteranno giù da voi. Solo a pensarci provo un piacere…; un piacere che non so esprimere. La mia guarigione è quasi un miracolo: è vero? Bene; immaginate, Sivori, che io abbia avuto un miracolo e me ne senta degna; abbia ottenuto una grazia per me e le mie figliole, dopo il perdono, dopo un'espiazione…

Scosse il capo.

– No, è impossibile esprimere il piacere che provo a pensare che tornerò alle mie faccende, che rivedrò i fiori, che potrò girare… Questa notte – proseguiva adagio adagio, quasi per ricuperare l'apparenza del sogno – questa notte ho sognato che prendevo dall'armadio la biancheria, per darle aria, e che l'odore della tela e il profumo di lavanda mi riempivano il cuore. Lo credete? anche adesso mi sento intorno il profumo di lavanda.

– Segno che siete guarita – dissi io freddamente – , ma che siete debolissima. Vi bisogneranno ancora molti riguardi.

L'ammonimento tolse da noi l'impressione di gioia che aveva avuta la sua voce trepida; e io non provavo che un'impressione di freddo, di silenzio e d'immobilità a guardare il lume di luna. Esanimi, gli alberi del giardino prolungavano ombre di morte. Nel cielo senza una nube il lume scialbo spegneva il palpitante mistero delle stelle e per me non rischiarava che l'impenetrabile vôlta d'aria sospesa su questo povero mondo, sbiancando con neri contrasti questo povero mondo diaccio, muto, scheletrico, quasi fosse tutto un cimitero.

Pensavo a Ortensia, a quel che aveva detto, alla sua felicità. Per lei, per gli altri, gravava al cuore una lenta dolcezza e in quello splendore un'anima fluiva per tutto e tutto era un'anima. Una creatura sola era priva di un tal senso di vaga letizia; io solo n'ero privo: il mio cuore n'era privo! Pativo in me la condanna di un'esclusione inumana; provavo una mortale stanchezza, come se su di me solo cadesse il peso di una maledizione universale. Invocavo le tenebre.

– Il piacere della convalescenza! – dissi a un tratto. – Ecco un piacere che non proverò più!

Eugenia fissò ne' miei occhi il suo sguardo appena percettibile.

Nei brevi colloqui, durante le visite che le facevo ogni giorno, avevo notato che essa cercava parlare di cose estranee a noi e piuttosto di sè che di me. Ma dopo quelle mie parole, pensò forse prossima l'ora in cui spontaneamente le rivelerei il mio animo, ed ebbe un accenno:

– Io ho da chiedervi perdono, Sivori.

– Perchè?

– Dubito che le ragazze e Mino v'importunino… Siete troppo buono con loro, soprattutto con Ortensia…; e io commisi l'errore…

L'interruppi.

– Credete forse che io resterei quassù, da voi, se qualcuno mi desse pena o se dubitassi di dar troppo pena a qualcuno?; se non mi paresse di star meglio qua che a casa mia?; se non fossi certo che in nessun altro luogo troverei amicizia così riguardosa, così paziente? – Ma ciascuna di queste interrogazioni era cercata per attenuare la durezza che mi restava nella voce e nell'aspetto.

Invece Eugenia fu commossa essa di gratitudine. Mormorò:

– Noi vorremmo vedervi contento, Sivori…; ma comprendo che purtroppo questo non sta nè in noi nè in voi.

– In chi sta, dunque? – chiesi con violenza mal repressa. Ella non rispose subito; poi rispose:

– In Dio.

Esclamai:

– Ah Dio mi ha tradito anche lui!.. Voi pensate che Dio bisogna cercarlo non nella mente ma nel cuore, è vero?

– Sì.

– Sì, perchè Dio dovrebbe esser la vita e la vita dovrebbe esser qui (mi toccavo il cuore). In tal caso (e cercai d'attenuare in forma dubitativa ciò che per me era certo) in tal caso, io comincio a temere che la vita non mi serbi più nulla, più nessun bene! Temo, Eugenia, che la mente mi abbia divorato il cuore.

– Sivori! Sivori! – pregava la buona donna. – Non vi abbandonate alla tristezza, al dubbio. Siete ancora giovane, non siete un debole…

Tacevamo di nuovo. Ingrato e tristo io invocavo Ortensia, o qualcun altro, a liberarmi, o a mutar discorso. E fui soddisfatto. Batterono all'uscio. Il cavalier Fulgosi veniva a portare i suoi omaggi, le sue congratulazioni, i suoi auguri alla «cara signora Eugenia».

– Come va, cara signora?

– Sono molto debole…

– Sfido! È stata una gran batosta! Ma adesso ne siamo fuori… A la bonne heure!

Ripigliò:

– Eh, io lo dicevo anche con mia moglie: la nostra signora Eugenia è più forte di quel che sembra. Vedrete che se la cava; vedrete! Poi è bene affidata. Un gran bravo dottorino, quel Minguzzi!; lo dicevo ieri col sindaco: un giovane studioso, tranquillo, in questi tempi che tutti i medici fanno i socialisti e dovrebbero piuttosto essere moderati. La scienza, è vero, dottor Sivori?, deve procedere adagio. Festina lente. Soprattutto la medicina. A lei, che più che un medico è un filosofo, posso confessarlo: nella medicina io ci credo poco. Medice, cura te ipsum! E per me, di medicine non ne prendo mai… Un po' di cremor tartaro, alle volte. S'intende però che nei casi seri, come il suo, signora Eugenia, bisognava aiutare la natura con tutti gli sforzi della scienza. Basta: ora ringraziamo il Cielo e stiamo allegri. Hurrà! Domani a desinare in casa Fulgosi si leveranno i calici alla salute della signora Moser, e mai toast sarà stato più cordiale.

– Grazie – ripeteva Eugenia, – grazie, cavaliere!

– E lei, dottore, benone? Si vede.

– Benone – io feci.

– Già l'ingegner Moser esagera a dire che il troppo studio ammazza. Eh! quando si è sani le fatiche intellettuali si sopportano come le altre… Ne so qualche cosa anch'io…

In quel mentre al lume di luna il cavaliere si guardava alle scarpette nere e lucenti: ad una delle quali il nastrino s'era sciolto, o almeno sembrava non più del tutto uguale all'altro. Lo ricompose; e rialzando il capo guardò alla luna e l'apostrofò a tu per tu.

– Casta diva… Che sera! eh, dottore? Peccato non aver vent'anni!.. Del resto, per tornare a quel che si diceva, mens sana in corpore sano; e, viceversa, se è sana la mente è sano anche il corpo. Quando non si è sani e forti, non si fanno le opere del dottor Sivori… No, no, dottore; mi lasci dire. Non è flatterie, è verità…

– Voi siete ancora molto debole, ed è tardi – io dissi a Eugenia, alzandomi…

VI

Nel giardino, dietro i due abeti gemelli, un folto di ligustri, mirti e semprevivi formava capanna. Là Claudio e il medico curante portarono, sulla poltrona, Eugenia. Li avevamo seguiti io e le ragazze, timorose queste; ma io non provavo niente di quel che provavano gli altri.

Più visibili, là fuori, erano nella convalescente le tracce della malattia che l'aveva prostrata; manifeste vene azzurrine segnavano alle tempie la pura fronte; profonde e oscure, nel pallore diafano del volto, le occhiaie; infossate le guance; violento il rilievo agli zigomi e alle mandibole. E le mani… così bianche! così affilate!..

– Ah Sivori! – ella mormorò con un pallido sorriso, quasi mi dicesse: «Come sono contenta».

– Zitta! – impose Moser. – Zitte anche voi! – disse alle ragazze, che non fiatavano e guardavano ora alla madre ora al medico.

Ma questi, ristato un po' in attenzione dinanzi ad Eugenia, si mostrò del tutto tranquillo per lei e pago di sè.

Io pensavo che avrebbe dovuto consigliarla a chiudere gli occhi, a riposare, forse anche a dormire, piuttosto che permetterle di guardare, ascoltare, accogliere di urto, subito, la vita che le ferveva intorno. Invece egli disse solo:

– Si ricordi, signora, che appena si sentirà stanca dovrà dirlo; e l'ingegnere e il dottor Sivori la porteranno in casa. Mi raccomando!

Dopo la quale raccomandazione e poche altre parole, prese commiato.

– Come ti senti? – chiedeva Moser indi a poco.

– Bene, tanto bene!

Per lasciarla tranquilla, Claudio si mise ad andar su e giù lungo il viale, al margine dell'erba, fermandosi a quando a quando a riguardare. Marcella, tacita, sedette sul sedile di macigno, presso alla madre e ripigliò il crochet; e Ortensia di su un più basso sedile di pietra, dall'altro lato, poggiava il mento su uno dei bracciali della poltrona; e non potendo tacere, susurrava puerili e dolci espressioni d'affetto: – Mamma buona…; mamma bella… – Io, in piedi, ero col dorso appoggiato a un tronco. Ora con interpretazione perspicace, sicura, seguivo in Eugenia ogni successiva impressione; i moti del cuore e dei nervi; la vicenda e l'aumento delle sensazioni; e insieme con queste il rampollare delle idee… Appena oso dirlo. Prevedevo che l'impeto della vita fra breve sarebbe, per la delicatezza e sensibilità di Eugenia, troppo rapido e violento; ma non ne avevo timore. Freddamente, curiosamente, l'osservavo; e senza sforzo, come per abitudine antica a oggettivarmi, vedevo tutto quello che succedeva in lei. Tutto!

Il suo viso, così pallido, esprimeva la meraviglia, lo stupore di una coscienza adulta in un corpo che rinasca; l'ineffabile, sovrumana letizia d'un'anima che scorga e misuri e accresca di sè un rinnovarsi di sensazioni infantili.

Poichè i suoi sensi, che il lungo riposo aveva affinati e indeboliti la malattia, non comportavano tutte le impressioni in una volta, ella, da prima, non potè non socchiudere gli occhi e raccogliersi come percepisse indistinta, dalla minor vista e dai più tenui fremiti, l'anima universa; e, con l'imaginativa, in ogni vena d'erba, sentì fluire dalla terra l'umor fresco, fecondo e perenne; e vide l'alito che molceva le foglie, passava tra le fronde; e potè discernere, fugaci o più vive d'ogni altro suono, recondite armonie di api e d'insetti. Che sapore incerto di menta e di timo! che vago profumo! Dei fiori, volle; ma poco odorosi, poco odorosi… Poi guardò; volse lo sguardo: a lungo attese a una turba di moscerini che in vortice, per un inesplicabile fine, s'incorreva entro una spera di sole; e la distrasse una ragnatela che fra due rami riluceva quasi d'argento; e vi tremava al disopra una foglia da una fibra sola trattenuta in un'agitazione alacre e incessante. Ma ecco: una capinera, lontana lontana, accennò, interruppe, riprese con arte. Mentre così cantava la capinera, lontana lontana, men lungi, repentinamente, un uomo urlò e prolungò un nome.

E intanto – anche prima? – l'arguto ribattere di un incudine, che nel suono rendeva una visione di sprizzanti scintille, a ogni colpo. Da presso, non prima udita, rumoreggiava per uomini e per carri la via: eppure non si perdette nel tumulto uno stridìo di rondini…

Ma stordiva il tumulto, a poco a poco sempre più vasto, molteplice, pieno: stormivano le frasche, cinguettavano i passeri, risonava la strada, e l'incudine; e umane voci; e uno schiamazzar di galline; e un trottar fondo di cavalli; e un rimbombar di echi. Un richiamo di mille voci in una voce sola; un clamoroso accordo d'innumerevoli creature in terra; una sensibile intesa di anime in cielo; una confusione enorme; un portentoso palpito; un'intensa fatica; una gioia insopportabile; un affanno mortale…

– Mamma! – gridò atterrita Ortensia, più pallida della madre. – Mamma! mamma! – invocò Marcella. E Claudio accorse.

Ma io, che avevo previsto, mi mossi appena.

– Non è nulla – dissi – ; una lieve commozione… È vero, Eugenia?..

Essa, scorgendo con quale angoscia avevan dubitato che mancasse, e strappandosi del tutto, con la volontà, da quella partecipazione intensa e da quell'abbandono della sua vita rinnovata alla vita universale, e risentendosi del tutto salva, nel sangue e nell'anima, salva per l'amore de' suoi, sorrise; e pianse.

Ripeto: tutto ciò, o per vista o con immaginazione positiva, io avevo osservato con «occhio clinico»; avevo inteso con scientifica penetrazione, misurato e valutato con razionale precisione, senza turbamento alcuno! Anche il grido d'Ortensia e di Marcella, e l'accorrere di Claudio, e le lagrime di Eugenia tutto, tutto «naturale», tutto «necessario», come la «funzione» d'un qualsiasi organo, o l'andamento di una qualsiasi macchina! Il miglior amico dei Moser era rimasto impassibile alla loro angustia. Non solo: io avevo taciuto ciò che, per aver previsto, avrei dovuto consigliare evitando agli altri un'apprensione grande, e un pericolo, forse, ad Eugenia…

Pensai allora, in quegli istanti, che anche un delitto in me era possibile… Possibile? Per provar rimorso indietreggiai nei ricordi; riflettei sul diritto che aveva Claudio alla mia gratitudine e al mio affetto: niente!.. Rammentai la bontà di Eugenia…: niente! Il mio cuore era sordo; il mio cuore era incurabile!..

– Rientriamo? – ripeteva, insisteva Claudio.

Eugenia pregava:

– Ancora un poco…: dite, Sivori?

– Ma si!; un poco…

… Ah che respinto del tutto in me stesso, non cercavo più che me stesso, disperatamente!

«Anche un delitto era possibile». Con rapida, ansiosa riflessione, volli accertarmi del mutamento in cui per qualche giorno avevo confidato; tutto quel che avevo detto e fatto ricercai con la disperazione di chi comprende d'aver tentato invano; e non vorrebbe credere…

Invano avevo ripreso l'esercizio della volontà; invano mi ero raccolto, per dimenticarmi, in azione e considerazione di piccole cose; invano avevo giocato con Mino e avevo voluto abbattermi nella puerilità.

Io era un uomo che una vendetta orrenda aveva gettato a vivere in un abisso e che di laggiù, dalla profondità tenebrosa, per rincrudimento alla condanna, riceveva fuggevoli barlumi… Peggio! Peggio! Io era un naufrago alla cui speranza era rimasto, in mezzo alle onde, il solo appiglio di fuscelli!

«Anche un delitto…» E perchè no? Forse mi bisognava ricorrere al male, a un male più grande, per uscire da quello stato in cui mi trovavo; ricorrere a qualunque mezzo… Io dovevo procurarmi forse un rimorso per mezzo d'una colpa a cui non potesse sfuggir più la mia coscienza.

Eugenia risollevò le palpebre. Sorrideva; mi sorrise.

– Vedete che la mamma ride? Vedete? – disse Ortensia beandosi nelle carezze che faceva a sua madre.

Io fissai Ortensia: bionda; rosea in viso; bella; con gli occhi luminosi; con un sorriso che aveva e dava luce. Che bella figliola!

Quale disgrazia se l'ala della morte toccasse d'improvviso quel fiore! se quella giovinezza cadesse atterrata; fatte smorte quelle guance; chiusi quegli occhi; fermo e freddo quel cuore: divenuta, a vederla in volto, quale il ragazzo che, da studente, avevo visto spolpare nella sala anatomica…

Ecco: c'era lì dinanzi a me una madre la cui esistenza era stata trattenuta per un filo, mesi e mesi, all'esistenza de' suoi… con tante cure! con tante ansie! con una vicenda crudele di speranze e disperazioni. Quante volte Claudio, mentre era tra gli operai e le opere, al veder sopravvenire qualcuno di casa, aveva temuta la notizia… Moribonda?.. morta?

Più d'una volta Marcella e Ortensia, sole nella camera vegliando la notte, col brivido, esse, della morte, avevano creduto che la madre assopita fosse morta…

Ebbene: questa madre ora sorrideva per piacere alla sua figliuola, che l'accarezzava; sorrideva, per non ingelosirla, pure a Marcella; e due vite tornavano a compiersi della sua, ch'era stata sospesa e tronca anche per loro; e nella loro si reintegrava la vita di lei. Che spaventevole commozione proverebbe mai un uomo…; proverei io, se d'improvviso… in un modo sanguinoso, precipitassi a colpire… io, al cuore… la più vivace di quelle tre creature?.. Che istantaneo strappo;… che strazio… se io lì, presente sua madre… io… in tanta gioia, nel silenzio di beatitudine così tranquilla, ora, in tanta luce… ammazzassi, io… strangolassi… Ortensia? Ah gettarmi su di lei! Un attimo…

Come mi trattenni? Sono certo che se avessi avuto un'arma avrei compiuto quel che pensai in quell'attimo. È vero! È vero! Un coltello… e l'avrei piantato nel cuore di Ortensia… Inerme, trattenuto forse dalla percezione di una insuperabile difficoltà materiale, ebbi il tempo di avvertire l'enormità del mio pensiero…

Rimasi come in preda a una allucinazione, con un nodo alla gola; eppoi con uno sforzo sovrumano uscii dalla capanna, adagio, senza gridare, disperato:

– Salvatemi! Salvatemi!

VII

Ero salvo.

Per quanto attento a me stesso io non comprendevo che vagamente quel che era accaduto dentro di me; e, non volendo ammettere d'essere lipemaniaco, la tentazione o l'allucinazione del delitto, che nei lipemaniaci è frequente, mi aveva lasciato uno stupore enorme e un orrore profondo. Tosto però ebbi l'impressione che finalmente mi si fosse disgelato il cuore; un'onda, quale di passione a lungo contenuta, irrompendo infrenabile, aveva sollevato dal petto il peso che mi soffocava; il rimorso m'aveva ridestata del tutto la coscienza.

Tornerei lieto di speranza? Smetterei per sempre quel sarcasmo che mi avvelenava le parole?

Non potevo ancor chiedermi questo. Neanche avvertivo che un indizio che il mio pensiero restava non poco torbido era nel bisogno di tornar a considerare i passi della mia vita dolorosa e di misurare gli sforzi sostenuti.

Che giorni! e a che prezzo avevo ricuperato la facoltà di sentire!

Sì: ora soffrivo; non rivedevo più Ortensia senza patire, patire veramente, un vero rimorso; desideravo che ella mi dicesse a parole o a sguardi che mi credeva buono. Non più per infingimento, ma per moto sincero dell'animo, cercavo ora di mostrarmi diverso… E cercai anche di mitigare le antipatie che mi avrebbero reso insopportabile. Così, di sera, scambiai qualche parola con le signore; lasciai che la Fulgosi, sbattendo le palpebre e raggricciando il naso, mi riferisse le delizie delle soirées aristocratiche; ascoltai dalla Learchi ricette di buon mangiare; concessi alla Melvi madre di narrarmi, in disparte, con grandi scossoni di risa, l'ultimo scandalo paesano. Ad Anna Melvi mi accostai senza quell'aria di uno che volesse provocarne l'ostilità, sebbene ancora mi urtasse l'intenzione manifesta in lei di sedurre il sicuro e guardingo Roveni; e le strizzavo l'occhio quando scomponeva quel manichino di Pieruccio. Ma di Pieruccio e delle sue occhiate languide a Ortensia mostravo di non curarmi affatto; Ortensia non gli badava e correva volentieri a raccontarmi tante cose! (E che orrore di me se, mentre Ortensia parlava, mi rammentavo del mio immaginario delitto!)

Fin al cavalier Fulgosi rivolgevo dimande intorno le condizioni politiche di Valdigorgo, col pericolo che la mia affabilità divenisse davvero per lui, com'egli diceva, una great attraction, cioè egli mi s'attaccasse come una sanguisuga.

Soprattutto mi sforzavo a rasserenarmi quando stavo con Eugenia, o rincasava Claudio.

Ogni giorno le ragazze ed io ci mettevamo con Eugenia al solito rezzo. Essendo noi soli, mentre le ragazze cucivano o ricamavano, non di rado cadeva il discorso; ma i brevi silenzi erano pieni d'anima; d'anime concordi nell'armonia del giorno e della vita. Io la sentivo, quell'armonia; non in me ma intorno a me. Sentivo…: io sentivo!

Allorchè non interloquiva Ortensia a bisticciarsi, per chiasso, con la sorella, interrompeva il silenzio la capinera da lungi, o, da presso, il reattino. Zerr…; ed ecco la più lieta fra le più liete creature del mondo, sbucare, balzar dalla siepe al cespuglio; penetrarvi svelto, riuscirne alacre; arrestarsi spiando, inchinando il capo per curiosità e drizzando la coda; e subito con un nuovo zerr, giù in terra!; e via, difilato, rapidissimo, a ficcarsi nel noto intrico, ove pareva trovar sempre qualche preda.

Diventò presto nostro amico, quel reattino così ardito e pettegolo, seppure il tremendo Mino non sopravveniva a spaventarlo; e quando s'era cibato ben bene, non dimenticava una modulata lista di note cadenti, sgranate e limpide, che si ricomponevano in trillo.

– Bravo!

– Dov'è?

– Sparito! S'è consumato nel canto.

Spesso interveniva Guido Learchi, o perchè si diceva mandato dalla madre a prender notizie della convalescente, o perchè passava di là «per caso». Io e Ortensia trovavamo i motti che pungevano lui e Marcella; ed egli arrossiva, si schermiva mal destro. Marcella levava dal ricamo il suo sguardo ombrato e trepido, quasi a dirci: «Sì, tutto il mondo lo sa che ci vogliamo bene. Non siate cattivi, voi due…»

Pur Eugenia, esente da inutile severità o furbizie materne, sorrideva.

E quanti fiori recava Guido Learchi! Per monti e boschi, con lo schioppo sulla spalla e tutto in pensieri di Marcella, raccoglieva fiori insoliti o non facili a raccogliere, che servissero a copia di ricamo: rododendri, campanule, anemoni, giacinti selvatici, salcerelle e rosse valeriane, in fascio con erbe odorose, bacche, foglie a vaghe tinte e a strane forme.

– Questo? – domandava Guido scegliendo, per l'esame di botanica, fra il mazzo.

Ortensia rispondeva con tali spropositi che lo scandalizzavano a lungo. Marcella, ingenua, correggeva:

– Euphrasia officinalis.

E noi a ridere; perchè ella sola rammentava le lezioni di Guido.

Finchè l'ora declinava, e il cielo, a lembi, tra i rami, e nella plaga verso i monti, impallidiva; e noi ad ogni suono di trotto nella strada, ci mettevamo in ascolto. Però fra i rumori vivaci o sordi, prossimi o lontani, io non avevo peranche appreso a distinguere il trotto del cavallo di Moser, che di subito le figlie e la madre lo riconoscevano, e annunziavano spesso a una voce:

– Il babbo!

Correvano le ragazze al cancello, o per la via. Eugenia si appoggiava al mio braccio e facevamo qualche passo incontro: Guido sgattaiolava.

– Ben arrivato! Babbo, babbo!

Nè prima la carrozza s'arrestava al cancello, che già Moser era a terra d'un salto; e se veniva dalla ferrovia, dopo più d'un giorno d'assenza, con maggior trasporto e fretta dava saluti e chiedeva notizie.

– Come va, Eugenia? Bene! Benone! Le bimbe? Benissimo! E tu, vecchio? (a me) E Mino?

Il monello, giungendo, gli si gettava al collo.

– Basta! Auff! Che caldo! Sono stanco morto! Capite: 35 gradi all'ombra, laggiù! – Perde, frattanto che snoda la cravatta e respira a pieni polmoni, con piena gioia, cartocci e carte; esprime dal volto onesto il sollievo della fatica; la consolazione come d'un premio meritato; la forza e la bontà. – Ah! ora sto meglio! Andiamo a sedere.

Tutti c'incamminiamo lasciando parlare lui solo; il quale si guarda felice intorno e par che non creda d'essere salvo dall'afa e dalla carcere e dalle faccende cittadine.

– Valdigorgo! Questo è il paradiso! Una delle più belle opere di Domineddio! Che cielo! Che aria! Che fresco!

Poi a vedere le figliole che corrono per il bicchiere di acqua, già prima d'esserne richieste, si ricorda che ha sete e urla:

– Marcella! Ortensia! un bicchier d'acqua! Ho sete!

– La fabbrica? – domanda Eugenia.

– A meraviglia! Siamo al terzo piano; e tra un mese…; insomma, un buon affare, Eugenia; sta sicura!

E arriva l'una o l'altra delle figlie col bicchiere annebbiato.

– Oh che acqua! l'acqua di Valdigorgo! Non vantarla sui giornali, amico (egli mi prega): se no, ce la portan via, o vengono a bercela!..

Segue una pausa, perchè le ragazze e Mino possan chiedere:

– La lana, babbo?

– La trottola?

– La lana?! la trottola?! Oh credete che non abbia per la testa, laggiù, che i vostri capricci? La fabbrica, i capomastri, gli artieri, le seccature; corri in provincia, in comune, allo studio, dai clienti: chi mi cerca, chi mi sfugge… Paga questo; licenzia quest'altro… E voi, come se nulla fosse, la lana? la trottola?

Ma poi egli trae di tasca il cartoccino della lana e lo getta alle ragazze; mentre parla a me:

– E tu hai scoperto finalmente la quadratura del circolo?

Rispondo: – Eureka! – quando già le ragazze strillano:

– Dio! che lana!

– Che colore! Cos'hai fatto, babbo? Ma il campione?

– Il campione! il campione! – brontola il padre. – Dunque non ci ho colto?..

– Un orrore!

– Eh… se l'avessi avuto, il campione!..

– Te l'ho dato!

– Te l'abbiamo involto in un pezzo di giornale. Lo mettesti nel gilet!

– Sì! E io sono corso dal negoziante, prima di partire. «Mi vuole della lana così…» Se non che il campione non si trova. Fuori tutte le tasche; cerca tra le carte, sul banco, sotto il banco, per la strada: irreperibile! Non importa: «mi dia della lana verde per pantofole… da regalarmi nel mio onomastico…»

Altro grido delle ragazze: – No! Non è vero!

Tuttavia, rifacendo la scena, prosegue egli:

– «Di verdi, signore, ce ne sono molti…»

«Bene, me li mostri…» Che volete? Io mi ricordavo tanto bene il tono della voce di Marcella quando mi disse «un verde così», che ho scelto tra le matasse a colpo sicuro.

– Vergogna!

– Cattivo!

– Scegliere la lana a orecchio!

– Eh… per pantofole…

– No: per un berretto da notte!

È questa la vendetta delle ragazze.

– Ah! infami! Un berretto da notte a me?.. a me?!

Infine Claudio si ricorda che è stanco e si rimette a sedere con le mani in tasca. Allora, non senza sua grande meraviglia, come a un miracolo, leva la destra con qualche cosa fra le dita…: il campione della lana.

Ma segue Mino, che richiede il giocattolo.

– Non mi amareggiare, figliolo! Non ho potuto comprarlo; non avevo più soldi…

Il ragazzo si vendica puntando, senza piangere, l'indice al viso del padre e accusandolo alla madre.

– Mamma: il babbo ha detto una bugia! Guarda! guarda che bugia!

Talora giunge anche Roveni, per il viale, con quel suo passo da conquistatore.

– Oh! Roveni! Novità?.. Andiamo!

E quell'uomo, stanco morto, corre col giovane nello studio; dove rimane fino a che, chiamato una terza volta a desinare, precipita in camera da pranzo, arrabbiandosi contro di me.

– Bravo, Sivori! Che uomo sei, perdio? Neppur buono a dar scodelle! Come fate quando non ci sono io?.. Vedi: si fa così!

Ma non è raro il caso che un ritardo ad afferrarla, o un disguido, rovesci, tra le grida e le risa, la scodella sulla tovaglia.

Egli, Moser, fu più lieto dopo che ebbe visto rischiararsi la mia faccia.

– Finalmente Valdigorgo ti fa bene anche a te – mi diceva. – Bada che sino alla prima neve non si parte di qua: nessuno!

Возрастное ограничение:
12+
Дата выхода на Литрес:
28 мая 2017
Объем:
350 стр. 1 иллюстрация
Правообладатель:
Public Domain

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