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Guido Pagliarino

L’Ira Dei Vilipesi

Romanzo Storico

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I personaggi, le vicende, i nomi di persone, enti e ditte e le loro sedi che compaiono nel romanzo, a parte le figure e gli avvenimenti che la Storia ricorda, sono immaginari; eventuali riferimenti alla realtà passata e presente sono casuali e del tutto involontari.

Indice

  Capitolo 1

  Capitolo 2

  Capitolo 3

  Capitolo 4

  Capitolo 5

  Capitolo 6

  Capitolo 7

  Capitolo 8

  Capitolo 9

  Capitolo 10

  Capitolo 11

  Capitolo 12

  Capitolo 13

  Capitolo 14

  Capitolo 15

  Capitolo 16

  Capitolo 17

  Capitolo 18

  Capitolo 19

  Capitolo 20

  Capitolo 21

  Capitolo 22

  Capitolo 23

  Capitolo 24

Guido Pagliarino

L’Ira Dei Vilipesi

Romanzo Storico

Capitolo 1

Era stato fermato dagli agenti d’una camionetta di ronda della Pubblica Sicurezza nella tarda serata del 26 settembre 1943, indiziato dell’uccisione d'una certa Rosa Demaggi, bionda ossigenata avvenente, sulla trentina, prostituta benestante e borsanerista al dettaglio: l'uomo, forte accento partenopeo, viso squadrato, corporatura robusta, non grassa, dimostrava una quarantina d’anni, era alto un metro e settantotto, statura sopra la media in quei tempi di diffusa malnutrizione, era calvo nelle aree frontale e temporale e sopra il capo, e attorno alla nuca esibiva una bassa semicorona di capelli bruni tenuti cortissimi con sfumatura alta. Indossava una salopette e una camicia in flanella, entrambe di colore turchino, e calzava leggeri guanti in lana color grigioverde.

Presso la Buon Costume di Napoli era risaputo che Rosa Demaggi si prostituiva nel proprio domicilio, in piazzetta del Nilo, a uomini benestanti. Fino al 25 luglio aveva ceduto i propri favori anche a dirigenti fascisti e, dopo l’armistizio, caduta la città sotto il calcagno germanico, s’era concessa a ufficiali della Wehrmacht e della Gestapo. Per precedenti indagini svolte di concerto, si sapeva nelle sezioni Buoncostume e Illeciti Commerciali, questa creata dopo l’inizio del conflitto per combattere il mercato nero, che la Demaggi, fin dall’estate del '40, aveva chiesto a compenso, preferibilmente, generi alimentari, sigarette e liquori, per farne piccolo traffico a borsa nera; ed era noto ch’ella, ben presto, aveva allargato il giro con acquisti da grossisti legati alla camorra. Perciò le squadre di ronda avevano l’ordine di tenere d’occhio, con altre abitazioni, anche la sua; tuttavia con discrezione, a causa dei contatti erotici della Demaggi con ufficiali occupanti e considerando che, dopo il 25 luglio, quand’era stata sciolta l’OVRA1 e ne era stato aperto l’archivio segreto, s’era scoperto che la donna ne era stata una prezzolata confidente e aveva riferito notizie politiche sfuggite a clienti fra le lenzuola, gerarchi compresi; si supponeva dunque che, dopo l’armistizio e l’occupazione tedesca, ella avesse iniziato una vendita di notizie agli ufficiali della Gestapo coi quali s’accompagnava.

Poco prima del fermo del sospettato, erano circa le 20 e 30 e non mancava che una mezz’ora al coprifuoco, transitando la camionetta della Polizia in piazzetta del Nilo, l’appuntato comandante aveva visto quell’individuo in abiti dimessi entrare senza suonare, per l’uscio lasciato accostato da qualcuno, nella casetta dove la donna viveva nell’unico appartamento al piano terra. Dando le spalle all’automezzo, l’uomo non s’era accorto del sopraggiungere della ronda. Superato l’ingresso, non aveva chiuso appieno la porta dietro di sé, ma l'aveva lasciata accostata. Il graduato aveva supposto che fosse implicato, come la Demaggi, nel mercato clandestino e avesse lasciato dischiuso per altri conniventi in arrivo: l’uscio non serrato rendeva improbabile trattarsi d’un cliente sessuale, senza contare l'abbigliamento da bassa manovalanza dell'uomo e le tariffe notoriamente elevate della prostituta. L’appuntato aveva ordinato al conducente di portarsi davanti alla casetta. Gli agenti erano scesi, a parte il guidatore, e s’erano introdotti nell’appartamento. L’individuo sospetto era stato sorpreso nell’ingresso, appena oltre l’uscio, in piedi accanto a Rosa Demaggi che, lamentandosi debolmente in stato di semi incoscienza, giaceva a terra con un ematoma insanguinato sulla nuca, conseguenza evidente d’un colpo contro una consolle, alla sinistra entrando, che presentava una macchia ematica. Rosa Demaggi era spirata pochi secondi dopo l’ingresso degli agenti. Ritenuto colpevole d’aver aggredito la donna, l’uomo in salopette era stato ammanettato. Il capo pattuglia gli aveva detto: “Ti sei introdotto con l’intenzione d’ucciderla e ti sono bastati pochissimi secondi per accopparla: era nell’ingresso ad attenderti, si fidava di te perché ti aveva lasciato aperto. Tu invece, inaspettatamente, senza darle il tempo di fuggire le hai sbattuto forte la testa contro il mobile per ammazzarla. Contavi di filartela subito dopo, infatti non avevi chiuso la porta entrando, per non perdere tempo nel riaprirla uscendo: te la saresti tirata dietro non appena fuori e tanti saluti, chi sa chi e quando avrebbe trovato il cadavere. Non avevi supposto che saremmo giunti noi: volevi far pensare a un incidente, ma ti è andata male.” Il graduato aveva supposto che l’individuo avesse ucciso con premeditazione per ragioni legate al mercato nero, forse per proprio diretto interesse, forse su incarico di terzi. Che si trattasse d’omicidio volontario era sostenuto dal fatto che l’uomo calzava guanti in lana nonostante la stagione ancora tiepida: al fine di non lasciare impronte, era stato spontaneo pensare. Sul momento il sospettato, in pieno rimescolamento mentale per l’inaspettato intervento degli agenti, non aveva trovato cosa rispondere. Poiché da vicino si poteva ben osservare che non solo portava abiti da manovale, ma ch’essi erano logori e piuttosto sporchi, l’appuntato s’era convinto che non potesse trattarsi d’un cliente sessuale della donna, e d’altronde l’uomo non aveva su di sé denaro, come s’era appurato frugandolo. Non aveva neppure carta d’identità, ma una patente di guida sì, da cui risultava essere nato a Napoli 42 anni prima, di abitare in vicolo Santa Luciella e di chiamarsi Gennaro Esposito, nome e cognome peraltro comunissimi in Campania e soprattutto a Napoli, che avrebbero potuto essere falsi, così come il permesso di guida; era infatti noto in Questura che la delinquenza, e in particolare la camorra, s’avvaleva di tipografi abilissimi nelle falsificazioni. Il capo ronda non aveva dato gran peso al documento.

Aveva chiamato la sala operativa della Centrale, attraverso la radio della camionetta, e riferito l'accaduto. La Sezione Delitti di Sangue aveva avvertito per telefono il centralino dell’obitorio, chiedendo di mandare a casa della morta, per i primi accertamenti, l’anatomopatologo in servizio, che per quel turno era il dottor Giovampaolo Palombella, un sessantenne dai lunghi e folti capelli grigi, tenuti regolarmente spettinati, alto, segaligno e, forse a causa del suo ultratrentennale chinarsi sui cadaveri da sezionare, un po’ curvo. Nello stesso tempo era stato inviato a casa della vittima un maresciallo maggiore, tal Bruno Branduardi, uomo basso, obeso e tranquillo prossimo alla pensione, perché ispezionasse, ascoltasse gli agenti della ronda e il medico e annotasse tutto sul proprio taccuino per riferire, al ritorno, al superiore di turno.

Il sottufficiale era giunto in piazzetta del Nilo sulla propria lenta motoretta modello La Piccola Italiana2 che, smilza com’era, pareva mal sopportare il gravoso peso di quell’uomo pletorico. Aveva per prima cosa prestato orecchio agli agenti, poi al medico legale, ch’era arrivato un po’ dopo di lui, con due inservienti, sopra un furgone per il trasporto dei cadaveri. L’anatomopatologo aveva escluso il suicidio, aveva ritenuto possibile un incidente, dato che il colpo, a prima vista, non gli pareva essere stato violentissimo. Non aveva scartato però l’omicidio, riservandosi d’essere preciso dopo l’autopsia. Il maresciallo ne aveva preso nota, aggiungendo sul suo taccuino, a commento, che a suo parere non s’era trattato di disgrazia ma d’omicidio e che proprio il fermato, per lui, era l’assassino. In realtà s’era semplicemente allineato a quanto supposto e riferitogli dall’appuntato. Il cadavere era stato rimosso e caricato sul furgone dai portantini, per essere condotto all’obitorio dove sarebbe stato sottoposto ad autopsia. Da parte sua il Branduardi, dopo aver sveltamente ispezionato l’appartamento e constatato che non c’era nessuno, aveva ordinato agli agenti di mettere i sigilli alla porta d’ingresso, di portare il fermato in Questura e metterlo in guardina, in attesa che venisse affidato a un commissario per l’interrogatorio: in quel tempo la legge non prevedeva l’intervento d’un magistrato né sul luogo del delitto, né durante il colloquio inquisitorio del funzionario di Polizia con l’indiziato, che avveniva senza la presenza del suo avvocato. Il giudice istruttore subentrava se il commissario inquirente, avvalendosi del referto autoptico e avendo interrogato il sospettato, avesse ritenuto trattarsi d’un omicidio e ne avesse inviato rapporto alla Procura del Regno. In caso invece di disgrazia, la pratica, vistata dal vice questore, veniva semplicemente archiviata senza séguiti giudiziari.

Il Branduardi s'era accodato alla camionetta, perdendo però terreno per la bassa velocità della motoretta ormai vecchia e sfiatata. All’arrivo, mentre il fermato già era in camera di sicurezza, il maresciallo era salito al proprio ufficio nella Sezione Delitti di Sangue al secondo piano, stanza che divideva con un brigadiere e un agente dattilografo, e con flemma s’era preparato un caffè di guerra, un surrogato, con la propria macchinetta napoletana che teneva nell’armadio insieme a un fornellino elettrico a incandescenza. Se l’era sorbito bollente dopo averlo addolcito con una pastigliuccia di saccarina, non perché diabetico ma in quanto lo zucchero, dall’entrata in guerra, era introvabile per i comuni mortali. S’era quindi fumato una sigaretta Serenissima Zara con calma altrettanto celeste, assaporandola fin quasi all’esaurimento della cicca che, per le ultime due boccate, aveva trattenuto infilzandola con uno spillo, come in quei tempi di carestia e sigarette senza filtro non pochi fumatori usavano fare; e finalmente, a passo lemme, aveva portato il foglietto col rapporto, non più di venti metri sullo stesso piano, a uno dei vice comandanti della Sezione Delitti di Sangue, un certo commissario capo Riccardo Calvo ch’era di turno quella notte fin alle ventiquattro. Alle ore zero e pochi secondi il Branduardi se n’era andato a casa a dormire e, poco dopo, pure il Calvo dopo aver lasciato il rapporto del maresciallo sulla scrivania del suo pari grado subentrante, il dottor Giuliano Boni.

L’uomo in salopette aveva seguitato a starsene chiuso in camera di sicurezza.

Finalmente, su ordine del commissario capo Boni, il caso Rosa Demaggi era stato rifilato a un quasi imberbe vice commissario montato in servizio a mezzanotte, il dottor Vittorio D’Aiazzo, da poco meno d'un anno attivo in Pubblica Sicurezza e, fin dal primo giorno, assegnato alla rognosa Sezione Delitti di Sangue.

Erano circa le 3 di notte del 27 settembre 1943 e l’insurrezione che la Storia ricorda come Le Quattro Giornate di Napoli stava per scoccare: la pignatta dell’angariatissima città stava ribollendo e la temperatura era salita ormai a tale grado che impossibile sarebbe stato, per il tedesco occupante, impedirne l’eruzione ardente.

Capitolo 2

Il sentire del popolo di Partenope era rimasto oscuro allo sprezzante invasore nazista e la paura che questi aveva inteso diffondere in città s’era risolta in bollore d’animo e desiderio di ribellione. Facimmo ‘a uèrra a chilli strunzi zellosi3 era ormai il sentimento di numerosi napoletani, nella sensazione che, san Genna’ ajutànno4 ! ci si sarebbe affrancati e, finalmente, la pace sarebbe stata vera-verissima e non più l’illusione nata e morta un paio di mesi prima:

Il 25 luglio l’Italia aveva esultato per la caduta nella notte del regime, apparsa definitiva con Mussolini esautorato dallo stesso Gran Consiglio del Fascismo e fatto arrestare dal re, e col nuovo Governo Badoglio non più fascista, anche se non democraticamente eletto; ma era stato anzitutto l’abbaglio che il conflitto fosse finito a far gioire la nazione. Tuttavia, ben presto nel Paese s’erano alzate lamentazioni che a Napoli avevano presentato toni pittoreschi lungo i vicoli e all’ombra dei bassi, come: Chillo capucchióne d’o nuvièllo Càpo ‘e Guviérno5 , ‘o maresciallo d’Italia Badoglio Pietro, ‘o gran generalone! ha fatto di’ a ‘a ràdio, tòmo, tòmo6 : “La guerra continua”: strunz’ e mmèrda! C’erano stati, poi, coloro che avevano puntualizzato: Nossignori, strunzi noi ati a penzà che ‘nu maresciallone vulisse ‘a pace!7 Ma va’ ffa ‘n ‘c… Con l’armistizio di Cassibile, siglato fra l’Italia e gli angloamericani il 3 di settembre e che avrebbe dovuto restare segreto fin al riassetto delle forze armate italiane ad argine del vendicativo ex alleato, ma era stato reso noto il giorno 8 da vanagloriosi generali vincitori, era piombato sull’Italia, attraverso il Brennero, un male peggiore di prima: molte nuove, agguerrite e astiose divisioni germaniche s'erano aggiunte ai reparti tedeschi già presenti sul territorio. “Perché mai”, si chiedevano gl’italiani più provveduti, “i governanti e i capi militari non hanno saputo predisporre a tempo un piano d’emergenza? Nonostante la resa al nemico fosse da tempo probabile? Con forze dell’implacabile ex alleato già in casa?” Dopo l'8 settembre il re e i suoi ministri avevano saputo solo fuggire nel sud, a Brindisi, approfittando del fatto che la 1a divisione aerotrasportata inglese stava per prendere quella città la quale, a differenza delle altre, era sgombra o quasi da truppe tedesche, e contando sul fatto che gli angloamericani, conquistata la Sicilia, stavano invadendo il resto delle regioni meridionali della Penisola8 . Ansimanti, il sovrano, i suoi segretari di Stato e il generale Mario Roatta, difensore mancato di Roma abbandonata all’iniziativa disordinata e inutile dei comandanti di reparto, avevano lasciato la Capitale per porre Trono, Governo e Alti comandi a Brindisi, sotto la protezione degli ex nemici, lasciando le truppe italiane sui vari fronti esteri e in Italia senza ordini, in balia del possente esercito germanico. Dopo l’annuncio ufficiale dell’armistizio da parte italiana, dato alla radio personalmente da Badoglio alle 19 e 37 minuti dell’8 settembre, il tedesco, grazie ai rinforzi giunti rapidissimi, era rimasto padrone incontrastato dalle Alpi fin alla città di Napoli compresa, mentre la provincia di Salerno era divenuta zona di combattimento per lo sbarco angloamericano del giorno 9. La collera dei partenopei, già calda per la guerra patita, era divenuta ardente: troppe ne avevano dovute sopportare nei tre anni e più dalla proditoria e improvvida entrata nel conflitto del regime, il 10 giugno 1940, dietro alla Germania nazista; Napoli era stata bombardata sistematicamente dagl’inglesi e poi anche dagli statunitensi, ben centocinque incursioni fin all’armistizio, tutte andate a segno rendendo in macerie edifici su edifici con gran numero di morti, feriti e mutilati e torme di famiglie senza casa. Non un solo quartiere era stato risparmiato, anche perché i dirigenti politici e militari erano stati incapaci d’approntare adeguate difese antiaeree, affidate quasi del tutto, in modo improvvisato, alle navi da guerra alla fonda nel porto; e poi, la fame! quella fame cupa e sorda che piega le gambe; ed essendo sfumata l’illusione di pace del 25 luglio, ecco altri nugoli di bombe sulla città e la carestia assoluta, e malattie con ulteriori morti per deficienza di medicinali. Fin dal 9 settembre Napoli aveva patito guasti materiali da parte germanica, fra i quali gravissimi danni al porto, e sofferto retate e fucilazioni non solo di militari italiani sbandati ma pure di civili. Anche i fascisti, un paio di settimane dopo l’8 settembre, sia pur in subordine avevano preso possesso della città, risorti dalle tombe politiche e assurti al neonato Stato Nazionale Repubblicano – presto Repubblica Sociale Italiana – costituito il 23 di quel mese da Hitler in persona, con a capo il nolente ma rassegnato Mussolini che, il 12, paracadutisti germanici avevano liberato dal rifugio-albergo di Campo Imperatore sul Gran Sasso, domicilio coatto dove il re l’aveva relegato.

La tradizionale durezza bellica teutonica era divenuta, se possibile, ancora più barbara, perché eccitata da isolati attacchi sferrati da cittadini col supporto di marinai delle navi alla fonda della Regia Marina: s’era trattato d’una primissima, sporadica resistenza spontanea, non ancor collegata ai partiti avversari del nazifascismo, una ribellione iniziata in via Santa Brigida dove, nella mattina del 9, una trentina di residenti aveva assalito una squadra della Wehrmacht, dopo che uno di quei soldati, come al tiro a segno d’un parco divertimenti, aveva sparato col proprio fucile d’ordinanza Mauser Kar 98k all’inerme garzone dodicenne d’un negozio, che si trovava sull’uscio dell’esercizio a prendere un po' di sole.

Aveva dato il la a quella compagine d'umiliati partenopei il giovane vice commissario che abbiamo già incontrato di sfuggita, il dottor Vittorio D’Aiazzo, il quale se ne stava transitando a piedi nei pressi quando il soldato tedesco aveva mirato e fatto fuoco contro il ragazzino: il giovane ufficiale della Pubblica Sicurezza, indignatissimo, aveva sparato senza mirare, da dietro un angolo, nel mucchio teutonico con la sua Beretta M34 d’ordinanza, svuotandone il caricatore e uccidendo due soldati, S’era quindi eclissato attraverso un vicolo laterale, non tanto per paura del nemico ma per timore di noie, o peggio, da parte dei superiori.

Mentre si dileguava, coloro che della trentina d'esacerbati civili presenti avevano in tasca coltelli, cioè quasi tutti, li avevano estratti e la massa, accesa al calor bianco dalla vista dei cadaveri nemici e dall'immagine d’o sbenturàto9 guaglio’ che, colpito all’arteria femorale, stava celermente spirando, s'era gettata sul resto della squadra tedesca cacciando urla belluine. Per primo il soldato sparatore era stato sgozzato, sbuzzato ed evirato da tre indignati, un milite s'era ricevuto un pugno sul naso da un assalitore privo di lama e aveva avuto, da un altro alle sue spalle, un colpo di coltellaccio che l'aveva lasciato ferito orizzontalmente alle chiappe; quasi tutti gli assaliti avevano sofferto tumefazioni e lacerazioni a braccia e volto, uno, peggio, aveva perso il naso. Nessun germanico era riuscito a sparare un sol colpo contro l'orda inselvatichita e presto, sergente in testa, la squadra era fuggita abbandonando sull'acciottolato la propria boria. I fucili e le bombe a mano degli ammazzati e i fucili lasciati a terra dai feriti più gravi erano stati raccolti e nascosti nelle case. Prestissimo sarebbero serviti ad affrancare la città. I tre cadaveri erano stati portati in bassi, qui sezionati, i brandelli erano stati avvolti in stracci e sepolti in vari posti della zona; si sarebbe sussurrato in seguito, vero o falso? che però qualche bel pezzo di natica fosse finito arrosto in pance denutrite. La via era stata lavata dalle donne degl'impavidi ribelli, con gran lena, tanto che mai più sarebbe stata così linda.

Nello stesso tempo in altra zona di Napoli, del tutto indipendentemente, un gruppo d’improvvisati combattenti aveva assalito un manipolo di guastatori tedeschi, che stava cercando d'occupare la sede della compagnia telefonica, e l’aveva messo in fuga. Il plotone germanico s’era vendicato catturando più in là e fucilando due carabinieri in servizio di ronda. Non molto dopo, un’intera compagnia tedesca d'assaltatori era sopraggiunta davanti al palazzo dei telefoni e, presto, aveva avuto ragione degl’insorti che lo presidiavano. Eppure, contro i propositi dei nazisti, era montata ancor più la collera degli umiliati napoletani e, il giorno seguente, ai piedi della collina di Pizzofalcone tra la piazza del Plebiscito e i giardini sottostanti, c’era stata una vera e propria battaglia, accesa da alcuni marinai, coi loro moschetti ’91 e bombe a mano, e alimentata da molti civili armati di mitra MP80 e granate model 24, sottratti il giorno precedente agli occupanti, e di improvvisate bottiglie molotov. I ribelli avevano impedito il passaggio di un’intera colonna di camion e camionette germanici. C’erano stati sei morti, tre marinai italiani che avevano combattuto in prima fila e altrettanti soldati tedeschi, e inoltre molti feriti da entrambe le parti.

Pesanti provvedimenti e gravi rappresaglie erano seguiti da parte tedesca, su ordine del fresco comandante della città colonnello Walter Scholl che, il giorno 12, aveva assunto ufficialmente il potere assoluto sulla piazza. Un suo proclama aveva imposto la consegna delle armi, forze di pubblica sicurezza a parte, il coprifuoco alle ore 21 e lo stato d’assedio per l'intera città, mentre erano stati fucilati non solo i militari e i civili caduti prigionieri, ma diversi cittadini rastrellati a bella posta.

I tedeschi s’erano scatenati del tutto dopo il giorno 12, saccheggiando, distruggendo e incendiando; per prima era stata data alle fiamme l’università, dopo avervi fucilato innanzi un inerme marinaio italiano costringendo i cittadini presenti non solo ad assistere all’esecuzione, ma ad applaudirla. Fino al 25 settembre, sebbene dopo i primi giorni la città non avesse più agito apertamente contro gli occupanti, le ronde tedesche avevano catturato chiunque, non essendo poliziotto, fosse stato sorpreso per via in divisa italiana o, essendo in borghese, semplicemente fosse sembrato sospetto.

Napoli aveva taciuto ma sfrigolando e preparandosi all’insorgenza. In particolare, militari sbandati erano stati raccolti a uno a uno da membri dei partiti antinazifascisti e nascosti e addestrati alla guerriglia, molti entro i locali sotterranei del liceo Sannazaro, prima sede della neonata resistenza napoletana.

Il giorno 25 settembre, lo stesso in cui l’Italia aveva sofferto da parte americana due gravissimi bombardamenti su Bologna e Firenze, era stata emanata in Napoli un’ordinanza che stabiliva la coscrizione, per mansioni di fatica a favore dei germanici, di tutti i cittadini in età di lavoro. Era stata la miccia della sommossa che si sarebbe alzata pochissimi giorni dopo, in perfetta antitesi alle intenzioni intimidatorie tedesche. I manifesti del decreto erano stati affissi ai muri già il mattino presto della domenica 26, giorno antecedente quello delle iniziali vampe dell’insorgenza.

Se l’ordine sostanziale di reclutamento era stato del colonnello Scholl, quello formale era stato firmato dalla mano italiana del prefetto Domenico Soprano che ad agosto, su nomina del Governo Badoglio, aveva preso il posto del dimissionato prefetto fascista Vaccari. Il Soprano era uomo d’ordine, anticomunista e antisocialista e avversario di possibili azioni violente da parte del popolo, anche se non era fascista ma liberale: non certo un demoliberale alla Gobetti, ma un aristocratico all’antica. Più per la sua ripulsa verso le masse popolari che per soggezione ai tedeschi egli aveva firmato il decreto di coscrizione al lavoro: temporeggiare per mantenere la calma era stato il suo immediato obiettivo. Pochi giorni prima di quel 26 settembre, dopo che c’erano stati contatti fra l’intelligence dell’US Army e i dirigenti dei partiti antifascisti napoletani, proprio in vista di un’auspicata sollevazione di Napoli, il prefetto Soprano era stato avvicinato da esponenti del neonato Fronte Nazionale di Liberazione – poi Comitato di Liberazione Nazionale – da poco fondato con sede centrale a Roma, composto dal Partito d’azione, dal Partito liberale, dal Centro democratico cristiano, dalla Democrazia del lavoro, dal Partito socialista di unità proletaria e dal Partito comunista. Avevano premuto su di lui perché cooperasse con la nascente opposizione tramite le forze di Polizia che dirigeva, offrendogli tutto l'appoggio possibile. Il prefetto però, sempre perché avversario del socialcomunismo e timoroso di qualsiasi moto rivoluzionario, aveva preferito la via della prudenza, limitandosi a dialogare politicamente, in segreto, coi moderati dirigenti liberali Enrico De Nicola e Benedetto Croce: senza scoprirsi.

Tanto Domenico Soprano quanto Walter Scholl avevano fatto male i conti. Poiché centocinquanta persone soltanto s'erano presentate ai germanici entro il termine stabilito dal bando, gli stessi, nel corso del pomeriggio di domenica 26 settembre e delle prime ore notturne, avevano preso a rastrellare selvaggiamente Napoli radunando 8000 inermi cittadini, anche uomini attempati e ragazzi tredicenni. I tedeschi avevano fatto scoccare la scintilla della ribellione accendendo gli animi dei famigliari e parenti dei rastrellati, smaniosi di liberarli. La mattina presto di lunedì 27 settembre c’erano stati i primi scontri, avviati non solo da militari italiani rimasti fin ad allora nascosti nei sotterranei del liceo Sannazaro e in case private, ma pure da un certo numero di civili, anche se la vera e propria sollevazione popolare di Napoli sarebbe esplosa il giorno seguente, con un dilagare per le strade e le piazze di frotte di partenopei armati d’ogni classe sociale, dagli ultra popolani agli intellettuali, presenti anche ragazzini dodicenni e giovani donne.In quegli anni in Italia ci si dava del voi e non del lei come oggidì. Il lei era stato vietato dal fascismo fin dalla metà degli anni ’30 del XX secolo, essendo stato giudicato un pronome allocutivo di origine spagnola e non italiana - in realtà era usato sicuramente, quanto meno verso i potenti, già nel XV secolo, anche se tal uso s’era generalizzato solo dal XVI in poi, effettivamente per influsso dello spagnolo -; per di più l’uso del lei era stato vietato, non comprendendo evidentemente il ridicolo dell’osservazione, perché considerato non degno della virilità fascista essendo pronome allocutivo di genere femminile.

Da sempre peraltro i napoletani si erano dati del voi, sia nel loro dialetto, sia traslando in italiano.

399
525,72 ₽
Возрастное ограничение:
0+
Дата выхода на Литрес:
15 мая 2019
Объем:
261 стр. 3 иллюстрации
ISBN:
9788873047018
Правообладатель:
Tektime S.r.l.s.
Формат скачивания:
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