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CAPITOLO XLIX
JESSIE WHITE-MARIO

 
Amicizia, del ciel prezioso dono,
Io cederei per un amico un trono.
 
(Young).

Io ho sempre creduto alla fortuna, e non dubito ch’essa non sia per la sua parte, nei fatti compiuti tra la famiglia umana, e massime nei fatti di guerra.

Qui seduto sul mio letto di dolore, e reso invalido dagli anni e dai malanni, io penso alle epoche fortunate della mia vita, in cui primeggiano certamente quelle ove mi trovai a contatto dei generosi figli della Britannia.

Un giorno, spogliati da pirati greci nell’Arcipelago, senza viveri, senza vestimenta, senza bussola, il mio capitano m’inviò verso un brigantino che si trovava a grande distanza da noi. Giunsi a bordo di quel legno, vi fui accolto gentilmente. Era il brigantino inglese Marianna, capitano Taylor. Egli si era accorto del nostro stato di sventura da uno straccio alzato al picco54 per mancanza di bandiera, ma era nell’impossibilità di avvicinarsi, per essere il mare bianco dalla bonaccia.

In cattivo inglese io feci comprendere al bravo capitano lo stato nostro, per cui egli mi colmò di cortesia, mi fece parte de’ suoi viveri, di cui tanto abbisognavamo e ci accompagnò sino al porto del Millo.

A Montevideo in un giorno di pugna navale, trovandomi io con un piccolo legno impegnato contro forze dieci volte superiori, e già sopraffatto da esse, il palischermo d’una corvetta da guerra inglese giunse e si frammise fra il mio legno ed i nemici; imponendo loro di cessare il fuoco. Alla vista della formidabile bandiera d’Albione, i servitori di Rosas restarono muti come per incanto, ed io salvo.

Ancor oggi io bacerei la mano di quel comandante, che certo, non fu spinto da ordini dell’ammiragliato, ma dalla squisita generosità dell’anima sua. – Egli vide un conflitto di sangue, e lanciossi in sostegno del debole.

Che bell’impiego della forza, per coloro cui la sorte la mise in mano!

Avrei molte circostanze da narrare, in cui la benevolenza inglese prese a favorirmi, e per cui io sono giustamente pieno di gratitudine.

Il 1º ottobre, essendo stato impegnato prima dell’alba, nell’ardua battaglia, io mi trovavo completamente digiuno verso le 3 pom., quando, occupato ad ordinare le colonne d’attacco delle riserve giuntemi da Caserta, per lanciarle sul nemico tra S. Angelo e S. Maria, in quel punto mi comparve un angelo tutelare; era la graziosa ed intrepida figura della Jessie; – la sua apparizione mi colpì e richiamommi alla memoria la generosa e cavalleresca nazione, a cui immeritamente sono debitore di tanta simpatia. – Essa me ne figurava l’emblema, tanto più che mi si presentava accompagnata da un giovane marino della flotta inglese55 in uniforme, portando un canestro pieno d’ogni ben di Dio.

Se non è questa fortuna, bramo mi si accenni a delle migliori! E fra me dissi: questo è buon augurio. – Io avrei forse ceduto alla tentazione ed alla fame ch’era molta, ma un obice esploso a poca distanza mi richiamò al dovere, e ringraziai la gentile signora, pregandola di ritirarsi, cosa che la coraggiosissima donna eseguì con reluttanza. Io era stato contuso da un pezzo di quell’obice alla coscia sinistra.

CAPITOLO L
CONTINUA LA BATTAGLIA DEL VOLTURNO.BRONZETTI A CASTEL MORRONE

 
A egregie cose il fort’animo accendono
L’urne de’ forti, o Pindemonte!
E bella! e santa fanno al vïator
La terra che le ricetta.
 
(Foscolo).

Accanto alla illustre e martire famiglia dei Cairoli, e di tante altre per cui veste lutto l’Italia militante, l’Italia dei generosi! posiamo alla venerazione di tutti, quella dei Bronzetti.

Il maggiore, caduto contro gli austriaci a Seriate. Il secondo, non meno eroicamente, a Castel Morrone.

Ho già detto essere la nostra linea di battaglia difettosissima, per irregolarità del terreno, e per troppa estensione. Ebbene, per fortuna nostra, fu pur difettoso il piano di battaglia dei generali borbonici. Essi ci attaccarono con forze considerevoli su tutta la linea, in sei punti diversi, a Maddaloni, a Castel Morrone, a S. Angelo, a S. Maria, a S. Tammaro, ed in un punto intermediario di cui non ricordo il nome, ove comandava il generale Sacchi.

Diedero così una battaglia parallela, cozzando col grosso del loro esercito, contro il grosso del nostro, ed assalendo posizioni da noi studiate e preparate.

Se avessero invece preferito una battaglia obliqua, cioè, minacciato cinque dei punti summentovati, con avvisaglie di notte, e nella stessa notte portare quarantamila uomini sulla nostra sinistra a S. Tammaro, o sulla nostra destra a Maddaloni, io non dubito, essi potean giungere a Napoli con poche perdite.

Non sarebbe stato perciò perduto l’esercito meridionale, ma un grande scompiglio ce lo avrebbero cagionato. Con un’ala rotta, ed il nemico padrone di Napoli, e delle nostre risorse, diventava l’affare un poco serio.

Mentre la pugna ferveva nelle pianure Capuane, il maggiore Bronzetti, alla testa di circa trecento uomini, sosteneva l’urto di quattromila borbonici, e li respingeva a varie riprese dalle posizioni da lui occupate. Invano il nemico intimò la resa a qualunque patto. Invano! Il prode Lombardo avea deciso di morire co’ suoi compagni, ma non arrendersi. E tale era l’eroica risoluzione di tutti! – Avanzo di dieci assalti, pochi restavano del suo piccolo battaglione, e la maggior parte giacevano morti o morenti sul campo della strage. I pochi restanti però, trincerati nell’alto del rovinato castello, non vollero saper di resa, animati dall’esempio del valorosissimo capo.

«Arrendetevi, ragazzi!» gridavan gli ufficiali borbonici, edificati da tanta intrepidezza, e certamente orgogliosi di tali concittadini: «Arrendetevi, non vi sarà tolto un capello: già faceste abbastanza per l’onore!» – «Che arrendersi!» gridavano quei superbi e gloriosi figli d’Italia: «fatevi avanti! se avete animo!»

Essi terminarono sino all’ultima cartuccia, sostennero l’attacco finale colla baionetta, e caddero tutti!.. Alcuni pochi feriti furono trasportati a Capua.

E dove giaciono le ossa di tanti prodi e dell’illustre duce Bronzetti?..

Italia le ricordi!

CAPITOLO LI
ANCORA LA BATTAGLIA DEL VOLTURNO

 
I fratelli hanno ucciso i fratelli!
Questa orrenda novella vi do!
 
(Manzoni).

Io desidero: nelle venture battaglie contro lo straniero, poichè delle batoste ve ne saranno molte ancora, con codesta condizione sociale di rubati e di ladri; – nelle venture battaglie contro lo straniero, ripeto, bramo gl’italiani combattano come lo fecero in questa sanguinosissima, gli uni contro gli altri.

Nel centro, cioè tra S. Maria e S. Angelo, ove si andava a decidere della giornata, il terreno era piano e coperto di olivi, ciocchè neutralizzò in parte la superiorità della carabina nemica; – ed alle successive cariche di questa, i nostri appiattati dalle piante, la respingevano a fucilate con vantaggio. Il colonnello Assanti, con parte della divisione Cosenz, fu posto in riserva sullo stradale, e seguitò il movimento, mentre le colonne d’attacco procedevano avanti.

«Voi la vedete la linea nemica, dietro quei ripari» diceva io al comandante d’una compagnia milanese che si trovava di avanguardia, «Ebbene, spiegate in catena la vostra gente, e caricate senza fare un tiro sino a raggiungerli, quei ripari, la colonna vi seguirà immediatamente».

La stessa ingiunzione io feci ad una compagnia calabrese, che stava alla mano, e tutta quella brava gente caricò intrepidamente il nemico.

La colonna che marciava dietro e che prese la stessa direzione, era comandata dal generale Eben, che marciava alla testa con un nucleo di valorosi ungheresi.

Questi prodi marciarono verso il nemico coll’arma al braccio, come in piazza d’armi, e ricorderò sempre con orgoglio d’aver comandato a simili militi.

Il fiero ed imponente contegno delle nostre colonne, marciando avanti senza sparare un tiro contro una grandine di granate e di fucilate, scompigliò il nemico, e lo sloggiò dalle sue posizioni.

Contemporaneamente caricato a destra dai generali Medici e Avezzana, cioè da tutte le forze di Monte S. Angelo, e da sinistra da parte dei corpi dei generali Türr e Mielbitz, il nemico fu posto in fuga dovunque, perseguendolo i nostri sino sotto Capua.

La giornata fu completa, e verso quell’ora, circa le 5 pom., ricevo un dispaccio dal generale Bixio, annunciandomi il trionfo dell’ala destra, da lui comandata.

Dopo un combattimento accanito di varie ore, Bixio erasi posto alla testa d’una piccola colonna scelta, e colla solita sua bravura avea caricato i borbonici, e cacciati sino alle sponde del Volturno.

Io telegrafai in quel momento a Napoli:

«Vittoria su tutta la linea!»

CAPITOLO LII
IL GESUITA

 
Quell’antipatica vostra figura
Desta, scusatemi, rabbia e paura.
 
(Clara di Rosemberg).

Quando io penso al potere dei preti, conservato malgrado ogni sorta di scelleraggine, appena credibile e che l’umana natura dovrebbe essere incapace anche d’ideare; – malgrado l’aver ridotto fino all’ultimo grado la più grande delle nazioni, d’averle inflitto ogni specie d’umiliante degradazione, averla venduta tante volte allo straniero e sopratutto d’averla educata ai baciamani, alle genuflessioni, alla paura, alla prostituzione e ad ogni specie d’oltraggioso abbrutimento, per cui una delle più belle razze, è per loro rachitica, curva, inferiore moralmente e materialmente a tutte quelle altre razze che le furono alunne! – Pensando al potere dei preti, dico: in questo secolo che si chiama civile, mi viene sovente il dubbio, che codesti cretini a cui appartengo per le forme, altro non sieno che una delle tante famiglie di scimmie da me vedute nel nuovo mondo.

Un prete è un impostore! – Chi può provare il contrario? – E vi vuol poi tanta matematica per capirla? – Eppure la potenza di quell’essere malefico continua. Le plebi ne sono affascinate ed il dispotismo si serve di cotesto fascino per malmenare i popoli. E si grida da una parte, e si fa i sordi dall’altra, ed intanto va avanti questo bordello, chiamato costituzione di popolo libero, e questa povera Italia nostra che potrebbe essere comparativamente felice, è scelleratamente più martoriata delle altre nazioni.

Ciò prova a sufficienza non esser questa l’età dell’oro, e prova che il male supera tuttora il bene nelle afflitte nostre contrade. – Chi sono i sostenitori del pretume? I minchioni ed i birbanti. I governanti presenti dell’Italia sono quindi o birbanti o minchioni, – piuttosto arcibirbanti! E tutto questo gran popolo libero ed indipendente a cui s’impone tutta cotesta bordaglia, io mi vergogno di qualificarlo e di appartenervi!

Sebbene vinto l’esercito borbonico al Volturno, il cherchume perciò non cessava dalle sue reazionarie trame; – esso fu scosso, scompigliato, atterrito dalla gloriosa vittoria della giustizia, ma rialzavasi presto, e non frenava la sua libidine di congiure e di tradimenti contro la terra che per sua sventura generava e nutriva cotesto mostro dalle mille teste.

Corvo, il gesuita, il terribile agente della reazione clericale-borbonica, sdegnato prima contro i correligionari della camorra, e della bottega di Napoli, era poi sdegnatissimo contro i generali di Francesco II che con un immenso e brillante esercito, s’eran lasciati battere da un pugno di rompicolli.

Come abbiam veduto, egli avea lavorato in Napoli con un accanimento straordinario per suscitare il partito ad un movimento d’insurrezione, che avrebbe servito di potente diversione a favore dell’esercito di Capua. Egli avea assistito a tutte le riunioni della camorra, avea picchiato a tutte le porte dei conventi, dei prelati e dei parroci. Ma vi vuol altro: – l’affare era arduo per i grassi ministri di Dio! Si trattava della pelle – e benchè sicuri della gloria del paradiso (non ridete), morendo per una causa santa, – essi, i candidi leviti che appartengono ad un mondo superiore, amano un tantino le delizie di questo. E perciò il nostro settario di S. Ignazio, maledicendo alla codardia dei ben pasciuti coccodrilli, recossi al campo del re di Napoli.

Corvo assisteva a tutta la battaglia del 1º ottobre; vero genio del male, egli moltiplicavasi in tutti i punti più importanti, animando i soldati alla zuffa; – e fu veduto col crocifisso alla mano nel più forte della mischia, eccitando, col gesto e colla voce, e gridando con quanto avea di polmone: «Avanti!» Ma là pure gli toccò ad indietreggiare, e si contava d’un prete, che mentre tutta la truppa davasi alla fuga, esso per l’ultimo, sempre col suo Cristo alla mano, disprezzando gl’inseguitori, non v’era modo di farlo alzar le calcagna.

Che ostinazione nel male in quell’uomo sì avvenente, sì coraggioso e d’un genio veramente superiore; io ne sono stranamente sconcertato, e sovente pensando a tali esseri straordinari, io mi stupisco come non crollino il fango da cui sono avvolti e dicano alle moltitudini che abbisognano tanto di verità come di pane: «Noi siamo i sacerdoti del vero!»

Che un cretino possa esser prete e possa creder a’ preti, pazienza! Ma che una delle più grandi celebrità moderne, come matematico e come astronomo56 possa rimaner gesuita, mi fa strabiliare.

I grandi d’ogni specie crederanno forse esser necessario che la canaglia si ravvolga nella melma e vi rimanga per sempre?

Corvo, disperando del successo, prese la campagna, avviandosi verso Isernia, uno dei centri del sanfedismo.

Le superbe popolazioni Sannite che abitano tutto quel pezzo scosceso d’Apennino che limitano il Volturno ed il Sangro ad ostro, ed il Lazio a settentrione, fiere ed indipendenti come i loro antenati, mantenute come sono, nell’ignoranza dal prete, esse sono come le Calabre, la più ricca messe della fellonia chercuta, e sono quelle che danno i più famigerati briganti, di cui il clero dispone assolutamente.

Tra quelle orribili gole, ove capitolava e passava sotto le forche Caudine l’esercito Romano, e fra codeste bellicose popolazioni internavasi il gesuita, come se volesse nascondersi da tante vergogne, e sicuro di trovar pascolo alle infernali sue disposizioni.

Il perverso avea più d’un incentivo nella sua impresa. Egli serviva la causa a cui avea dedita la sua scellerata esistenza, ed abbiam veduto in che modo, ma più di ciò egli era solleticato dalla speranza di potersi vendicare dei rapitori delle sue donne; – per cui egli sentiva qualche cosa dentro che non sapeva spiegarsi, ma qualche cosa che lo attraeva e lo spingeva irrevocabilmente verso quelle sue vittime.

Nelle sue peregrinazioni reazionarie, l’astuto settario di Loiola non avea mancato di occuparsi della marcia dei fuggenti da Roma e per mezzo d’agenti sicuri egli avea seminato d’insidie e d’ostacoli il cammino dei nostri cari.

L’Italia, nella cieca noncuranza in cui si dondola, non si capacita di ciò che ponno i preti nelle campagne. Non esiste il benchè minimo villaggio ove risiede un prete, che non sia un focolare di reazione, una scuola d’ignoranza e di tradimenti alla patria.

Che lasci l’Italia i preti come sono oggi (1871) e che tenti di sostenere una guerra contro lo straniero, ed essa vedrà ciò che le succede con codesti assassini domestici. Nel periodo in cui scriviamo, la congiura clericale lavorava nell’ombra, a Napoli, in Sicilia, ed in tutti i paesi conquistati dalla rivoluzione, vicino ed a mezzogiorno della Metropoli; ma al settentrione di questa, ove esisteva tuttora l’autorità regia, e massime nelle vicinanze della frontiera romana, ardeva fierissima propaganda contro di noi, e codesti forti, ma ignoranti contadini, ovunque adunavansi per ostilizzarci.

Corvo posò il suo quartier generale ad Isernia, città importante del Sannio, e di lì munito come era di pieni poteri da Roma e dal Borbone, ramificò la sua rete reazionaria in tutti i dintorni.

CAPITOLO LIII
I TRECENTO

 
L’han giurato! li ho visti in Pontida
Convenuti dal monte e dal piano;
L’han giurato! si strinser la mano
Cittadini di venti città.
 
(Berchet).

Noi lasciammo i protagonisti del nostro racconto, scampati dalle ugne pontificie ed incamminandosi verso l’Apennino coll’intenzione di seguitarne le vette, per discender poi nelle pianure Campane, a dividere coi prodi fratelli dell’esercito meridionale le gloriose battaglie che dovean decidere la caduta d’uno dei puntelli del dispotismo – e la rigenerazione sulle sue rovine di tanta parte di popolo italiano.

Il comando della valorosa brigata dei trecento fu all’unanimità affidato all’intrepido colonnello Nullo, e questi scelse a suo capo di stato maggiore Muzio – e Muzio con quell’abnegazione che distingue il vero merito – fu lui primo a proporre il bellicoso eroe della Polonia per capo, e volonteroso per il primo a chieder gli ordini con una modestia ed una subordinazione ammirabili.

Elia, il padre di Marzia, era stato raccolto in Roma, e faceva parte della comitiva. – Povero vecchio! – Le membra slogate dalla tortura dell’Inquisizione pretina, ed il volto scarnato, e livido dai patimenti – faceva compassione il vederlo! L’amore immenso per la figlia del suo cuore solo lo teneva in vita – ed inteneriva chiunque lo contemplasse, infelice! quando rivolto alla sua cara, egli beavasi nel di lei sguardo. Fu necessaria una cavalcatura per lui, e per la bella contessa Virginia – anch’essa poco assuefatta a marciare a piedi – ciocchè non fu difficile trovare nella ricca campagna di Roma.

Le nostre due giovani eroine sdegnarono di marciare a cavallo – e vollero dividere i disagi dei semplici militi, chiedendo però a Nullo di condurle presto in sito, ove poter acquistare un moschetto, arnese molto più confacente d’un ombrellino a codeste amazzoni della schiera dei Mille.

Noi sappiamo già esservi nella colonna trecento armati di sole daghe, eccetto una ventina di carabine tolte alle guardie del Comandante Pantantrac, ed agli sgherri. La richiesta delle fanciulle mise in pensiero il Capo. – E veramente che avrebbero potuto fare i prodi da lui guidati se si dovea combattere contro gente armata di fucili?

Un individuo che seguiva Lina, come la propria ombra, aveva inteso il desiderio delle donne, ed osservava l’aria mesta e distratta del Duce – con certo piglio significativo.

Questi era Talarico, il brigante redento, che attratto dalla bellezza della fanciulla, e forse dal dovere che ha ogni uomo che non sia un prete, di servir la causa del suo paese, s’era convertito alla parte della giustizia e dell’onor nazionale.

Talarico amava Lina come il leone la sua femmina, colla differenza, che conscio dell’affetto di lei per Nullo, piegava il capo alla fatalità della sua posizione, e conformavasi come il naufrago, che non potendo dominar le onde, da esse si lascia travolgere nei gorghi, dopo la lotta terribile della disperazione.

Lina non l’amava, essendo il vergine suo cuore tutto rivolto all’incomparabile amante di cui tanto andava superba; comunque, la fiera, maschia ed ingenua devozione di quel rozzo ma superbo principe della montagna la solleticava, e nell’anima sua bellicosa, ma gentilissima, essa non poteva albergare un senso che non fosse di propensione e d’interesse per quel servo sempre pronto al minimo di lei desiderio.

Guai a chi avesse tolto un capello alla dea del suo culto! Il ferro del figlio d’Aspromonte avrebbe solcato il petto dell’insolente come una lama di fuoco.

Egli, dacchè reso alla schiera dei forti campioni della libertà italiana, avea trovato nell’anima sua redenta tanta generosità ed abnegazione, da non esser nemmeno geloso del suo capo, sicchè, innamoratissimo, senz’altra speranza che quella di una meritata simpatia dal suo idolo, l’amore di Talarico era diventato di natura celeste, come quello che ispira tanta ammirazione nella vita squisitamente gentile del gran cantore di Laura, e che sì maestrevolmente narra il Foscolo:

 
«Amore in Grecia nudo, e nudo in Roma
«D’un velo candidissimo adornando,
«Depose in grembo a Venere celeste».
 

L’anima ardente dell’antico principe dell’Apennino, di più, era salda come l’acciaio, e la coorte dei liberi potea fare assegnamento su di lui, come sulle proprie daghe.

– «Comandante, disse Talarico a Nullo, che già lo aveva scelto come guida nelle montagne; Comandante, davanti a noi abbiamo Tivoli, distante poche miglia, se vogliamo giungervi di notte – ciocchè mi sembra conveniente – io vi condurrò nella città, per vie a pochi note, e giungeremo nel centro della stessa, sorprendendo qualunque forza papalina vi possa essere, e potremo quindi armarci di alcuni fucili».

«Bravo!» fu la risposta di Nullo a Talarico; ed immediatamente il colonnello ordinò di obliquare a sinistra ed imboscarsi nella selva sacra del Teverone, per aspettarvi la notte. Fra i militi della brigata, pochi eran quelli che avean pensato a provvedersi per la campagna, ma per fortuna in settembre, poche son le provincie d’Italia, ove non si trovino abbondantemente delle frutta, e con queste, per uomini giovani e disposti a tutto, poco o niente sentivasi la carestia.

Erano le 7 pom. quando la brigata cominciò a muoversi dal bosco sacro con Talarico alla testa; essa traversò il Teverone, e ne seguì silenziosamente la sponda destra, sino ad oltrepassare la famosa cascata, poi torcendo a destra verso il fiume – che in quel punto sembrava d’argento, per la calma dell’aria, per il poco declivio, – la testa della colonna inoltrossi sopra un ponte di legno, e sfilando al di là della sponda sinistra, trovossi proprio a levante della città, cioè verso i monti.

La città di Tivoli trovasi in posizione fortissima per chi l’assale da ponente, verso Roma, ma da levante essa è completamente dominata dai monti che le stanno a tergo. I Tivolesi non s’aspettavano tale visita; e siccome in questi tempi di rivoluzione e di congiure clericali, non mancava il timore; lumi, se ne vedeano alcuni a quell’ora, circa le 9 pom., ma la gente per le contrade era pochissima.

Al primo individuo che capitò nelle mani di Talarico, questi con poche cerimonie mise la mano al colletto – impose silenzio – e sommessamente chiese ove trovavasi la truppa. «Ahi!» – fu il primo grido dell’innocente paesano – quando sentì le graffe del tigre nel collo – poi: «Signor Piemontese!..» quando s’avvide esservi molta forza, e secondo pare, sapevasi esser non lontano l’esercito settentrionale – «Signor Piemontese!, io sono amico vostro». Ed il poveretto era giustamente uno di quelli che intendevano per Piemontesi i liberatori, e non s’ingannava, toltone che i bravi figli del Piemonte, essi stessi credenti nella liberazione dei fratelli, non sapevano esser guidati dalla magagna Sabauda-Napoleonica.

«Amico, o non amico, tu hai da condurci ove si trovano i papalini – e subito!» era la risposta del fiero calabrese. E non v’era tempo da riflettere, ma ubbidire.

Due compagnie di zuavi pontifichaux formavano la guarnigione di Tivoli, e siccome a questa bordaglia piace l’Italia per i suoi vini, per le sue belle donne, particolarmente, a quell’ora ebbri per la maggior parte, erano anche quasi tutti presso le loro conquiste da trivio.

Una guardia qualunque trovavasi sul magnifico piazzale che a ponente fronteggia la vecchia capitale del mondo, ed i nostri Romani, sorpresa la guardia, ne legarono sino all’ultimo individuo, s’impadronirono di tutte le armi, e disperdendosi poi in tutte le direzioni, armati delle armi papaline, fecero una razzìa generale di quanti innamorati soldati del papa trovarono.

I pontifichaux gridarono, urlarono: «à la trahison!» secondo il solito, e l’alba d’una bella mattinata settembrina li trovava legati come tanti polli, due per due, alla mercede di gente ch’essi erano assuefatti a disprezzare, perchè sempre discordi, e che ben potevano sgozzarli senza tema d’infrangere le leggi della giustizia. Perchè, a che questi vampiri del sanfedismo, che come i preti hanno la loro divinità nel ventre, vengono a saziare i loro indecenti appetiti a danno d’un popolo infelice che li trasse dalle foreste, ove marciavano a quattro gambe come i gatti, e li pose sui piedi di dietro dicendo loro: «Siate uomini!»?

I trecento passeggiarono padroni per le vie di Tivoli provvedendosi d’armi e d’ogni cosa bisognevole per il loro viaggio, mentre che la popolazione in odio al papato li acclamava con ogni segno di simpatica benevolenza.

Nullo, a cui non fuggiva la falsa posizione in cui s’ingolfava quel buon popolo, credente nell’apparizione dell’avanguardia del grande esercito italiano – ciocchè altro non erano che i pochi esuli dalla città eterna, così ammonì quella parte della popolazione che s’era affollata intorno ai nostri militi:

«Fratelli! io vi ringrazio per la manifestazione vostra d’affetto che ricorderò co’ miei compagni tutta la vita. Devo però prevenirvi che noi non apparteniamo all’esercito italiano, oggi diretto verso il mezzogiorno, ma bensì a quella schiera dei Mille che, favorita dalla giustizia della sacrosanta causa d’Italia, oggi milita vittoriosamente contro i Borboni, alleati dei vostri tiranni; – quindi io vi consiglio di terminar le vostre acclamazioni per non esporvi alla rabbia pretina, oggi nel massimo del suo orgasmo».

Il resto della giornata si passò in preparativi di partenza, e verso le 6 pomeridiane incamminossi la brigata verso Subiaco. Una testa di colonna di cavalleria, formata di dragoni romani, spuntava dalla via di Roma in quell’ora, ma la cavalleria non si teme, massime nelle montagne e da gente che non ha paura. Poi, i dragoni romani eran uomini disposti a non bruttarsi di sangue italiano, anche malgrado gli ordini feroci dei chercuti. Ciò sapevano i capi, e si contentavano quindi di seguire i figli della libertà senza raggiungerli e venir con loro a conflitto.

I dragoni romani sapevano per tradizione aver il corpo a cui appartenevano contribuito gloriosamente alla difesa di Roma contro i soldati di Bonaparte nel 49 – e perciò eran sempre d’animo propenso a far causa comune coi liberi che consideravan fratelli.

54.Posto ove si alza la bandiera.
55.La squadra inglese ancorata sulla rada di Napoli, ebbe in quei giorni varii disertori, che volevano ingrossare le nostre fila. Tale era la simpatia di quella brava nazione per la libertà italiana.
56.Il Padre Secchi.
Возрастное ограничение:
12+
Дата выхода на Литрес:
28 сентября 2017
Объем:
320 стр. 1 иллюстрация
Правообладатель:
Public Domain

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