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CAPITOLO NOVE
21:15
Ocean City, Maryland
“Non benissimo,” disse Luke.
L’ascensore era tutto tappeti e pareti in vetro. Una doppia riga di pulsanti percorreva il pannello metallico. Scorse il suo riflesso nello specchio concavo di sicurezza nell’angolo in alto. Era un’immagine di lui strana, distorta, da casa degli specchi, totalmente in conflitto con il riflesso sulle pareti di vetro. Il vetro normale mostrava un uomo alto vicino alla mezza età, molto in forma, con profonde zampe di gallina attorno agli occhi e un principio di grigio nei corti capelli biondi. Gli occhi sembravano antichi.
A fissarli, improvvisamente poté vedersi da uomo vecchissimo, solo e spaventato. Era solo al mondo – più solo di quanto fosse mai stato. In qualche modo gli ci erano voluti due interi anni per capirlo. Sua moglie era morta. I suoi genitori se n’erano andati da tanto. Suo figlio si stava indurendo nei suoi confronti. Non c’era nessuno nella sua vita.
Poco prima, in macchina, appena prima di entrare nell’ascensore, aveva ripescato il vecchio numero di cellulare di Gunner. Era sicuro che Gunner ce lo avesse ancora. Il ragazzo avrebbe tenuto il numero anche dopo essersi trasferito dai nonni, anche dopo aver preso il miglior iPhone nuovo disponibile. Luke ne era sicuro – Gunner teneva il suo vecchio numero perché più di tutto voleva sentire suo padre.
Luke aveva inviato un semplice messaggio al vecchio numero.
Gunner, ti voglio bene.
Poi aveva aspettato. E aspettato. Niente. Il messaggio era andato nel vuoto, e non era tornato niente. Luke non sapeva neanche se fosse il numero giusto.
Come si era arrivati a quello?
Non aveva tempo di riflettere sulla risposta. L’ascensore si aprì direttamente nell’ingresso dell’appartamento. Non c’era corridoio. Non c’erano altre porte eccetto quelle doppie di fronte a lui.
Le porte si aprirono e lì c’era Mark Swann.
Luke si immerse nella sua visione. Alto e magro, con lunghi capelli biondo rossiccio e occhiali rotondi alla John Lennon. Aveva i capelli raccolti in una coda di cavallo. Era invecchiato, in due anni. Era più pesante di prima, soprattutto attorno alla parte media del tronco. Il volto e il collo sembravano più spessi. La t-shirt aveva le parole SEX PISTOLS sul davanti in lettere che potevano essere usate per scrivere un biglietto di riscatto. Indossava blue jeans, con scarpe Converse All-Star a scacchiera gialla e nera ai piedi.
Swann sorrise, ma Luke vide chiaramente che sforzo c’era dietro. Swann non era felice di vederlo. Sembrava che avesse mangiato pesce avariato.
“Luke Stone,” disse. “Accomodati.”
Luke ricordava l’appartamento. Era grande e iper-moderno. C’erano due piani, open space, con un soffitto alto sei metri. Una scala di acciaio e cavi saliva al primo piano, dove si collegava una passerella. Lì c’era un soggiorno, con un ampio divano sezionale bianco. Dietro di esso l’ultima volta c’era un dipinto astratto – assurde chiazze rabbiose rosse e nere che si sviluppavano per un metro e mezzo – Luke non ricordava bene come fosse. Comunque, adesso era sparito.
I due si strinsero la mano, poi si abbracciarono con fare imbarazzato.
“Albert Helu?” disse Luke usando il nome dell’alias di Swann che possedeva l’appartamento.
Swann scrollò le spalle. “Se ti va. Puoi chiamarmi Al. È come mi chiamano tutti qui. Ti porto una birra?”
“Certo. Grazie.”
Swann sparì in cucina attraverso una porta a vento.
Alla sua destra Luke poteva vedere il centro di comando di Swann. Era cambiato pochissimo. Una partizione in vetro lo divideva dal resto dell’appartamento. Una grossa sedia in pelle se ne stava a una scrivania con un argine di computer fissi sul pavimento al di sotto di essa, e tre schermi piatti sopra. Dei cavi correvano per tutto il pavimento come serpenti.
Sulla parete in fondo, dall’altra parte del sofà, c’era un gigantesco televisore a schermo piatto, forse grande la metà di quelli del cinema. Era muto. Sullo schermo, circa una dozzina di furgoni e auto della polizia erano parcheggiati su una via cittadina, le luci che lampeggiavano nell’oscurità. Cinquanta poliziotti erano in fila. Del nastro giallo della polizia si allungava in molte direzioni. Una grossa folla di gente stava dietro al nastro, fin giù per l’isolato e lontano dalla scena.
LIVE diceva la didascalia sotto alla scena. CHINATOWN, NEW YORK CITY
Swann tornò con due bottiglie di birra. Istantaneamente Luke seppe perché Swann si stava ingrassando. Trascorreva molto tempo a bere birra.
Swann indicò la tv. “Hai sentito?” disse.
Luke scosse la testa. “No. Cos’è?”
“Circa quarantacinque minuti fa un mucchio di neonazisti ha cercato di fare una specie di manifestazione nel mezzo di Chinatown a New York. Tempesta Imminente, mai sentiti?”
“Swann, e se ti dicessi che ho passato gli ultimi due anni a vivere più che altro in tenda?”
“Allora direi che non hai mai sentito della Tempesta Imminente. Comunque, in realtà sono un’organizzazione no-profit che si dedica alla custodia e alla promozione culturale… di cosa? Dei bianchi, immagino. Europei americani? Boh. Vogliono rendere l’America sicura per i bianchi. Jefferson Monroe è il loro finanziatore maggiore – fondamentalmente sono la sua versione moderna delle camicie brune. Probabilmente ci sono una mezza dozzina di gruppi così adesso, ma penso che questo sia il più grosso.”
“Cos’è successo?”
Swann fece spallucce. “Cosa vuoi che sia successo? Si sono messi a picchiare gente a caso per strada. Tu questi non li hai mai visti. Sono squadre di scagnozzi. Tipi grossi. Lanciavano gente in giro. Un paio di persone del vicinato se l’è presa. Hanno risposto ai nazisti. Si è sparato a un po’ di gente, l’ultima conta diceva cinque morti. Chi ha sparato è ancora a piede libero. È quella che chiamano una situazione fluida.”
“La gente uccisa era tutta dei nazisti?” disse Luke.
“Così pare.”
Luke fece spallucce. “Be’…”
“Esatto. Non una gran perdita.”
Luke distolse lo sguardo dalla tv. Aveva difficoltà a capacitarsi di quel che stava accadendo. Susan Hopkins credeva che le elezioni fossero state rubate. Il suo avversario, il presidente entrante, finanziava un gruppo neonazista che aveva appena acceso la scintilla di una piccola guerra razziale a New York City. Era così che venivano fatte le cose adesso? Quando era cambiato tutto? Luke era stato via parecchio, apparentemente.
“Che hai fatto ultimamente, Swann?”
Swann sedette sul grande divano bianco. Fece un cenno al posto di fronte al suo. Luke si accomodò. Aveva il beneficio tangibile di essere voltato dall’altra parte rispetto alla tv. Da dove si trovava lui, poteva guardare fuori dalle porte di vetro oscurato che davano sulla terrazza sul tetto di Swann. La vasca idromassaggio emanava una pallida luce al neon azzurra. Per il resto, là fuori era più che altro buio. Luke aveva dormito sul terrazzo, una volta. Sapeva che nelle ore di luce offriva una vista panoramica sull’oceano Atlantico.
“Non molto,” disse Swann. “Niente, a essere sincero.”
“Niente?”
Swann parve pensarci per un attimo. “Lo stai vedendo. Sono in disabilità. Quando siamo tornati dalla Siria, non sono mai riuscito a… a tornare al lavoro. Ci ho provato un paio di volte. Ma l’intelligence è roba seria. Non ci avevo mai dato importanza quando erano gli altri a rimanere feriti. Ma dopo la Siria? Ho avuto attacchi di panico. Le teste segate, sai? Per un po’ le vedevo continuamente. È stato brutto. È stato troppo.”
“Mi dispiace,” disse Luke.
“Anche a me. Credimi. E non è finita. Sono un po’ un recluso adesso. Tengo il mio vecchio appartamento a Washington DC, ma per lo più vivo qui adesso. È sicuro. Nessuno può arrivarci se non lo voglio io.”
Stone ci pensò per un secondo, ma non disse nulla. Era abbastanza vero, tutto sommato. La stragrande maggioranza della gente lì non ci poteva arrivare. La gente onesta e normale. La gente carina. Ma i cattivi? Gli assassini? Quelli delle black op? Loro ci sarebbero arrivati, se avessero voluto.
“Esco raramente,” disse Swann. “Ordino la spesa su internet. Faccio entrare il ragazzo nell’edificio da qui, e lo monitoro quando sale in ascensore. Lo osservo con la tv a circuito chiuso. Gli lascio una mancia in corridoio, lui lascia le borse della spesa sulla porta, e io lo guardo scendere. Poi esco in corridoio a prendere la roba. Un po’ patetico. Lo so.”
Luke non disse nulla. Era triste che Swann fosse ridotto a quello, ma Luke non l’avrebbe definito patetico. Capitava. Forse avrebbe potuto aiutare Swann, riportarlo nel mondo, ma forse no. In ogni caso ci sarebbe voluto molto lavoro, e tempo, e Swann avrebbe dovuto volerlo. A volte traumi psicologici del genere non guarivano mai davvero. Swann era stato prigioniero dell’ISIS, stava per essere decapitato quando Luke e Ed Newsam si erano presentati lì senza invito. Era stato percosso e avevano finto di fargli l’esecuzione prima che arrivassero.
Tra loro ci fu un silenzio, un silenzio non bello.
“C’è stato un periodo in cui ho biasimato te per quello che mi è successo.”
“Ok,” disse Luke. Quella era la verità di Swann, e Luke non si sarebbe messo a discutere la cosa con lui. Ma Swann aveva accettato la missione volontariamente, e Luke e Ed avevano rischiato la vita per salvarlo.
“Capisco che non ha molto senso, e adesso non lo credo, però mi ci sono voluti mesi di terapia per trovarmi in questo stato. Tu e Ed avete questo strano bagliore attorno a voi. È come se foste sovrumani. Anche quando rimanete feriti, sembra che non vi feriate sul serio. La gente vi si avvicina troppo e comincia a pensare che questa cosa che avete voi si applichi anche a loro. Ma non è così. La gente normale si ferisce, e muore.”
“Adesso sei in terapia?”
Swann annuì. “Due volte la settimana. Ho trovato uno che lo fa via video. Lui è nel suo ufficio e io sono qui. È piuttosto buona.”
“Che cosa ti dice?”
Swann sorrise. “Dice: qualsiasi cosa tu faccia, non comprare un’arma. Io gli dico che vivo al ventottesimo piano con un balcone aperto. Non mi serve un’arma. Posso morire quando mi pare.”
Luke decise di cambiare argomento. Parlare dei modi in cui Swann poteva suicidarsi… non era allegro.
“Vedi spesso Ed?”
Swann scrollò le spalle. “Non lo vedo da un po’. È preso dal lavoro. È comandante della squadra Recupero ostaggi. È spesso fuori dal paese. Una volta ci vedevamo di più. È praticamente lo stesso, però.”
“Ti va di lavorare un po’?” disse Luke.
“Non lo so,” disse Swann. “Penso che dipenda da che cos’è. Le richieste, quello che devo fare. Non voglio neanche giocarmi la disabilità. Paghi in nero?”
“Lavoro per la presidente,” disse Luke. “Susan Hopkins.”
“Carino. Che cosa le serve da te?”
“Pensa che le elezioni siano state rubate.”
Swann annuì. “Ho sentito. Le notizie viaggiano alla velocità della luce in questi giorni, ma questa è una storia destinata a durare. Non vuole dimettersi. Ma tu che c’entri? E, cosa più importante, io cosa c’entrerei?”
“Be’, probabilmente vorrà della raccolta di informazioni da parte nostra. Immagino che voglia smontare questi tipi. Al momento non ho dettagli.”
“Posso lavorare da qui?” disse Swann.
“Immagino di sì. Perché no?”
Luke fece una pausa. “Ma la verità è che questa conversazione mi preoccupa un po’. Sei diverso da prima. Lo sai. Vorrei assicurarmi che tu abbia ancora le tue vecchie doti.”
Swann non parve infastidito. “Mettimi alla prova come ti comoda. Sono qui giorno e notte, Luke. Che cosa pensi che faccia del mio tempo? Hackero. Ho tutte le mie vecchie doti, e alcune di nuove. Potrei persino essere meglio di prima. Finché non devo uscire…”
Adesso Swann fece un attimo di pausa. Fissò la birra che teneva nelle mani, poi alzò lo sguardo su Luke. Aveva gli occhi seri.
“Odio i nazisti,” disse.
CAPITOLO DIECI
12 novembre
8:53 ora della costa orientale
Ala ovest
Casa Bianca, Washington DC
“Ci sono state violenze per tutta la notte,” disse Kat Lopez. “I dettagli ce li ha Kurt, ma il peggio è stato a Boston, San Francisco e Seattle.”
“Perché non ne sono stata informata?” disse Susan.
Percorrevano i corridoi dell’ala ovest verso lo Studio Ovale. I tacchi ticchettavano sul pavimento di marmo. Susan si sentiva meglio di quanto non si sentisse da un po’ – ben riposata da una lunga notte di sonno. Aveva fatto colazione nella cucina di famiglia senza controllare le notizie neanche una volta. Stava cominciando a credere che gli eventi stessero volgendo al meglio. Fino a un minuto prima.
Kat scrollò le spalle. “Volevo che dormisse un po’. Non c’era nulla che lei potesse fare in piena notte, e ho pensato che questa sarebbe stata un’altra giornataccia. Kurt è stato d’accordo con me.”
“Ok,” disse Susan. Immaginava di dire sul serio.
Un uomo dei servizi segreti aprì loro le porte ed entrarono nello Studio Ovale. Lì in piedi c’era Kurt Kimball, le maniche arrotolate, pronto a partire. Luke Stone sedeva in una delle poltrone, quasi nella stessa posizione della sera precedente.
Stone indossava una semplice t-shirt nera con una giacca in pelle, jeans ed eleganti stivali di pelle. Sembrava più fresco, meno distante, più presente nel qui e ora rispetto al giorno prima. Aveva gli occhi vivi. Stone era un cowboy dello spazio, decise Susan. Talvolta era via, nell’etere. Era lì che andava quando scompariva. Ma adesso era tornato.
“Salve, Kurt,” disse Susan.
Kurt si girò verso di lei. “Susan. Buongiorno.”
“Begli stivali, agente Stone.”
Stone sollevò l’orlo dei jeans di qualche centimetro per mostrarle meglio lo stivale. “Ferragamo,” disse. “Me li ha dati un tempo mia moglie. Hanno un valore sentimentale.”
“Mi dispiace per tua moglie.”
Stone annuì. “Grazie.”
Si instaurò una pausa di imbarazzo. Se avesse potuto, una parte di Susan – la parte emotiva, si potrebbe pure chiamarla la parte femminile – avrebbe passato i successivi venti minuti a chiedere a Stone della moglie, della relazione che aveva avuto con lei, di come avesse processato la sua morte e di cosa stesse facendo per prendersi cura di se stesso. Ma Susan non ne aveva il tempo, adesso. La sua parte pratica e insensibile – l’avrebbe chiamata la parte maschile di sé? – procedeva con l’agenda del giorno.
“Ok, Kurt, che hai per me?”
Kurt indicò lo schermo televisivo. “Gli eventi si muovono veloci. Fin qui nessuna sorpresa. Ieri notte c’è stata una sparatoria di massa nella Chinatown di New York City. Un ampio gruppo di operativi della Tempesta Imminente è emerso da un convoglio di furgoni neri attorno alle venti e trenta e ha tenuto una manifestazione a sud di Canal Street. È stata una provocazione, ovviamente. Nel giro di pochi minuti si sono trovati coinvolti in risse da strada con i residenti del vicinato.”
“Tempesta Imminente, eh?” La Tempesta Imminente era una delle organizzazioni finanziate da Monroe che facevano venire il voltastomaco a Susan. Spesso si chiedeva che cosa pensassero di fare esattamente quelle persone. Certo, finora la violenza era consistita quasi esclusivamente in minacce su internet. Adesso era reale.
Kurt annuì. “Sì. Pare che reclutino i loro attivisti in base della corporatura. Le zuffe sono state assolutamente squilibrate per parecchi minuti, finché due killer sotto contratto delle Triadi di Hong Kong – apparentemente a New York per un omicidio su commissione – hanno aperto il fuoco con mitra Uzi. L’ultimo conto parla di trentasei feriti, inclusa una dozzina di cinesi, probabilmente colpiti per errore, e sette morti, tutti membri della Tempesta Imminente. Ci si aspetta che altri tre membri muoiano presto.”
Susan non sapeva bene come rispondere. Bene? Le venne in mente.
“I membri della Triade?”
“In custodia presso il dipartimento di polizia di New York per assassinio multiplo, tentato omicidio e possesso di armi. Hanno degli interpreti assegnati dalla corte, e l’ultima cosa che ho sentito è che una squadra di legali è in viaggio da Hong Kong. Le Triadi sono ben finanziate, per usare un eufemismo, e ci si aspetta che gli avvocati tentino di costruire un caso di legittima difesa per gli omicidi e che si dichiarino colpevoli del possesso di armi.”
“Che ne pensi di questo approccio?” disse Susan.
Kurt sorrise e scosse il capo. “New York non ha la pena di morte. È praticamente l’unica cosa che quelli hanno dalla loro parte per il momento.”
“E se li grazio e li rimando a casa con delle medaglie?”
“Penso che abbiamo già abbastanza problemi.”
“Dimmi il resto,” disse.
“Be’, una volta che la notizia di New York è uscita, pare che siano saltati tutti gli argini. Gruppi di giovani hanno cominciato a entrare nella Chinatown di Boston verso le ventidue aggredendo gente per la strada. Sembra che fossero uomini che stavano bevendo in bar delle vicinanze, perché i quattro che sono stati arrestati erano tutti ubriachi.”
“Quattro uomini arrestati? Hai parlato di gruppi…”
“Sì. Pare che la polizia di Boston sia stata per certi versi più indulgente di quanto si potrebbe sperare, e che abbia lasciato andare la maggior parte dei trasgressori con un semplice avvertimento.”
“Che altro?”
“Un gruppo della branca di Oakland del gruppo motociclistico dei Nazi Lowriders è entrato nella Chinatown di San Francisco e ha aggredito la gente per le strade con stecche da biliardo segate e manganelli. Ne sono stati arrestati più di quaranta. Due delle vittime delle aggressioni sono in condizioni critiche negli ospedali della zona.”
Susan sospirò e scosse la testa. “Ottimo. C’è altro?”
“Sì. Probabilmente la notizia più esaltante. Jefferson Monroe ha in programma di parlare a un raduno dei suoi seguaci stamattina, forse per affrontare il tema delle violenze di ieri sera, forse per chiedere di nuovo a lei di accettare i risultati delle elezioni. Nessuno è sicuro al cento per cento di quale sarà il copione. La parte migliore è il luogo in cui si terrà il raduno.”
A Susan non piaceva quando Kurt faceva l’evasivo.
“Ok, Kurt. Piantala. Dove?”
“A Lafayette Park. Dall’altra parte di questa strada.”
CAPITOLO UNDICI
9:21 ora della costa orientale
Lafayette Park, Washington DC
Era una cosa bellissima di cui essere testimoni.
Lo chiamavano il Parco del Popolo, e oggi il popolo era tutto lì.
Non i soliti abitanti del parco, dove generazioni su generazioni di marmaglie, agitatori e radicali – il volgo, i perdenti della vita – si erano accampate per protestare contro le politiche di un presidente dietro l’altro.
No. Non quelli.
Questo era il suo popolo. Un mare di gente – migliaia, decine di migliaia – che ieri notte si era passata parola tramite social per dirsi che il loro uomo oggi avrebbe parlato qui. Era una mossa furtiva, un’accoltellata alla schiena, il tipo di mossa in cui eccelleva Gerry O’Brien. Aveva ottenuto dalla città il permesso per quell’assemblamento appena prima della chiusura delle attività del venerdì sera, e la notizia si era diffusa come un incendio nel corso della notte, le fiamme fomentate da venti di uragano.
Adesso il popolo era tutto lì, con addosso i giganteschi cappelli di Abramo Lincoln e in mano i cartelli – cartelli fatti a mano, cartelli ufficiali della campagna, cartelli creati professionalmente dalle dozzine di organizzazioni che avevano sostenuto la campagna. La maggior parte della gente indossava pesanti e caldi cappotti e cappelli per ripararsi dal freddo assurdo.
Jefferson Monroe guardò dal palco improvvisato la brulicante massa umana – era come un festival rock and roll là fuori – e seppe di essere nato proprio per quel momento. Settantaquattro anni e molte, molte vittorie: dai primi giorni come teenager contrabbandiere d’alcolici nei recessi dell’Appalachia, passando per il periodo di giovane e arrabbiato crumiro, ambizioso dirigente d'azienda e alla fine maggior azionista e leader dell’industria del carbone.
Dopo era diventato senatore per la Virginia Occidentale e politico conservatore influente pesantemente finanziato dalle stesse aziende di carbone per cui un tempo aveva lavorato. E adesso… presidente eletto degli Stati Uniti. Una vita di lotte, lunghi decenni di salita a partire dal fondo, a farsi strada con le unghie, e improvvisamente, quasi per sorpresa (una risoluzione che non si aspettava nessuno, nemmeno lui), era l’uomo più potente della Terra.
Era lì per costringere la presidente in carica a lasciare la Casa Bianca in anticipo, e permettere a lui di entrarvi. Era la cosa più audace che avesse mai tentato. Oltre le folle e dall’altra parte della strada principale riusciva a vedere la Casa Bianca in lontananza, a sorgere su un verde poggio. Lo vedeva lei da lì? Stava guardando?
Dio, sperava di sì.
Distolse lo sguardo dalla folla, solo per un attimo. Dietro di lui, sul palco, c’era un gruppo di gente. C’era O’Brien, la mente della sua campagna, il signore oscuro dei suprematisti bianchi, un uomo motivato come minimo quanto Monroe stesso. Persino ora stava abbaiando qualcosa in un cellulare.
“Voglio quell’uccello,” sembrava dire Gerry lo Squalo. Ma come poteva essere giusto? Voglio quell’uccello? Che cosa strana da dire! In un momento del genere?
“Lo voglio, ok? Voglio che scenda dove abbiamo detto. Dimmi che ci riesci. Ok? Bene. Quando?”
Monroe si scrollò di dosso quella roba. Avere a che fare con Gerry era più che una corsa selvaggia – era una lezione di surrealismo. Il presidente eletto decise di ignorare il suo consigliere più vicino, per il momento. Parlò invece con le altre persone sul palco.
“La vedete?” disse coprendo il microfono con la mano e indicando la massiccia folla. “La vedete?”
“È la cosa più bella che abbia mai visto,” disse un giovane assistente.
Dietro di lui nella folla si cominciò ad applaudire – non a caso, ma con ritmo, migliaia di mani che applaudivano in una volta – CLAP, CLAP, CLAP, CLAP…
Stava per salire uno slogan. Era così che cominciava, con l’applauso, e in alcuni casi battendo i piedi. Ed ecco che arrivava, le voci che si sollevavano.
“U-S-A! U-S-A! U-S-A!”
Era uno slogan buono, buono per cominciare.
Monroe levò la mano dal microfono e afferrò invece l’asta. Sollevò una mano, calmando lo slogan in qualche secondo. Era come se avesse semplicemente abbassato il sonoro di un macchinario – una tv, o una radio. Ma quella non era una macchina, erano migliaia e migliaia di persone, e lui le controllava, senza fatica, con un gesto. Non per la prima volta, si meravigliò di quel potere, un potere che lui aveva. Come un supereroe.
O un dio.
“Come vi sta trattando il riscaldamento globale?” disse, la voce che echeggiava sulle moltitudini. Risate ed esultazioni si sparsero nella folla. Personalmente, Monroe aveva saputo dai climatologi delle sue aziende che il riscaldamento globale era un fatto reale, e che sarebbe stato un problema serio tra un secolo, o prima, forse persino una minaccia per la civiltà stessa. Come presidente, poteva tranquillamente cercare delle vie per implementare politiche che diminuissero in qualche modo la minaccia senza danneggiare i profitti industriali. Nel frattempo le sue aziende stavano gradualmente aumentando gli investimenti nei campi dell’energia rinnovabile – tecnologie solari, eoliche e geotermiche, che erano il futuro.
Ma il suo popolo queste cose non voleva sentirle. Voleva sentire che il surriscaldamento globale era una bufala, perpetrata in larga parte dai cinesi. Quindi era questo che Monroe avrebbe detto. Dava alla gente quello che voleva lei. E comunque oggi faceva freddo, assurdamente freddo per i primi di novembre, e quella era una prova sufficiente – non poteva esistere il surriscaldamento globale.
“Oggi è il nostro giorno, lo sapevate?”
La folla all’idea esultò con un ruggito di approvazione.
“Siamo arrivati dal niente, io e voi. Ok? E siamo arrivati da nessun posto. Non siamo cresciuti in eleganti ed esclusivi attici di Manhattan o San Francisco o Boston. Non abbiamo studiato in scuole private speciali per persone speciali. Non abbiamo bevuto latte macchiato leggendo il New York Times. Noi quel mondo non lo conosciamo. Noi quel mondo non vogliamo conoscerlo. Io e voi abbiamo lavorato duramente per tutta la vita, e ci siamo guadagnati tutto ciò che abbiamo, e tutto ciò che mai avremo. E oggi è il nostro giorno.”
L’esultanza fu un’eruzione – un terremoto – di rumore. Sembrava una grossa bestia al di sotto della superficie della Terra, per secoli dormiente, che adesso lacerava la terra per uscirne in un’esplosione di violenza.
“Oggi è il giorno in cui rimuoveremo una delle amministrazioni più corrotte della storia americana. Sì, lo so, lo so. Ha detto che non se ne va, ma vi dico una cosa. Questa faccenda non durerà. Se ne andrà, proprio così, e molto prima di quanto creda chiunque. Accadrà molto prima di quanto lei creda, questo è sicuro.”
L’esultanza proseguì. Aspettò che la folla si chetasse. Il popolo di Monroe odiava Susan Hopkins. Odiavano lei e tutto ciò per cui lei combatteva. Lei era ricca, era bellissima, era viziata – non le era mai mancato nulla in vita sua. Era una donna con un lavoro sempre svolto da uomini.
Era amica degli immigrati, e dei cinesi, le cui pratiche di lavoro a basso costo avevano distrutto lo stile di vita americano. Era un’edonista, un ex personaggio del jet set, e sembrava confermare tutto ciò che la gente degli stati centrali sospettava sulle celebrità. Suo marito era gay, per amor di Dio! Era nato in Francia. Poteva esserci qualcosa di meno americano di un francese gay?
Susan Hopkins per questa gente era un mostro. Nei recessi più remoti dei siti di cospirazioni di internet, c’era persino chi dichiarava che lei e il marito erano assassini, e peggio che assassini. Erano adoratori del diavolo. Facevano parte di un culto satanico di ricchissimi che rapivano e sacrificavano bambini.
Be’, oggi Monroe avrebbe dato a questa gente la parte omicida. Avrebbe voluto essere dentro allo Studio Ovale per vedere la sua faccia quando sarebbe uscita la notizia.
La folla si era chetata di nuovo. Adesso aspettavano lui.
“Voglio che mi ascoltiate per un minuto,” disse. “Perché quello che sto per dirvi è un po’ complicato, e non è facile da stare a sentire. Però lo dirò, perché dovete saperlo. Voi, il popolo americano, i veri patrioti, meritate di sapere. È molto importante. Il nostro futuro è in pericolo.”
Li aveva catturati. Adesso erano pronti. Eccolo che arrivava. Il passaggio dell’Ave Maria. La bomba. Jefferson Monroe si preparò e la lanciò.
“Cinque giorni prima delle elezioni, un uomo è stato trovato morto vicino a Tidal Basin, proprio qua a Washington DC.”
Il suo popolo era ammutolito. Un uomo morto? Questa era una novità. Non era il tipico discorso da raduno di Jefferson Monroe. Sembrava che migliaia di paia d’occhi fossero inchiodati su di lui. Anzi, era proprio così. Dacci qualcosa, sembravano dire quegli occhioni vuoti. Dacci carne fresca.
“A una prima impressione, è parso che l’uomo si fosse suicidato. Aveva un colpo di pistola alla testa, l’arma è stata trovata vicino al corpo, e su di essa c’erano le sue impronte. Non ha avuto un grosso impatto sui notiziari al momento – la gente muore ogni giorno, e abbastanza spesso si toglie la vita. Però io lo sapevo, ok, gente? Lo sapevo che quell’uomo non si era ucciso.”
Gli occhi lo osservavano. Migliaia e migliaia di occhi.
“Come facevo a saperlo?”
Nessuno disse una parola. Jefferson Monroe non aveva mai visto un gruppo così ampio di persone tanto silenzioso in tutta la sua vita. Percepivano che stava arrivando qualcosa di grosso, e che sarebbe stato lui a portare questo qualcosa.
“Sapevo che non si era suicidato perché conoscevo quell’uomo personalmente. Direi quasi che era mio amico. Si chiamava Patrick Norman.”
Jefferson non era estraneo alle bugie grosse. Ma comunque, a differenza di molti politici, provava una fitta quando mentiva. Non era senso di colpa. Era la sensazione che là fuori, da qualche parte, qualcuno conoscesse la verità, e che quella persona avrebbe lavorato instancabilmente per portarla alla luce. Anzi, non era nemmeno là fuori da qualche parte – almeno tre persone alle sue spalle sul palco conoscevano i fatti. Probabilmente ce n’era un’altra dozzina nell’organizzazione. Sapevano che Jeff Monroe non aveva mai parlato neanche una volta con Patrick Norman.
Insistette.
“Patrick Norman non aveva tendenze suicide – assolutamente. Al contrario, era uno degli investigatori privati migliori e più di successo degli Stati Uniti, e faceva un sacco di soldi. So quanto faceva perché lo pagavo io. Stava lavorando per la mia campagna al momento della morte.
“Fare campagna elettorale è un lavoro sporco, gente. Sarò il primo a dirvelo. A volte si fanno cose di cui non si è orgogliosi per guadagnare un vantaggio sull’avversario. E io ho assunto Patrick perché indagasse sulla corruzione nell’amministrazione Hopkins e nelle attività di compravendita del marito della futura ex presidente, Pierre Michaud. Ok? Vedete dove voglio arrivare?”
Un borbottio di approvazione, un forte mormorio, passò nella folla come un’onda.
“Patrick mi ha chiamato al telefono un paio di giorni prima di morire, e ha detto, ‘Jeff, ho trovato il fango che stai cercando. Devo solo seguire un altro paio di piste. Ma questa roba che ho – le cose brutte che ha fatto lei – farà saltare per aria le elezioni.’”
Quella era una bugia sopra a una bugia. Norman non lo aveva mai chiamato. Non lo aveva mai chiamato Jeff – non lo aveva mai chiamato proprio. Non aveva fango su Susan Hopkins, nemmeno dopo quasi un anno di ricerche. Aveva determinato che probabilmente era immacolata, oppure, se così non era, il fango era seppellito così in profondità che nessuno l’avrebbe mai scoperto.
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