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Capitolo I.
Un bel sogno avverato
“E andando da Chiavari a Lavagna, occorre in poca distanza il fiume nominato dagli antichi Entella, e dai moderni Lavagna; il quale ha la sua origine nel monte Appennino, di qua dalla terra di Torriglia in le confine di Bargagli e di Roccatagliata: e muoiono in questo fiume, Graveglia, Ollo e Sturla, torrenti che alcuna volta vengono con furia„. Grazie, monsignor Giustiniani, vescovo di Nebbio e annalista di Genova; grazie infinite, e basta così. È la “fiumana bella„ di Dante Alighieri, certamente la più bella di Liguria; e bene l’ha dichiarata tale il divino poeta, che le vide tutte, quante ce n’erano “tra Lerici e Turbìa„, ma su questa si trattenne più a lungo, guardandone dal ponte della Maddalena il largo specchio azzurrino, con le due file di pioppi che ne accompagnavano il corso. Ma noi non ci fermeremo qui, come il grand’esule fiorentino; risaliremo la fiumana bella fino al confluente del Graveglia, dov’essa fa una gran curva, per voltar poi risoluta a ponente maestro; e lì faremo alto ai Paggi, come ora si dice, e dove nell’anno di grazia 1506 durava ancora in ottimo stato un castello dei Fieschi.
In altri tempi s’era chiamato la Guaita; più tardi, con lieve mutamento, la Guardia. E meritava il suo nome, stando là come una scolta avanzata di tutte le terre Appenniniche ond’era formato il dominio dei Fieschi, gran ventaglio di borghi e castella che dalla Scrivia si stendeva alla Magra, includendo Casella, Savignone, Montobbio, Torriglia, Valdetaro, Santo Stefano d’Aveto, Varese, Pontremoli; e chi più n’ha ne metta, andando fin oltre i cinquanta. Passavano infatti questo numero le terre murate dei Fieschi; tenute con varia fortuna, s’intende, come in tempi guasti doveva accadere; onde i cinquanta e più feudi contigui scesero qualche volta a trentatrè, facendo ancora quel che si dice comunemente un bel numero.
Gran gente, quei conti di Lavagna! Disputata un pezzo al Comune di Genova la terra onde traevano il titolo maggiore e più caro, vedutosi fabbricare all’incontro, nel 1167, il castello di Chiavari, indi a trentun anno cedevano quel feudo invidiato, diventando nobili genovesi, e ben presto una delle quattro grandi famiglie potenti e prepotenti della Repubblica. Ricchi di capitani e d’ammiragli, come di cardinali e di papi, ora ripigliavano le terre perdute, ora altre ne acquistavano, a ristorarsi dei danni. Al tempo di cui raccontiamo, erano già molti rami di Fieschi, ma tutti strettamente collegati d’interessi, sotto gli auspicii del ramo principale, rappresentato allora da Gian Aloise, signor di Pontremoli, di Varsi, di Loano, di Montobbio; principe di Valdetaro e conte di San Valentino; marchese di Torriglia, Varese, Santo Stefano d’Aveto, Calestano, Vigolzone, Gremiasco, San Sebastiano, e via discorrendo per un pezzo; un gran signore, a farla breve, superiore nel tempo suo agli altri tutti d’Italia per ampiezza di dominio, e quasi un piccolo re. In Genova, tanta era la sua autorità, sedeva per decreto sugli anziani, e gli si davano i titoli d’illustre e di eccelso, come ai principi di corona.
Con queste fortune al casato e con le politiche necessità che ne conseguivano, la Guardia aveva riconquistata una parte dell’antica sua importanza militare. Il padrone era un valoroso; ma in patria non aveva fatto niente di notevole, e per quello che aveva fatto in terre lontane si poteva dire che riposasse sugli allori. Avrebbe difesa strenuamente la sua rocca, se mai fosse stata minacciata: per intanto l’aveva battezzata Gioiosa Guardia, in omaggio al cavalier Lancillotto di romanzesca memoria, ma più alla bellissima donna che da un anno aveva fatta signora del castello, impalmandola con rito solenne e con gran pompa comitale nella vicina chiesa di San Salvatore.
Era dunque gioiosa, la Guardia, per decreto recente del suo felice padrone. Ma non corrispondeva alla bellezza dell’epiteto la faccia smunta del suo custode, o gastaldo che vogliam dirlo, non potendo, per la presenza del legittimo signore, decorarlo del sonoro titolo di castellano. E nondimeno, quel gastaldo decorava l’ufficio con la misurata gravità dell’aspetto; a cui, nel pomeriggio del 5 marzo 1506, si poteva aggiungere la composta dignità dell’atteggiamento, quantunque egli fosse modestamente seduto sovra una panca, entro la prima cinta del castello, assistendo ad una partita di pallone, caldamente impegnata fra sei giuocatori. Diciamo di passata che cinque di essi erano uomini d’arme del castello, e il sesto un frate francescano, come appariva dalla tonaca, saviamente raccorciata a mezza gamba coll’aiuto del fido cordone, su cui ella veniva a far grembo.
Quanto al nostro personaggio, vediamo di abbozzarne in pochi segni l’asciutta figura. Appoggiate le mani scarne ma forti sul pomo della spada; accavalciate le gambe lunghe, che mettevano in mostra due stivaloni di cuoio cordovano e due calze divisate di bianco e d’azzurro; ritto il busto nel suo giubbone attillato di cuoio, donde uscivano le maniche di lana, divisate anch’esse dei due colori di casa Fiesca; ritta la testa che pareva tutta in fiamme pel colore della barba e dei capelli rosseggianti al sole; tirata un po’ indietro sul cocuzzolo la berretta, anch’essa di cuoio, con larghe frappe di bianco e d’azzurro, sormontata da una gran penna lionata di pavone, il nostro personaggio aveva una bell’aria di vecchio soldato in licenza, felice d’un po’ di riposo, ma pronto a gittar la berretta per calzar la barbuta. Non era bello, no davvero; aveva troppo scarno il viso lungo, e gli occhi grigi, quasi bianchi, sotto le ispide sopracciglia rossigne: il naso, poi, che incominciava colla buona intenzione di parere aquilino, finiva in una pallottola rossa, non conveniente di certo alla severità dell’aspetto, e molto meno alla dignità della carica. Ahimè, non si nasce perfetti. Ma don Garcìa, che tale era il nome del personaggio, non si dava un pensiero al mondo di queste fisiche imperfezioni. Era passato il tempo, se mai; ed egli godeva della vita quel tanto che se ne può godere di là dai cinquanta. Per allora, si dilettava di veder giuocare al pallone; era tutto nelle belle battute e nelle pronte rimesse, nelle volate e nelle cacce vinte; accennava del capo ai bei colpi, batteva le labbra ai falli. A lui si rimettevano nei casi dubbi, ed egli dava il responso, con calma e buon giudizio, senz’ombra di parzialità. Pure, come ogni fedel cristiano, egli avrebbe potuto pendere più di qua che di là, ed averne ancora la scusa, poichè uno dei giuocatori, il frate, era spagnuolo al pari di lui.
Perchè quella spagnuoleria là dentro? E come andava che non dispiacesse a nessuno? Diciamo subito che quei due spagnuoli, don Garcìa e frate Alessandro, e per terra e per mare erano stati compagni di ventura al signore del castello; e soggiungiamo che dei cinque giuocatori genovesi, tutti uomini d’arme della Gioiosa Guardia, tre erano stati coi due spagnuoli ai medesimi incontri, ricordando altresì che più di tutti aveva rischiata la pelle quel vecchio, non solamente per far servizio al loro signore, ma ancora per salvare la bellissima donna, diventata da un anno cristiana e contessa, col nome di Giovanna del Fiesco.
Queste erano ragioni da bastare là dentro, rendendo cari, non che tollerabili, i due forestieri. Ma della ammissione d’un di loro in ufficio tanto geloso dovevano pur fare le meraviglie taluni di fuori, che non sapevano bene le cose. Ed uno di costoro, Filippino Fiesco, passato due mesi prima da Gioiosa Guardia, non aveva potuto trattenersi dal farne cenno al signore del luogo.
– Cugino Bartolomeo, – gli aveva detto, temperando con un suo risolino l’impertinenza della domanda, – che v’è saltato in mente di prendere per servitore uno spagnuolo? Siamo per Francia, noi, non per Castiglia e Leone.
– Ah, sì? – aveva risposto Bartolomeo Fiesco. – E meglio per noi, che non fossimo per nessuno. Quanto alla gente fidata, si raccatta dove si trova. Il mio gastaldo io l’ho conosciuto tra Spagnuoli, e di dovunque egli sia, me lo tengo caro. Del resto, che ci trovate di strano? Io non faccio altro che imitare il re Cristianissimo.
– In che modo?
– Nell’unico che sia possibile a me. Chi ha messo egli a comandarci, che Iddio lo benedica?
– Monsignor Filippo di Cleves, signore di Ravenstein, – rispose Filippo Fiesco, – regio governatore e luogotenente generale dei Genovesi, come cantano tutte le gride.
– Dimenticate “ed ammiraglio del Levante„; – ripigliò Bartolomeo Fiesco. – Ma forse egli pare anche a voi un ammiraglio d’acqua dolce. Quello, del resto, è il capo della gente di Francia, mandato qui per figura e per indorarci la pillola. Io intendevo parlare del comandante vero, di quello che fa tutto in casa nostra. Non è questi il Roccabertino? E chi è il Roccabertino? non è forse un Aragonese? Ed io ho per luogotenente un Catalano. La differenza è qui tutta. —
L’argomento non ammetteva risposta; e messer Filippino potè anche pensare che ognuno in casa sua si governa a suo modo. Nè altre molestie ebbe don Garcìa, che veramente non le meritava. E tutti sapendo ch’egli era stato buon compagno di rischi del capitano Fiesco, nessuno conobbe mai quale alto ufficio avess’egli esercitato in Haiti. Tacevano le sue gesta i pochissimi che avrebbero potuto parlarne; frate Alessandro, ad esempio, suo conterraneo e suo introduttore alla mensa soldatesca nel bosco di Xaragua; Giovanni Passano e Pietro Gentile, che di aiutanti del Fiesco essendosi mutati in aiutanti di don Garcìa per una lugubre impresa, non avevano nessuna ragione di vantarsene, quantunque nella brutta occasione avessero imparato a stimare quell’uomo. Senza di lui, come si sarebbe salvata la infelice regina di Xaragua? Senza i casi che necessariamente n’erano seguiti, come si sarebbe salvata Higuamota, la graziosa fanciulla, diventata moglie a Giovanni Passano un mese dopo che sua madre era diventata contessa del Fiesco?
Fortunato, il Passano! Restava luogotenente del conte; ma in tempo di pace, com’erano allora i nostri reduci del nuovo Mondo, faceva dell’altro, vivendo molto a Genova e curando gl’interessi del suo protettore. Lo chiamavano già Da Passano. E perchè no? Forse era della stirpe onorata di quei nobili della Riviera di Levante, e il nome voleva pur dire qualche cosa, anzi più di qualche cosa, in un tempo che quei de e quei da non si usavano con norme fisse. Era il tempo, o giù di lì, che un gran capitano di ventura, d’antico ceppo parmense, signor di Berceto, di Torchiara e di San Secondo, si sentiva chiamare promiscuamente Pier Maria Rossi e Pier Maria De Rossi; ed egli poi, a farlo a posta, sull’ingresso di Torchiara faceva scolpire il suo nome nella umilissima forma di Pietro Rosso. È vero che lo metteva in fin di verso, per far rima a modo suo con due finali in “orso„. Ma, per trovare esempi più prossimi, gli stessi conti di Lavagna non avevano sempre creduto, coi genealogisti di casa, d’essere stati chiamati Fieschi, per una ottenuta prefettura del Fisco imperiale in Italia, donde sarebbe venuta la più o meno naturale storpiatura del Fliscus. Il nostro Bartolomeo, che gradiva anche alle sue ore il nome di Damiano, lasciava correre un Bartholomeus Frescus in atti notarili; e questo forse in omaggio ad una più modesta genealogia del 1171, quando due conti di Lavagna avevano preso a far cognome dai lor soprannomi di Fresco e di Secco, trovati buoni a distinguere le loro due nobili persone, che portavano il medesimo nome di Ugo. Non troppo dissimilmente i contèrmini Malaspina si erano spartiti in due rami, il fiorito ed il secco.
Ma torniamo a don Garcìa, che in tutte queste minuzie non ha niente a vedere. Era un brav’uomo, che si sapeva contentare, avendo un pane onorato per la vecchiaia. Faceva un po’ di tutto, alla Gioiosa Guardia. Antico soldato, insegnava anche il mestier delle armi ai vassalli del conte; nei giorni festivi metteva in ordinanza un centinaio di fanti a piedi, e una diecina d’uomini a cavallo, che facessero bella mostra battendo le strade da Chiavari a Carasco, a San Colombano e più oltre. Invigilava, nelle stagioni opportune, ai raccolti dei poderi, e riscuoteva in nome del conte tutti i diritti feudali, facendo qui, come del resto, assai bene le cose, con gravità, senza rigore, con giustizia che non escludeva la umanità, persuaso dopo tutto di far piacere al padrone, e più ancora alla padrona.
Quella donna era amata, adorata per tutta la valle dell’Entella e per le vicine convalli dello Sturla, della Graveglia, dell’Ollo. Bisognava vedere che calca di gente, quando, insieme colla nobilissima suocera, la veneranda madonna Bianchina, scendeva ai divini uffizi nella chiesa di San Salvatore. Ricordavano tutti che ne’ suoi paesi di là dall’Atlantico era stata regina; e naturalmente si magnificava il suo lontano reame. Quello che non si poteva ingrandire, perchè già troppo grandeggiava da sè, era la sua stupenda bellezza. La sua carnagione d’un color caldo oltre il tipo europeo, non appariva neanche tale, smorzata com’era e condotta al vermiglio dallo strano onnipotente fulgore delle pupille nerissime. E ferivano, quelle pupille, dovunque si volgessero a caso; e molti si sarebbero lasciati ferir volentieri, a patto di sentirle rivolte a sè con qualche pietosa intenzione. Ma la contessa, nel fatto, non aveva occhi se non per il suo dolce marito, che spesso le accadeva di chiamare Damiano. E a lui più spesso accadeva di chiamarla Fior d’oro: Giovanna non mai; piuttosto, alla spagnuola, Juana, che riteneva molto del suono di Anacoana. I nomi, si sa, non hanno piccola importanza, in amore.
Anche a lui volevano bene quei terrazzani, più ancora che non lo rispettassero come vassalli. Già, non lo tenevano quasi più per un Fiesco; tanto che, all’usanza di Genova, lo chiamavano Bartolomeo delle Indie. Sicuro, e bene prendeva egli il nome da quelle Indie occidentali, dov’era stato quattro volte ad ogni sbaraglio, prode soldato, esperto navigatore, singolarmente caro a quell’altro Genovese, così grande e così maraviglioso uomo, che le aveva scoperte per potenza d’ingegno e di fede. Quanti erano stati con lui partecipavano un poco della sua epica grandezza; perfino i due umili marinai, Guglielmo e Battista, che si erano ridotti a vivere anch’essi nel recinto ospitale della Gioiosa Guardia, e che tutti i giorni di festa, infallantemente, seduti all’ombra fuor della porta del castello, tenevano cattedra di geografia transatlantica. A quei discorsi accorreva sempre più gente che non alle prediche dei frati, i quali pure descrivevano qualche volta le magnificenze del regno di Dio. Ma in queste si sentiva sempre lo sforzo di fantasia di chi non c’era mai stato; laddove le magnificenze del nuovo Mondo avevano avuto quei due semplici marinai per testimoni recenti.
Che fossero egualmente veridici non si potrebbe giurare. Raccontavano le cose come se le avessero ancora davanti agli occhi, e raccontandole ne davano il barbaglio agli occhi dell’uditorio. Si trattava d’oro, infatti; oro a mucchi, in pagliuole ed in polvere, da tuffarci dentro le braccia fin sopra il gomito; oro ad ogni piè sospinto, a colonne, a pilastri, a scaglioni, a piramidi; oro a bizzeffe, in quel paese di Veraguas, dove bastava smuovere un pochettino le zolle, per trovar le radici degli alberi affondate in quel coso giallo lucente; oro nel fiume dello Yaque, presso San Domingo, ove del prezioso metallo non erano fatte solamente le arene del fondo, ma i ciottoli delle due rive, e i massi e le scogliere delle svolte. Che poesia, quella dell’oro! E come è nata? Tutta per amore della sua bellezza in sè, o non per l’acquisto, che rende così facile, d’ogni desiderata fortuna?
S’intende che i due narratori non si fermavano alla magnificenza delle cose inanimate. Anche gli uomini, laggiù, erano d’una specie insolita; e tra gli uomini il Prete Janni, favolosa figura del Medio Evo, ci aveva la sua parte non piccola. Guglielmo non lo aveva veduto; Battista nemmeno. Personaggi così alti come il Prete Janni non si lasciavano vedere da poveri marinai; ma il grande scopritore del nuovo Mondo sì, lo aveva veduto, gli aveva parlato a lungo, era stato suo ospite, accolto alla sua mensa, nella sua intimità. Quel gran monarca si era tanto innamorato delle virtù di Cristoforo Colombo, che lo avrebbe caricato di diamanti, se questi si fosse risoluto di prender servizio con lui. E si diceva a San Domingo che l’odio di Aguado, di Bovadilla e di Ovando contro l’ammiraglio e vicerè delle Indie fosse nato appunto da questo, che il Prete Janni aveva fatto festa a lui, non volendo veder loro neanche come prossimo; ond’era avvenuto che verdi dall’invidia fossero andati ad accusar l’ammiraglio presso Ferdinando il Cattolico, dipingendolo come uno che era già in via di tradirlo, sottraendo alla corona di Spagna i benefizi della grande scoperta. Sicuramente, l’ammiraglio poteva far ciò, solo che lo avesse voluto. Il prete Janni lo stringeva tanto colle sue offerte d’amicizia! Figurarsi, che voleva dargli in moglie sua figlia, ricca come il mare, bella come il sole, e buona come il pan di Natale. Ma il signor ammiraglio non si era lasciato prendere all’amo; aveva resistito a tutte le offerte, a tutte le promesse più lusinghiere; tanto più che da genovese sottile s’era accorto che la bella aveva un occhio di vetro. Bella, poi, la vantavano tutti alla Corte; ma Guglielmo e Battista non l’avevano veduta mai. Un’altra, piuttosto; e quella bella era bellissima; e il loro capitano se l’era portata via, quantunque regina, e l’aveva fatta contessa. Già, tutti i salmi finivano in gloria.
Qui poi l’uditorio poteva dar ragione ai parlatori, e in piena cognizione di causa. Un tal miracolo di donna non si era visto mai, neanche dai più vecchi, che pure avevano veduta entrare in casa Fieschi madonna Bianchinetta, nel primo fiore della sua gioventù. Che splendore di sposa, quella regina delle Indie! Per lei si era scomodata, e con ragione, tutta la casata dei Fieschi; ed anche gli altri rami minori dei conti di Lavagna, come gli Scorza, i Bianchi, i Della Torre, i Levaggi, i Leivi, gli Zerli, i Cogorno, i Cavaronchi, i Ravaschieri, i Penelli. Il capo dei Fieschi, in persona, l’eccelso conte Gian Aloise, aveva lasciato Genova e la sua reggia di Vialata, per assistere alla cerimonia, per condurre egli stesso quella regina del nuovo Mondo all’altare. E bella come il sole, poichè non si poteva trovare un paragone più alto; e buona come il pan di Natale, e dotta come un libro stampato. Come parlava l’italiano! come il genovese, che è poi la madre lingua d’ogni buon Ligure, e certamente quella del Paradiso terrestre; specie colla giunta di quella sonora e dolce cantilena chiavarese! Difatti, anche queste finezze aveva imparate in pochi mesi la regina delle Indie. E si andava a sentirla, ma più ancora a vederla, senza stancarsene mai, nelle domeniche, quando la bellissima donna, ritornata dai divini uffizi, scendeva alla porta del castello per distribuire il pane ai poveri dei dintorni. Quei poveri si moltiplicavano come i pani e i pesci dell’Evangelio. C’erano molti che si facevano poveri a bella posta: ma erano riconosciuti, e tenuti lontani. Solo alle donne, che usavano di questo sotterfugio per avvicinarsi alla signora contessa, non si faceva il torto di cacciarle; per rispetto al loro sesso si lasciavano accostar tanto, che la signora le riconoscesse da sè.
– E voi, che cosa chiedete? – diceva ella, ridendo d’un risolino malizioso. – Non siete già povere, voi!
– Oh, signora, siamo bisognose la parte nostra; – rispondevano le più ardite. – E siamo venute, perdonateci… siamo venute a prenderci un’occhiata di sole. —
Sorrideva, la bellissima donna, arrossendo; e dava un ceffone, con la sua morbida mano; ma tanto leggero, che pareva una carezza, ed era ricevuto con divozione, come la guanciata del vescovo alla cresima.
– Qui non voglio altri che poveri, avete capito? —
Così conchiudeva, volendo parere sdegnata. Ma c’era tanta soavità d’accento nel rimprovero, e tanto sorriso nello sfolgorìo di quegli occhi scorrucciati, che le buone valligiane di Carasco, di Graveglia e di Paggi levavano le mani in atto di adorazione, come se avessero veduta la Madonna, e in cuor loro promettevano di ritornarci la domenica vegnente.
Gioiosa Guardia, davvero, sotto la benefica luce di quegli occhi celestiali. Ma qualche volta su quei begli occhi si stendeva un velo di mestizia. Passavano allora le immagini di un altro popolo, assai più numeroso, amante anche quello e devoto, ma che aveva la sua quiete, la sua sicurezza da lei, e non era avvezzo a provare più gran gioia nella vita, di quando si raccoglieva estatico ad ascoltarla, rapito ai suoni del maguey, agli accenti soavi dell’areìto Povero popolo d’Itiba! come lo avevano ridotto allo stremo quei feroci conquistatori spagnuoli, deludendo i nobili disegni del Giocomina, del venerando condottiero dei Figli del Cielo! Ma se il ricordo d’Itiba era triste, la bella ed infelice regina di Xaragua aveva imparato molte cose nella terra di Azatlan. Era disceso su questa terra un altr’uomo dolce, buono, compassionevole ai mesti, un uomo divino, e avevano voluto sperimentarne la virtù infinita mettendolo in croce come un malfattore; poi si erano pentiti, lo avevano riconosciuto in ispirito e verità, gli avevano eretto altari, e lo adoravano, e lo mettevano in croce ogni giorno, disconoscendolo, bestemmiandolo, negandolo nei giorni della spensierata allegrezza, per invocarlo nell’ora della paurosa avversità, superbi a vicenda e codardi, sopra tutto eternamente fanciulli.
Perciò qualche volta accadeva anche a lei d’esser mesta. Ma quelle erano le nubi passeggere, candidi fiocchi vaganti, che macchiavano all’orizzonte un bel cielo d’estate, senza turbarne il sereno. Ed era felice, oramai, quanto è dato a creatura umana sulla terra; felice per quell’uomo che viveva adorandola, e non si muoveva di là, dove l’aveva condotta a rifugio. Che amasse la sua rocca e il suo poetico Entella, non si poteva dubitare, poichè tante volte lo diceva egli stesso. Ma non così aveva amato quel fiume e quelle mura negli anni della adolescenza, quando animoso cacciatore batteva le macchie, ed era sull’Antola o sul Penna più spesso e più volentieri che in casa. In quel castello era nato; su quelle rive beate era cresciuto, ricco, orgoglioso del nome e della potenza che confortava quel nome; e giovane si era mescolato in Genova alle zuffe micidiali del tempo, avendone presto la sazietà. Curioso di dottrina, o più vago di novità, aveva atteso agli studi nella università di Pavia, riportandone come un fastidio d’anni sciupati; ond’egli non aveva cercato nella quiete della sua terra il rimedio alle pene del cuore, ma si era buttato per morto alle imprese del mare. E quali imprese! Non già per diventarci padron di galere, e da fortunati scontri aver lustro e potenza come tanti altri suoi pari e consorti, per vantaggio di una casata che omai ridiventata padrona dell’antico dominio, lo aveva allargato quasi a reame, dall’Appennino al mare e dalla Scrivia alla Magra; bensì per tentare un cammino ignoto, col rischio di giungere ad un punto donde il naviglio si sprofondasse nel vuoto. Orribile chiusa, e creduta allora certissima! Il guaio non gli era occorso; aveva potuto ritornare, e con la sua parte di gloria. Pure, ricondottosi a casa, non aveva potuto star fermo; viaggi su viaggi, fortunali e vitacce da cani; spesso in pericolo d’andar pastura ai pesci, più spesso di buscarsi un colpo di freccia avvelenata; prigionia tra i selvaggi, condanna a morte, agonia a fuoco lento, nulla aveva potuto corregger l’umore vagabondo del gentiluomo marinaio, di quell’argento vivo. Ed ecco, di punto in bianco, il gran cambiamento: quell’umor vagabondo, quell’argento vivo, s’era chetato ad un tratto: lui tutto casa, lui tutto “fiumana bella„, lui tutto moglie, e innamorato per giunta, come un ragazzo di vent’anni. Ma ecco, il segreto del mutamento era qui.
– Come sei buono, Damiano! – gli bisbigliava Fior d’oro.
– Sfido io! – rispondeva egli, con quel suo piglio che volentieri girava al comico. – Son buono, perchè sono felice. E sono felice…
– Perchè? – domandava lei, con accento di cara malizia.
– Perchè… – ripigliava Damiano, girando un po’ largo, per voglia di ridere. – Perchè ci ho la mia Gioiosa Guardia che amo tanto…
– Giustissimo; e la tua “fiumana bella„ – suggeriva lei, prestandosi al giuoco assai volentieri. – Con queste due cose…
– Con queste due cose ci sarebbe anche da morir di noia; – proruppe Damiano. – Le avevo, e non mi sono bastate. Diciamo dunque, per essere nel vero, che ci ho te, cara donna adorata. La più bella donna, nel verde più vivo, sotto il più dolce azzurro del mondo, ecco la felicità vera ed unica. Ed ecco quello che io volevo dire, contessa Juana, se voi mi aveste lasciata fare la mia progressione ascendente.
– E non ve l’ho lasciata fare, da quella gran cattiva che sono! Ma voi me ne punite tanto severamente, che avrei voglia di rifarmi da capo. Per altro, – soggiunse ella, mettendosi sul grave, – dicono che un bene posseduto non sia più un bene.
– Vedete che logici da strapazzo! – replicò Damiano, ridendo. – Il bene è il bene, di qui non si esce. Se si mutasse, sarebbe un’altra cosa, ne convengo. Ma come potrei volerlo mutato? In più no, perchè io ho tutto quello che desideravo. In meno, neanche, perchè quello che desideravo lo desidero ancora: e questo è il fatto, la condizione su cui possiamo fondare il nostro ragionamento. Ho io studiata bene la mia logica?
– Eh, non voglio dire di no. Il mio signore ha sempre ragione. Ed era il bel sogno, questo, – diss’ella traendo un sospiro, – il bel sogno che ho sognato con te. Il bel sogno si è finalmente avverato; o Dio, tra quanti pericoli, tra quante angosce mortali! Se c’è giustizia in terra, il bel sogno non dovrebbe finire.
– Così dico io; – conchiuse Damiano. – Non dovrebbe, non deve, non dovrà. Dimmi, Fior d’oro; sei tu sicura di te?
– Oh sì, di me… – gridò ella, levando gli occhi al cielo. – Ed anche di te, – soggiunse tosto, – anche di te, conte Fiesco, che sei così nobile spirito e così candido cuore. Ma non presumi troppo delle tue forze… e della natura umana? È della donna amare, e saperlo far bene, non sapendo far altro: è dell’uomo l’operare, il faticare in qualche utile impresa, per deludere la sazietà… per vincer la noia… E per questo, me lo lasci dire?.. per questo, bisognerebbe forse mettersi a far qualche cosa. —
Tremava un pochino, parlando così, e mendicava le parole. Ma ebbe il pronto conforto di sentirsi dar ragione da lui.
– Sicuramente; – diss’egli. – Ci pensavo appunto stanotte, mentre tu riposavi, Fior d’oro. Bisognerà far qualche cosa. Ed ho trovato.
– Ah sì? E che sarà?
– Continuare ad amarti; – rispose gravemente Damiano, facendo cadere dall’alto, l’una dopo l’altra, le sillabe. – Vi ho lungamente contemplata, amica mia; vi ho pure abbracciata, ma guardingo, sapete, con mano leggera leggera, per non rompervi il sonno, che era così dolce; ed ho pregato Dio che non mutasse niente, che lasciasse tutto così, come ha tanto saviamente disposto, nella sua misericordia infinita. —
E voleva dare in una risata; ma non n’ebbe il tempo. La contessa Juana rideva già più di lui, non senza lagrime; quelle care lagrime che tanto abbelliscono ogni profonda allegrezza. E un po’ tardi, ma in tempo, gli ricambiava l’abbraccio.