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«Lui no, e io sì? Oh bella!» pensò Rocco, nel silenzio della scala.

«È finita! ora è finita!»

Si levò in piedi e, accendendo un altro fiammifero, si mise a risalire la scala, con gli occhi alla lettera che aveva ancora in mano.

«Che vorrà dire?…» Domandava a se stesso, cercando di decifrare il motto dell'Alvignani inciso in rosso in capo al foglio:

NIHIL – MIHI–CONSCIO.

III

L'ombra, poi man mano il bujo avevano invaso la stanza, ove la madre aveva accolto Marta scacciata dal marito. Nel bujo, la suppellettile di vetro su la tavola, già apparecchiata per la cena prima dell'arrivo di Marta, ritraeva dalla strada qualche filo di luce.

La signora Agata Ajala, altissima di statura e corpulenta, ma con una dolcezza nello sguardo e nella voce che pareva volesse subito attenuare, in chi la guardava o le parlava, l'impressione sgradevole che il suo corpo doveva per forza destare; rientrando dalla saletta dove poc'anzi la avevano chiamata, intravide all'improvviso lume, nell'aprir l'uscio, le due figliuole sul canapè di fronte: Marta con un fazzoletto sul volto abbandonata su la spalliera, e Maria che le teneva una mano, china su lei.

– Vuol partire… – annunziò, quasi istupidita dall'inattesa sciagura.

– Mamma, ha saputo… ha saputo, – disse allora Marta scrollando il capo e torcendosi le mani. – Ha saputo e non vuol più tornare a casa. Non perdona, lo so. Va' tu a trovarlo; digli che torni, mamma; io me ne vado. Lo so, non mi crede più degna di stare in casa sua. Digli che vi sono venuta… così, perché non sapevo dove andare. Me ne vado. Non sapevo dove andare.

Due care braccia, tese in un impeto di commozione, la attirarono a sé.

La madre disse:

– Dove volevi andare? Dove puoi andare? Rimani, rimani qua, con Maria. Andrò a parlargli…

Si tirò sul capo e si avvolse attorno al collo uno scialletto nero di lana, e uscì.

La larga strada del sobborgo, molto animata durante il giorno, restava poi, la sera, silenziosa e sola come una contrada di sogno, con le alte case in fila, su le cui finestre la luna rifletteva un verde lume qua e là. Un greve, interrotto sfilar di nubi fumolente velava a quando a quando la pallida e fresca serenità lunare e gettava ombre cupe su la strada umida.

Oh San Francesco! invocò la madre, alzando una mano verso la chiesa in fondo alla strada.

Lì, a pochi passi dalla casa, su la stessa strada suburbana, sorgeva la vasta concerìa, di cui Francesco Ajala era proprietario. Appressandosi, ella scorse il marito a un balcone del primo piano; tremò al pensiero d'affrontarne l'ira e il dolore, sapendo purtroppo a quali terribili eccessi potevano trascinarlo. Era alto più di lei, e il corpo gigantesco si disegnava in ombra nel vano luminoso del balcone.

Due erano le sciagure, non una sola. E questa del padre assai più grave di quella di Marta. Perché, a ragionare con un po' di calma e aspettando qualche giorno, la sciagura della figlia forse si sarebbe potuta riparare. Ma col padre non si ragionava.

La signora Ajala già da un pezzo aveva imparato a misurare ogni dispiacere, ogni dolore, non per se stesso, che le sarebbe parso poco o niente, ma in considerazione delle furie che avrebbe suscitato nel marito. Se talvolta, buon Dio, per il guasto o la rottura di qualche oggetto anche di poco valore, ma di cui difficilmente si sarebbe potuto trovare il compagno in paese, tutta la casa piombava nel lutto, nella costernazione più grave… E i vicini, gli estranei, risapendolo, ne ridevano; e avevano ragione. Per una boccettina? per un quadrettino? per un ninnolo qualunque? Ma bisognava vedere che cosa importasse per lui, per il marito, quel guasto o quella rottura. Una mancanza di riguardo, non all'oggetto che valeva poco o nulla, ma a lui, a lui che l'aveva comperato. Avaro? Nemmen per sogno! Era capace, per quel ninnolo di pochi bajocchi, di mandare in frantumi mezza casa.

In tanti anni di matrimonio, ella era riuscita con le dolci maniere ad ammansarlo un po', perdonandogli anche, spesso, torti non lievi, senza mai venir meno tuttavia alla propria dignità e pur senza fargli pesare il perdono. Ma un nonnulla bastava di tanto in tanto a farlo scattare selvaggiamente. Forse, subito dopo, se ne pentiva; non voleva, però, o non sapeva confessarlo: gli sarebbe parso d'avvilirsi o di darla vinta: desiderava che gli altri lo indovinassero; ma poiché nessuno, nello sbigottimento, ardiva nemmeno di fiatare, egli si chiudeva, s'ostinava in una collera nera e muta per intere settimane. Certo, con segreto dispetto, avvertiva il troppo studio nei suoi di non far mai cosa che gli désse pretesto di lamentarsi minimamente; e sospettava che molte cose gli fossero nascoste; se qualcuna poi veramente ne scopriva anche dopo molto tempo, lasciava prorompere furibondo il dispetto accumulato, senza riflettere che ormai quelle escandescenze erano fuor di luogo, e che infine s'era fatto per non dargli dispiacere.

Si sentiva estraneo nella sua stessa casa; gli pareva che i suoi lo tenessero per estraneo; e diffidava. Specialmente di lei, della moglie, diffidava.

E la signora Agata, infatti, soffriva sopra tutto di questo: che nell'animo di lui fossero impressi due falsi concetti di lei: l'uno di malizia, l'altro d'ipocrisia. Tanto più ne soffriva, in quanto che lei stessa si vedeva spesso costretta a riconoscere che non senza ragione egli doveva credere così; perché davvero ella, mancando ogni intesa fra loro due, talvolta era forzata dai bisogni stessi della vita a far di nascosto qualcosa ch'egli non avrebbe certamente approvata; e poi a fingere con lui.

Era sicura adesso la signora Agata, che il marito, nel furore, le avrebbe rinfacciato tutte quelle lievi concessioni che in tanti anni era riuscita con la dolcezza a ottenere.

– Francesco! – chiamò con voce umile, nel silenzio della strada.

– Chi è là? – domandò forte l'Ajala, scotendosi, curvandosi su la ringhiera del balcone. – Tu? Chi ti ha detto di venire? Vàttene! vàttene via subito! Non mi far gridare di qua!

– Apri, te ne supplico…

– Vàttene, t'ho detto! Non voglio veder nessuno! A casa! subito, a casa! No? Scendo, sai?

E Francesco Ajala, diede uno scrollo poderoso alla ringhiera di ferro, e si ritrasse.

Ella attese a capo chino, come una mendicante, appoggiata al portone, asciugandosi di tanto in tanto gli occhi con un fazzoletto che teneva in mano da quattr'ore.

Un rumore di passi per il lungo androne interno, cupo, rintronante: lo sportello a destra del portone s'aprì, e l'Ajala, curvandosi, sporgendo il capo, afferrò per un braccio la moglie.

– Che sei venuta a far qui? Che vuoi? Chi sei? Non conosco più nessuno io; non ho più nessuno; né famiglia né casa! Fuori tutti! Fuori! Schifo mi fate, schifo! Vàttene via! via!

E le diede un violento spintone.

Ella rimase, col braccio indolenzito dalla stretta, davanti al vano dello sportello; poi entrò come un'ombra, rassegnata ad aspettare ch'egli si votasse il cuore di tutta la collera, rovesciandogliela addosso; decisa anche a farsi percuotere.

In mezzo al bujo androne, l'Ajala, con le mani intrecciate dietro la nuca, le braccia strette intorno alla testa, s'era messo a guardare la grande porta a vetri, in fondo, cieca nel blando chiaror lunare. Si voltò, sentendo nel bujo piangere la moglie; le venne incontro con le pugna serrate, ruggendo con scherno:

– L'hai ricevuta in casa? Te la sei baciata, carezzata, lisciata, la tua bella figlia? Che vuoi ora da me? Che aspetti qua? me lo dici?

– Vuoi partire… – singhiozzò ella, piano.

– Subito, sì! La valigia…

– Dove vuoi andare?

– Debbo dirlo a te?

– Ma anche… per sapere ciò che debbo prepararti… quanto starai fuori…

– Quanto? – gridò lui. – E t'immagini ch'io possa ritornare? rimettere piede nella vostra casa svergognata? Via per sempre! In galera o sottoterra. Lo raggiungerò! lo raggiungerò! Oh, a costo di…

– E ti par giusto? – arrischiò ella, desolatamente.

– No, ma che! no! – tuonò egli con un ghigno orribile. – Giusto è che una figlia insudici il nome del padre! che si faccia scacciare come una sgualdrina dal marito, e che poi venga a insegnarne l'arte alla sorella minore! Questo è giusto, questo è giusto per te, lo so!

– Come vuoi tu, – diss'ella. – Ma io ti domandavo se, prima di lasciarti andare a un tale eccesso, non ti pareva che convenisse piuttosto…

– Che cosa?

– Vedere se fosse possibile evitare lo scandalo.

– Lo scandalo? – gridò egli. – Ma se Rocco è venuto qua!

– Qua?

– A mostrarmi le lettere!

– Ah, tu le hai vedute? – domandò ella con ansia. – L'ultima? C'è la prova che Marta…

– È innocente, è vero? – scattò egli, afferrandola per un braccio, respingendola, andandole addosso di nuovo. – Innocente? Innocente? hai il coraggio di dire innocente davanti a me? E qua, qua, qua, rossore, qua, ne hai? rossore, qua?

E, in così dire, si percosse più volte furiosamente le guance. Poi ripigliò:

– Innocente… Con quelle lettere? Avresti fatto lo stesso, dunque, tu? Sta' zitta! Non arrischiarti a scusarla!

– Non la scuso, – gemette ella, piano, con strazio. – Ma se ho la prova, io, la prova che mia figlia non merita il castigo che le si vuole infliggere…

– Ah, questo, – tonò cupamente l'Ajala, – questo l'ho detto anch'io a quell'imbecille…

– Vedi? – gridò la moglie, quasi ilarata da un lampo di speranza.

– Ma poi egli mi chiese se io, al posto suo, avrei perdonato… Ebbene, no! Perché io, – aggiunse, riafferrando per le braccia la moglie e scrollandola forte, – io non t'avrei perdonato: ti avrei uccisa!

– Senza colpa.

– Per quella lettera! Non ti basta?

– Marta, sì, sarà colpevole, – si piegò allora ad ammettere la madre, – ma d'una leggerezza, non d'altro. Ma ora tu che vuoi fare? Partire, affrontare colui, tu! E non intendi che la sciagura, così… Lasciami dire, per carità! Ho fede, io, ho fede che un giorno, presto, la luce si farà…

– Non scusare! Non scusare!

– Non scuso Marta, no; accuso me, va bene. Me, me, perché io non dovevo lasciarlo fare questo matrimonio…

– Accusi anche me, dunque?

– Ma se tu stesso l'hai detto! Non te n'eri pentito? Abbiamo avuto troppa fretta di maritarla, e confessa che abbiamo scelto male! E quel che le toccò soffrire sotto la tirannia di quella strega della zia e del padre infame, prima che Rocco si risolvesse a far casa da sé? Questo non la scusa, sì, è vero, lo so; ma può rendere, mi sembra, meno severi nella pena. E pure una disgraziata… sì, una…

Non poté seguitare. Nascose il volto nel fazzoletto scossa dai singhiozzi irrefrenabili.

Egli, con un gomito appoggiato al muro e la fronte nella mano, scompigliava ritmicamente col piede un mucchietto di ferruche raccolte lì nell'androne, e, con le ciglia giunte, irsute, aggrondate, pareva solo intento a quell'esercizio del piede. Poi disse con voce cupa:

– Giacché la colpa è mia e tua, questa è la nostra condanna, e dobbiamo scontarla. Bada! Rientro con te in casa; sarà, d'ora in poi, la mia e la tua prigione. Non ne uscirò che morto!

Andò sù per chiudere il balcone rimasto aperto. La moglie attese un pezzo, nel bujo dell'androne; poi, vedendolo tardare, salì anche lei. Lo trovò con la faccia contro il muro, che piangeva, solo.

– Francesco…

– Via! via! via!

La spinse avanti, di furia. Chiusa la concerìa, fecero in silenzio il breve tratto fino a casa. Davanti alla porta, ordinò alla moglie di salire avanti, aggiungendo, minaccioso:

– Non debbo vederla!

Poco dopo, salì anche lui e andò a chiudersi a chiave in una camera, al bujo; si buttò sul letto, vestito, con la faccia affondata nei guanciali, stringendo con una mano la testata della lettiera.

Giacque così tutta la notte. Di tratto in tratto, balzava a sedere sul letto. Tendeva l'orecchio. Nessun rumore per casa. Pure nessuno certo dormiva.

Quel profondo silenzio gl'irritava sordamente l'interno tumulto dell'anima violenta. Così seduto, si torturava le gambe, le braccia, con le dita artigliate, stretto alla gola da una voglia rabbiosa, impotente, di piangere, d'urlare. Poi ricadeva sul letto, riaffondava la faccia nel guanciale bagnato di lagrime.

Come! Aveva dunque pianto?

A poco a poco, sotto l'incubo dei pensieri che gli si presentavano sempre con la medesima forma, col medesimo giro, si stordì e rimase a lungo immobile, quasi inconsapevole, sospirando di tratto in tratto, stanco; ridestandosi talora con la coscienza ottusa e la sensazione soltanto degli occhi aridi, sbarrati nel bujo della camera.

Poi le fessure delle imposte cominciarono a schiarirsi. Grado grado, quei fili esili d'umido albore s'accesero vieppiù nel bujo, rifulsero biondi: il sole!

Egli dal letto, con le mani intrecciate dietro la nuca, guardava le imposte. Giù per la strada cominciava il trànsito continuo dei carri, ed era come se gli passassero per la mente: li vedeva, così giacente e compreso ancora dal tepore del letto e della camera, con l'anima appena risentita. Di fuori, il giorno… il lavoro… Gli operaj, seduti l'uno accanto all'altro sul marciapiedi, aspettano che s'apra il portone della concerìa. Ecco, suona la campana, entrano, a due a due, a tre, allegri o taciturni, con un fagottino sotto il braccio. Il vecchio Scoma, ah, quegli non parla mai… sua figlia…

Anche mia figlia! anche mia figlia! Peggio di quella! Quella non tradì, fu tradita; e ora la miseria…

Balzò dal letto, quasi per correre da Marta e afferrarla per i capelli, trascinarla per casa, percuoterla a sangue.

Due picchi all'uscio, timidi.

– Chi è? – gridò sobbalzando.

– Io… – sospirò una voce, dietro l'uscio.

– Via! Non voglio veder nessuno!

– Se hai bisogno…

– Via! via!

E sentì i passi della moglie allontanarsi pian piano, e li seguì col pensiero nelle altre stanze. Dov'era «ella»? che faceva? poteva aver l'ardire di parlare, di guardare in faccia la madre, la sorella? e che diceva? Svergognata! svergognata!

Il pensiero di lei, la curiosità di vederla, il bisogno quasi di sentirla tutta piangere tremante sotto gli occhi suoi senza concederle il perdono supplicato in ginocchio, lo tennero tra le smanie tutto il giorno. Aveva lasciato la camera al bujo, ed era giunto a sentir finanche orrore delle fessure luminose delle imposte che gli ferivano gli occhi ogni qualvolta si voltava, passeggiando.

Sul tardi, condiscese ad aprire alla figlia minore. Aprì l'uscio e si stese di nuovo sul letto.

– Richiudi subito!

Maria richiuse subito l'uscio e posò a tasto una tazza di brodo sul tavolino da notte.

– Ti senti male?

– Non mi sento nulla, – rispose con durezza.

Maria sedette, sospirando piano, a piè del letto, col tovagliolo tra le mani.

Egli si levò su un gomito, forzandosi a discernere la figlia nel bujo.

Maria non era mai stata la preferita. Era cresciuta quasi all'ombra di Marta, e da se stessa pareva si fosse acconciata al còmpito di stare accanto alla sorella adorata per farne meglio risaltare l'ingegno, lo spirito, la bellezza. Nessuno aveva mai badato a lei, né ella se n'era mai neppure lagnata fra sé, vinta anch'essa dal fascino di Marta. Pensieri e sentimenti erano rimasti chiusi in lei, quasi non richiesti da nessuno. E né il padre né la madre pareva si fossero peranche accorti ch'ella era cresciuta, ch'era ormai donna. Non bella, né vaga; ma dagli occhi e dalla voce spirava tanta bontà e dagli atteggiamenti così timida grazia, che riusciva a tutti irresistibilmente simpatica.

– Maria, – chiamò con voce rauca il padre, ancora nella stessa positura.

Maria accorse al letto e si sentì all'improvviso cingere e serrare forte dal braccio di lui, si sentì sul seno la testa del padre. Così piansero entrambi, senza dir nulla, vieppiù stretti, a lungo.

– Vàttene, vàttene… – diss'egli alla fine, angosciato. – Non voglio nulla… Voglio restar solo…

E la figlia obbedì, tremante ancora dalla tenerezza inattesa.

IV

Maria aveva ceduto a Marta la cameretta, in cui questa soleva dormire da ragazza. Nulla era mutato in essa, nulla di suo vi aveva messo Maria.

Era ancora lì quel caro armadietto dalle antiche pitture villerecce su gli sportelli, alle quali la pàtina veramente aveva più aggiunto che tolto. Era ancora lì il tavolinetto da lavoro della nonna dall'impial-lacciatura arsa e scoppiata da tanto tempo, da quella sera, in cui ella vi aveva lasciato cader sù il lu-me e per poco la fiamma non le si era appresa alle gonnelle. Ecco lì ancora, accanto al lettuccio d'ot-tone, l'acquasantiera di vetro e, sotto, la rametta di palma col nastro roseo, ora sbiadito.

C'era acqua santa in quella piletta? Oh, certo sì: Maria era tanto divota!

E al capezzale l'ECCE HOMO d'avorio, riparato da una lastra concava dentro la cornice ovale, nera; l'ECCE HOMO che una volta aveva chinato in segno d'assentimento il capo incoronato di spine a lei e a Maria accorse una dopo l'altra a supplicarlo per la madre colta da improvviso malore.

Marta non era mai stata superstiziosa; pure quel segno non le era uscito mai più dalla memoria, con lo strano sgomento nel sapere dalla sorella, alquanto tempo dopo, che anche a lei era parso di vedere l'ECCE HOMO chinare il capo in segno di assentimento.

Allucinazioni, certo! Ma, tuttavia, perché non osava adesso alzar gli occhi a guardare quell'immagine sacra al capezzale?

Non era davvero innocente? Aveva forse amato l'Alvignani? Ma via! Non le pareva neanche ammis-sibile che qualcuno potesse crederci sul serio. Tutto il suo torto consisteva nel non aver saputo re-spingere, come doveva, quelle lettere dell'Alvignani. Le aveva respinte, ma da inesperta, risponden-do… A ogni modo, non si sentiva in nulla, per nulla colpevole verso il marito.

Della furtiva corrispondenza epistolare aveva letto con interesse solo quella parte che si riferiva al caso di coscienza tanto grave, quanto ingenuamente da lei esposto all'Alvignani in risposta alle pri-me lettere di lui troppo filosofiche, per disgrazia, nella loro composta sentimentalità.

Delle frasi d'amore non s'era curata, o ne aveva riso, come di superfluità galanti e innocue. S'era in-somma impegnata tra loro due una polemica puramente sentimentale e quasi letteraria, la quale era durata così circa tre mesi, e di cui forse, sì, si era un po' compiaciuta, nell'ozio, nella solitudine in cui la lasciava il marito. Curando la forma, scegliendo le frasi come per un componimento scolastico, era orgogliosa di fronte a se stessa di quel segreto duello intellettuale con un uomo quale l'Alvignani, avvocato di grido, lodato, ammirato, corteggiato da tutta la città, che si preparava a eleggerlo depu-tato.

L'irrompere del marito nella camera, mentr'ella leggeva la lettera, nella quale per la prima volta l'Al-vignani s'era arrischiato a darle del tu, la scena violenta che n'era seguita, l'aveva stupita e spaventata tanto più, in quanto che si sentiva, leggendola, affatto calma e indifferente. Innocente, diceva lei.

A ogni donna onesta, che non fosse brutta, poteva capitar facilmente di vedersi guardata con strana insistenza da qualcuno; e se colta all'improvviso, turbarsene; se prevenuta della propria bellezza, compiacersene. Ora a nessuna donna onesta, nel segreto della propria coscienza, sarebbe sembrato di commettere peccato in quell'istante di turbamento o di compiacenza, carezzando col pensiero quel desiderio suscitato, immaginando in uno sprazzo fuggevole un'altra vita, un altro amore… Poi la vi-sta delle cose attorno richiamava, ricomponeva la coscienza del proprio stato, dei proprii doveri; e tutto finiva lì… Momenti! Non si sentiva forse ciascuno guizzar dentro, spesso, pensieri strani, quasi lampi di follia, pensieri inconseguenti, inconfessabili, come sorti da un'anima diversa da quella che normalmente ci riconosciamo? Poi quei guizzi si spengono, e ritorna l'ombra uggiosa o la calma luce consueta.

Senza volerlo, senza sapere precisamente in qual modo, si era trovata presa, avviluppata in un intrico.

Dalla paurosa sorpresa nel vedersi buttare dall'Alvignani la prima lettera e dalla incertezza tormentosa sul partito da prendere per impedire che colui seguitasse, non sapeva più come, ella – onesta, one-sta, figlia di gente onesta – ecco qua, era potuta man mano arrivare fino a quel punto, senza alcun so-spetto. Ah, quante imprudenze aveva commesso quell'uomo avanti che le buttasse la prima lettera e dopo! Ora le notava; ora se ne sentiva offesa.

Quelle tendine delle finestre dirimpetto non avevano requie: sollevate da una parte o dall'altra, poi d'un tratto abbassate; e certe subitanee scomparse dalla finestra, e certi segni del capo e delle mani… E aveva potuto ridere, allora, ridere di quell'uomo già maturo, rispettabile, che si rendeva davanti a lei così ridicolo, imbambolito…

Ma a qual mezzo avrebbe dovuto appigliarsi per fare che colui smettesse dal tormentarla? Compromettere il padre? il marito?

N'era esasperata, avvilita; e pur non di meno gli occhi le andavano sempre lì, alle finestre di-rimpetto, involontariamente, quasi per forza di legamento, lì… Usciva sovente, per sottrarsi a quella tentazione puerile; si recava per intere giornate alla casa paterna; e qua costringeva Maria a sonare, a sonar sempre la stessa cosa, una vecchia e mesta barcarola.

– Marta, ebbene?

E lei, sprofondata sul divano, rispondeva con voce flebile e gli occhi invagati:

– Sono lontano… lontano…

Maria rideva, e a Marta risonavano ora negli orecchi le risate schiette della sorella. E seguitava a ri-cordare, a rivedere col pensiero. Nel salotto entrava la madre, che le domandava del marito.

– Al solito… – le rispondeva lei.

– Sei contenta?

– Sì.

E mentiva. Non che avesse da ridire su la condotta di lui; ma ecco, le rimaneva in fondo all'anima un sentimento ostile, non ben definito; e non da ora: fin dal primo giorno della promessa di matrimonio, allor che a lei, ragazza di sedici anni appena, tolta dal collegio, agli studii seguiti con tanto fervore, Rocco Pentàgora era stato presentato come promesso sposo. Era un sentimento di vaga oppressione ricacciato dentro e soffocato dalle savie riflessioni dei genitori, che nel Pentàgora avevano veduto un partito conveniente, un buon giovine, ricco… Sì, sì; e lei aveva ripetuto come sue queste savie considerazioni della madre e del padre alle compagne di collegio dalle quali aveva voluto prendere commiato; come se da bambina tutt'a un tratto fosse diventata vecchia, provata e sperimentata nel mondo.

Qua e là le pareti della cameretta serbavano tuttavia alcune date scritte da lei: ricordi, certo, di anti-chi trionfi di scuola o d'ingenue feste tra amiche o di famiglia. E su quelle pareti e su tutti quegli og-getti umili semplici e cari pareva che il tempo si fosse addormentato e che ogni cosa là dentro ser-basse l'odore del suo respiro. E Marta col pensiero rifrugava nella sua vita di fanciulla.

Quante volte non aveva udito, standosene con gli occhi intenti e lo spirito vagante, quel crepitìo del-le prime piogge su i vetri delle finestre; quante volte non aveva veduto quella luce scialba, malinco-nica, nella cameretta raccolta, con la sensazione dolce nell'anima dei prossimi freddi, al declinare dell'autunno nuvoloso, dei brividori che fan le notti invernali, innanzi al mattutino?

Maria guardava la sorella, stupita di quella calma, e quasi non credeva agli occhi suoi, offesa nel cuore dall'indifferenza con cui Marta pareva si fosse ora acchetata alla sciagura, come se la tempesta non le fosse passata or ora sul capo. "Eppure non ignora" pensava Maria, "in quale stato s'è ridotto il babbo per causa sua!". E quasi piangeva dalla pena di non veder la sorella come avrebbe voluto, umile cioè, desolata, vinta nel suo cordoglio e inconsolabile, come nei primi giorni dopo il ritorno in casa.

Marta infatti non piangeva più. Dopo aver confessato tutto alla madre, tutto, fin nei minimi partico-lari, nei più intimi e segreti sentimenti, aveva sperato che il padre almeno, se non più il marito, le rendesse giustizia, e si rimovesse da quel proposito di non uscire più di casa, ch'era per lei, di fronte a tutto il paese, una condanna anche più grave di quella che il marito con sì poca ragione aveva volu-to infliggerle, scacciandola dal tetto coniugale.

Così egli, suo padre, confermava l'accusa del marito e la infamava irrimediabilmente. Come non lo intendeva?

Aveva domandato con ansia alla madre se avesse riferito al padre la confessione, e la madre le aveva detto di sì.

Ebbene? Irremovibile?

Da quel momento, non aveva più versato una lagrima. Si era sentita tutta rimescolare, e la rabbia raf-frenata s'era irrigidita in lei in un disprezzo freddo, in quella maschera d'indifferenza dispettosa di fronte all'afflizione della madre e della sorella, le quali, anziché condannare il padre per la sua cieca, testarda ingiustizia, si mostravano costernate per lui, per il male che certo gliene sarebbe venuto alla salute, come se n'avesse colpa lei.

E ora Marta domandava apposta a Maria notizie di qualche amica che prima veniva a visitare la ma-dre; e, poiché Maria rispondeva impacciata, ella, sorridendo stranamente, esclamava:

– Adesso, si sa, nessuno vorrà più venire in casa nostra…

Tutto, dunque, doveva finire così? Si doveva rimanere come in prigione, in quell'afa, in quel bujo, in quel lutto, quasi che il mondo fosse crollato?

La famiglia s'era ritirata nelle stanze più remote da quella ove Francesco Ajala se ne stava rinchiuso. Nessuna voce, nessun rumore giungevano agli orecchi di lui, che, seduto su la poltrona a piè del let-to, guardava la soglia illuminata sotto l'uscio nero, spiava il lieve, cauto scalpiccìo su l'assito della stanza attigua e si sforzava d'indovinare chi vi passasse in punta di piedi. Non LEI, certo: era Aga-ta… era Maria… era la serva…

– La concerìa, – volle un giorno rammentargli la moglie. – Vuoi che proprio tutto si perda così?

– Tutto! tutto! – le rispose egli. – Morremo di fame.

– E Maria? Non è figlia tua anche lei? Che colpa ha la povera Maria?

– E io? – gridò l'Ajala, levandosi torbido davanti alla moglie. – Che colpa avevo io? Tu l'hai voluto!

Si frenò, sedette di nuovo; poi riprese con voce cupa:

– Fa' che venga da me tuo nipote, Paolo Sistri. Affiderò a lui la direzione della conceria. Non c'è più da aver superbia, ora. Voleva Marta in moglie? Se la pigli! Ormai può essere di tutti.

– Oh Francesco!

– Basta così! Manda a chiamare Paolo. Andate via!

Da questo Paolo Sistri, figliuolo d'una sorella defunta della signora Agata, ebbero le tre donne noti-zia delle prodezze di Rocco Pentàgora, ch'era partito veramente, il giorno dopo lo scandalo, in cerca dell'Alvignani, col professor Blandino e col Madden. A Palermo, Gregorio Alvignani non aveva vo-luto dapprima accettare la sfida; era anzi riuscito a persuadere il Blandino d'indurre il Pentàgora a ritirarla; ma allora questi lo aveva pubblicamente investito per costringerlo a battersi con lui. E s'era fatto il duello e Rocco aveva riportato una lunga ferita alla guancia sinistra. Ora, da tre giorni, era ritornato in paese in compagnia d'una donnaccia venduta; se l'era portata nella casa maritale, l'aveva costretta a indossare le vesti di Marta e, sollevando l'indignazione di tutto il paese, si offriva spetta-colo alla gente, conducendosela a passeggio, in carrozza, così parata.

Ebbene, dopo tali notizie, non riconosceva ancora il padre l'indegnità di quel vile? non si vergogna-va di sottostare alla condanna infame di colui?

Marta fremeva di sdegno e di rabbia, faceva un continuo violento sforzo su se stessa per contenersi di fronte alla madre e alla sorella, che si mostravano sempre più afflitte e abbattute.

– Piangi, Maria, ma perché? – domandò una mattina, con fare derisorio alla sorella che entrava nella sua cameretta con gli occhi rossi.

– Il babbo… lo sai! – rispose Maria, a stento.

– Eh, – sospirò Marta. – Che vuoi farci? Forse si riposa. Non fa male a nessuno…

Era senza corpetto, davanti allo specchio, in piedi: trasse dal capo le forcinelle di tartaruga, e il nero volume dei capelli le cascò fragrante su le spalle, su le braccia nude. Rovesciò indietro il capo e scosse così più volte la bella chioma pesante; poi sedette, e l'omero tondo, candidissimo, levigato, le emerse tra i capelli che s'erano partiti tra il seno e le terga. Su l'omero, il neo di viola, venuto sù con gli anni lentamente, come una stella, dalla scapola, dove prima Maria lo aveva scoperto, quando an-cora entrambe dormivano insieme.

– Su, pèttinami, Maria.

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27 марта 2024
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220 стр. 1 иллюстрация
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9783963617577
Издатель:
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Bookwire
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